Stalingrado Stalingrado

Stalingrado

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Quando Pëtr Vavilov, un giorno del 1942, vede la giovane postina attraversare la strada con un foglio in mano, puntando dritto verso casa sua, sente una stretta al cuore. Sa che l’esercito sta richiamando i riservisti. Il 29 aprile, a Salisburgo, nel loro ennesimo incontro Hitler e Mussolini lo hanno stabilito: il colpo da infliggere alla Russia dev’essere "immane, tremendo e definitivo». Vavilov guarda già con rimpianto alla sua isba e alla sua vita, pur durissima, e con angoscia al distacco dalla moglie e dai figli: «...sentì, non con la mente né col pensiero, ma con gli occhi, la pelle e le ossa, tutta la forza malvagia di un gorgo crudele cui nulla importava di lui, di ciò che amava e voleva. Provò l’orrore che deve provare un pezzo di legno quando di colpo capisce che non sta scivolando lungo rive più o meno alte e frondose per sua volontà, ma perché spinto dalla forza impetuosa e inarginabile dell’acqua». È il fiume della Storia, che sta per esondare e che travolgerà tutto e tutti: lui, Vavilov, la sua famiglia, e la famiglia degli Šapošnikov – raccolta in un appartamento a Stalingrado per quella che potrebbe essere la loro «ultima riunione» –, e gli altri indimenticabili personaggi di questo romanzo sconfinato, dove si respira l’aria delle grandi epopee. Un fiume che investirà anche i lettori, attraverso pagine che si imprimeranno in loro per sempre. E se Grossman è stato definito «il Tolstoj dell’Unione Sovietica», ora possiamo finalmente aggiungere che Stalingrado, insieme a Vita e destino, è il suo Guerra e pace.



Recensione della Redazione QLibri

 
Stalingrado 2022-05-10 15:18:43 kafka62
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
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4.0
Piacevolezza 
 
5.0
kafka62 Opinione inserita da kafka62    10 Mag, 2022
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L'ILIADE DI GROSSMAN

“Era il momento più triste della sua vita, quello, il momento in cui nel silenzio sonnolento che precede l’alba sentì, non con la mente né col pensiero, ma con gli occhi, la pelle e le ossa, tutta la forza malvagia di un gorgo crudele cui nulla importava di lui, di ciò che amava e voleva. Provò l’orrore che deve provare un pezzo di legno quando di colpo capisce che non sta scivolando lungo rive più o meno alte e frondose per sua volontà, ma perché spinto dalla forza impetuosa e inarginabile dell’acqua.”

Forse non tutti sano che “Vita e destino”, uno dei più grandi capolavori della letteratura del Novecento, è solo la seconda parte di un dittico. Chi ha amato e trepidato per i personaggi di Strum, della famiglia Saposnikov, di Krymov e di Novikov, può infatti ritrovarli tutti quanti in “Stalingrado” e seguire le loro peripezie prima e durante la famosa battaglia che ha deciso le sorti della Seconda Guerra Mondiale. E’ abbastanza curioso che “Stalingrado” sia apparso, almeno in Italia, con così forte ritardo rispetto alla sua prima pubblicazione ufficiale. La ragione è che, mentre “Vita e destino”, pur bandito e sequestrato dal regime staliniano, è giunto clandestinamente in Occidente nella sua forma definitiva, “Stalingrado” è stato originariamente edito in una versione fortemente rimaneggiata dai tagli della censura, ed è stato pertanto difficile ricomporre il libro secondo quelle che erano state le intenzioni dell’autore. Va detto subito che, anche nella sua versione “director’s cut” (per dirla con una terminologia ampiamente in uso nella settima arte), “Stalingrado” non è qualitativamente allo stesso livello di “Vita e destino”, mancando in esso quelle sfumature, quelle ambiguità, quelle riflessioni filosofiche che hanno reso il suo successore un’opera di rara profondità intellettuale e di incomparabile complessità etica. Non vi si ritrova ad esempio l’ardito parallelismo tra nazismo e stalinismo (ad esempio, nell’illuminante colloquio tra Liss e Mostovskoj, in cui l’ufficiale tedesco, direttore del lager dove è rinchiuso il secondo, si paragona al bolscevico), aspetto che, insieme alla descrizione dei gulag, delle purghe di partito e del soffocante clima di conformismo ideologico dell’epoca, ha contribuito a far cadere in disgrazia lo scrittore sovietico, il quale per di più era ebreo in un periodo in cui, nel dopoguerra, si stava affermando in Russia una campagna subdolamente antisemita. In “Stalingrado” non c’è quasi nulla di tutto ciò: il nazi-fascismo è dichiaratamente, inoppugnabilmente, il male e lo stalinismo è la forza che gli si è opposta, il baluardo della libertà in Europa. Stalin e Hitler non sono perciò due facce della stessa medaglia, due espressioni della medesima politica autocratica e illiberale, ma il leader dell’Unione Sovietica è ancora visto come il simbolo del coraggio, della tenacia e della pazienza del popolo russo. “Stalingrado” è purtroppo impregnato di una retorica talvolta fastidiosa (non è difficile trovarvi frasi come “Nelle ore fatali in cui l’enorme città moriva… la Russia non si fece schiava né morì; fra la cenere ardente e il fumo, la forza dell’uomo sovietico, il suo amore, la sua dedizione alla libertà resistettero ostinatamente, indistruttibili, e fu proprio quella forza indistruttibile a trionfare sulla violenza mostruosa, ma vana, di chi voleva renderla schiava”), e l’ingenua fiducia nella rivoluzione comunista è solo in minima parte incrinata dalla descrizione onesta di quelle crepe che già stavano delineandosi nella società del tempo e che ben presto si sarebbero trasformate in enormi, irrisolvibili contraddizioni, che la censura non avrebbe più consentito di far emergere. Grossman è qui ancora permeato di una tiepida fede nella ideologia staliniana e nella genuinità della sua lotta antifascista (dimenticando colpevolmente il patto di non belligeranza che vigeva tra i due paesi prima dell’invasione del giugno 1941). In fondo, chi ha attentato per primo alla pace si ritrova automaticamente dalla parte del torto, e nell’urgenza della dura guerra di resistenza la natura reazionaria del regime sovietico è giocoforza passata in secondo piano, e tra due mali il male minore è diventato il bene, in quanto si è trovato a combattere, anche se magari obtorto collo, “per una giusta causa” (questo era non a caso il titolo originario del romanzo).
Scritto secondo i dettami del realismo socialista, “Stalingrado” se ne allontana in realtà abbastanza nettamente per la sua profonda sensibilità umanistica. Tra ideologia e individuo, Grossman non ha mai dubbi e sceglie sempre il secondo. Quando ad esempio il commissario del distretto chiede a Vavilov perché ha dato ospitalità a un fuggiasco, l’uomo risponde: “Per compassione… era un essere umano”. Grossman mostra una profonda simpatia per i suoi personaggi, trascinati dalla forza della Storia che, come “un gorgo crudele”, li strappa agli affetti e alla loro vita semplice, operosa e tranquilla. In “Stalingrado” i personaggi lottano, soffrono, si tormentano, ma sono anche capaci di emozionarsi di fronte alla bellezza della vita (“Che emozione, che presentimento fortissimo! – si trova a pensare Strum – Non di una felicità imminente, no; era una sensazione ancora più grande: era la vita”), di godere dei piaceri della natura, del cibo o dell’amicizia, di amare e di innamorarsi, pur tra le privazioni e la fame, tra le fughe e i bombardamenti. Il romanzo abbonda di momenti di lirica sospensione, di quei frangenti in cui al sibilo lacerante delle sirene e al fragore terribile e incessante delle bombe si sostituisce il magico silenzio di un’alba o l’incommensurabile purezza di un cielo stellato, attimi di epifania cosmica che conferiscono un nuovo, incontaminato senso all’esistenza e rendono, per contrasto, ancora più odiosa e bestiale la realtà della guerra. La descrizione dei colori, degli odori e dei suoni della steppa, oppure l’ultima notte di pace che Novikov rimembra, soffermandosi sulle sfumature del cielo, sul contorno degli alberi, sul chiaro di luna che trasforma la pietra in marmo (concludendo che “tanta bellezza… ci dice una cosa soltanto: vivere è bello”), sono pagine struggenti che elevano il romanzo dalla prosaicità della cronaca bellica. Grossman riesce a restituire la bellezza del mondo e dell’esistenza, ma ancor di più le profondità più nascoste e autentiche degli esseri umani, profondità cui è dato accedere solo nei momenti più gravi e tremendi della vita, in quei “tempi in cui l’anima ha i calli della sofferenza”. C’è nelle pagine di “Stalingrado” un profondo senso della sacralità della vita umana, della sua unicità e irripetibilità, e il biasimo più grande nei confronti della guerra lo si trova non tanto nelle immagini crudeli della devastazione della natura o della distruzione delle città, quanto nella descrizione della morte di un bambino di sei anni schiacciato da una trave di ferro durante un bombardamento, “perché se esiste una forza capace di risollevare dalla polvere città enormi, non c’è forza al mondo in grado di risollevare le palpebre dagli occhi di un bambino morto”. Al nazismo che, con la sua folle presunzione di assoggettare il mondo alla propria megalomane volontà di potenza, ha creduto di poter annientare interi popoli, Grossman, da fervido umanista qual è, replica che l’energia spirituale di un popolo è indistruttibile, è eterna e, come l’energia del sole che “attraversa deserti di buio e riprende vita tra le foglie di un pioppo, nella linfa di una betulla”, è sempre capace di riemergere dai periodi più oscuri e drammatici della Storia. E che non la si possa distruggere, questa energia spirituale, “lo si capisce dal fatto che i leader della crudeltà e della violenza fascista cercano sempre di convincere i rispettivi popoli di essere i paladini della giustizia e del bene sociale. Li commettono in segreto, i loro crimini peggiori, perché sanno per esperienza che il male non porta solo altro male, ma può anche generare il bene, oltre a schiacciarlo” (quanto queste parole risuonano preveggenti in questi giorni, anzi proprio in queste ore – mentre scrivo queste righe, lunedì 9 maggio, che per una curiosa coincidenza è il giorno della ricorrenza della vittoria russa contro il nazismo, probabilmente nella Piazza Rossa di Mosca si sta dispiegando la falsa propaganda patriottica di un leader che pretende di far passare una guerra di aggressione per una lotta democratica volta a scongiurare l’oppressione e il genocidio “nazisti”!).
In “Stalingrado” la guerra ha, ovviamente, una parte preponderante, oltre a occupare l’intera terza parte del libro. Quella del romanzo di Grossman è una costruzione implacabile, avvincente che l’autore sa restituire in maniera prodigiosamente realistica, destreggiandosi con grande abilità nel vorticoso, caotico succedersi degli avvenimenti bellici, tra attacchi nemici, ritirate e contrattacchi, bombardamenti e incursioni aeree, in cui vengono messe a fuoco le emozioni di un generale di Stato maggiore così come quelle di un insignificante fante che combatte in prima linea, quelle di un abitante di Stalingrado così come di un contadino della sterminata campagna russa, di uno scienziato oppure di un minatore o di un operaio di un’acciaieria. Le parole di Grossman sanno incontestabilmente di vita vissuta, e questo non è, una volta tanto, un semplice modo di dire, perché Grossman ha davvero visto con i suoi occhi le cose di cui parla nel suo libro, in quanto dal 1941 al 1945 ha operato al fronte come corrispondente di guerra. Anche se egli è stato testimone degli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale, la sua sintesi è comunque straordinaria, dal momento che quando si è calati nel vivo delle cose spesso si tende a percepirne solo i dettagli ma non il quadro generale. In “Stalingrado” ci sono invece tanto gli aneddoti di vita militare più minuscoli quanto la visione più ampia e oggettiva della Storia. Come si era già detto recensendo “Vita e destino”, “Stalingrado” ha anche una incontestabile ispirazione tolstojana. Di questo Grossman era sicuramente consapevole, tanto è vero che nel romanzo c’è un omaggio esplicito a Tolstoj, quando Krymov, durante i suoi spostamenti militari, si reca a visitare la casa-museo di Jasnaja Poljana e si rende conto che “il presente si fondeva con quanto Tolstoj aveva descritto nel suo libro con una forza e una verità tali da far diventare realtà per antonomasia una guerra combattuta centotrent’anni prima” (“Quando poi, con un cappottino sulle spalle, dalla casa era uscita Sofja Andreevna, la nipote di Tolstoj,… Krymov aveva faticato a capire chi fosse – se la principessina Marja che scendeva per l’ultima volta in giardino prima che i francesi arrivassero a Lysye Gory, oppure la nipote del conte Tolstoj”). Le pagine epiche dell’assedio di Stalingrado non hanno nulla da invidiare a quelle di “Guerra e pace” e riscattano il romanzo da qualche inevitabile debolezza retorica. A mio parere “Stalingrado” sta a “Vita e destino” come l’Iliade sta all’Odissea. E se la mia preferenza va senz’altro al poema che ha ispirato il XXVI canto dell’Inferno di Dante e la poesia “Itaca” di Kavafis, pure non riesco a non rimanere affascinato di fronte ai versi immortali della guerra di Troia. Allo stesso modo, pur consapevole di non trovarsi di fronte a un capolavoro perfetto, il lettore viene fatalmente rapito dalle gesta dei personaggi di “Stalingrado”, avvinto dalla sua sapiente e monumentale (ma per nulla disagevole) costruzione narrativa, letteralmente incollato dalla prima fino all’ultima, emozionante pagina, spettatore attonito e muto del furioso imperversare di quel mostro sanguinario il quale, come purtroppo la cronaca odierna insegna, è sempre in grado di risorgere dalle proprie ceneri e di esigere, crudele e implacabile, la sua moltitudine di vittime sacrificali.

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"Vita e destino" di Vasilij Grossman
"Guerra e pace" di Lev Tolstoj
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