L'Avversario L'Avversario

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unfioreounlibro Opinione inserita da unfioreounlibro    20 Luglio, 2023
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Raccontare l'ambiguità

Ne "L’avversario", Emmanuel Carrère racconta la storia di Jean-Claude Romand, famoso criminale francese che nel 1993 uccise moglie, figli e genitori, dopo aver finto per più di dieci anni di essere un ricercatore in medicina. Non appena ne ho letto la presentazione, mi sono subito sentita fortemente incuriosita e desiderosa di leggerlo: com’è possibile che un uomo riesca a ingannare tutti quelli che lo circondano per così tanto tempo? E, soprattutto, quali misteriose ragioni lo spingono a farlo?

Il libro è scritto dal punto di vista di Carrère, che, sin dal primo momento in cui ha sentito parlare del caso, ha concepito il progetto di scrivere su di esso, seguendo l’iter giudiziario, incontrando i conoscenti di Romand e stabilendo addirittura una corrispondenza epistolare con quest’ultimo. La maggior parte delle pagine, tuttavia, è dedicata alla storia del finto medico, inserita nel resoconto del processo come se stessimo assistendo alla sua ricostruzione in tribunale. Lo stile è fedele a quello giornalistico; non cede, cioè, alla tentazione di speculare sulla vita interiore dei personaggi, ma si limita a riferire quanto essi stessi hanno dichiarato nel corso dell’inchiesta.

In generale, ho apprezzato tutte le decisioni che Carrère ha preso nel costruire il libro. La scelta di narrare contemporaneamente la storia dell’imputato e il processo non è particolarmente originale (mi ha ricordato la sceneggiatura di diversi film giudiziari), ma ci permette di immedesimarci negli spettatori presenti in aula, formulando a nostra volta ipotesi e giudizi. Quella di adottare un tono obiettivo, invece, è addirittura geniale, poiché mantiene fino alla fine l’incertezza sulla figura di Romand: era vittima di forze oscure o di banali disturbi psichici? Voleva evitare di far soffrire i suoi cari o semplicemente di confessare loro la verità? Ha trovato una via di redenzione nel Cristianesimo o sta di nuovo fingendo?

L’unico difetto, secondo me, è che, all’inizio del libro, Carrère parla di un primo progetto molto diverso da quello che ci ritroviamo tra le mani; mi sarebbe quindi interessato capire che cos’ha determinato questa svolta. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che troppe digressioni autobiografiche avrebbero rischiato di appesantire l’opera, nonché di distrarre dai suoi principali nuclei tematici (avevo avuto quest’impressione ne "Il Regno", dello stesso autore). Così com’è, invece, "L’avversario" risulta una lettura scorrevole e coinvolgente, che, se non dice l’ultima parola su Jean-Claude Romand, sicuramente apre le porte su un personaggio tutt’ora affascinante.

“Di norma una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand.”

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    14 Settembre, 2020
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Vorrei ma non posso

Dopo tante opinioni positive lette su questo lavoro di Emmanuel Carrère, finalmente mi decido di provare anche io la prosa di questo autore francese contemporaneo. Fortunatamente è stato un incontro breve e probabilmente l'unico.
Una cosa che mi infastidisce in uno scrittore è la sua presunzione dichiarata, il suo narcisismo e quando esso è anche immotivato e i nobili intenti vengono meno, allora il fastidio si trasforma in una pessima opinione. E' questo che mi è capitato con Carrère. Da lettore ti senti un po' anche preso in giro. Dopo una bella introduzione in cui l'autore, dichiara senza mezzi termini che il suo intento non è quello di analizzare i fatti che hanno portato alla tragedia familiare in cui Jean-Claude Romand stermina la sua famiglia, quello essendo il compito delle indagini e che usciranno inevitabilmente fuori, ma il suo vero intento, da scrittore, è quello di inseguire i pensieri dell'assassino durante questo periodo, di calarsi nella sua mente mentre errava in questa sua vita di menzogne e inseguilo nella sua solitudine, contando anche (e soprattutto) sull'aiuto di Romand stesso, il lettore si aspetta una determinata piega del discorso. Il risultato è piuttosto deludente: il libro è un mero riepilogo dei fatti, un assistere al suo processo in aula e dove lo spazio dedicato all'introspezione è totalmente assente, sostituito solo da domande sciocche, da bar, che non portano a nulla, nemmeno alla riflessione. A questo punto mi chiedo: perché questo libro? Che senso ha visto che l'autore manca l'ambizioso intento? Probabilmente ha giovato solo a Jean-Claude Romand e alle tasche di Carrère, tant'è che Catherine Erhel, giornalista, gli da a Emmanuel Carrère dell'"imbecille" (sue testuali parole) per scrivere una storia simile:
"Chissà com'è contento che tu scriva un libro su di lui. Non ha sognato altro per tutta la vita. In fondo ha fatto bene a uccidere la sua famiglia, finalmente tutti i suoi desideri si realizzano. La gente parla di lui, appare in televisione, uscirà la sua biografia, e per la pratica di canonizzazione è sulla buona strada. E' quel che si dice venirne fuori alla grande. Percorso netto. Tanto di cappello."

Quindi non riuscendo a capire il perché e nemmeno l'utilità di questo libro né a livello letterale in quanto non ha uno stile particolare e la prosa è semplice, e nemmeno a livello psicologico del personaggio perché privo di introspezione, nel complesso per me è stata una esperienza deludente. Probabilmente nel suo narcisismo avrà voluto descrivere un Humbert Humbert o un Raskolnikov ma il suo Avversario è solo un lungo articolo di cronaca nera.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    04 Febbraio, 2020
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Jean Claude Romand

«Credo di non aver mai provato in vita mia un malessere fisico e morale così violento, e malessere è un termine troppo blando, sentivo crescere dentro di me, dilagare, pronto a sommergermi, l’indicibile panico dei vivi. Dopo diverse ore, di colpo, è finito tutto. Ogni cosa è diventata fluida e libera, e io mi sono reso conto che stavo piangendo a grandi lacrime calde, lacrime di gioia. Mai avevo provato un malessere simile, mai ho provato un simile senso di liberazione. Per un attimo sono rimasto senza capire, immerso in quella specie di estasi amniotica.»

All’OMS nessuno lo conosceva. All’ordine dei medici non era nemmeno iscritto. Il suo nome non figurava nelle liste degli ospedali parigini in cui sosteneva di aver fatto tirocinio, né in quelle della facoltà di Medicina di Lione, benché tanti amici, quali Luc, sostenessero di essere stati suoi compagni di studi all’università. Di fatto, gli studi li aveva cominciati davvero ma aveva smesso di dare esami alla fine del secondo anno e da quel momento per dodici anni aveva continuato ad iscriversi al medesimo studiando con colleghi e amici ma senza mai presentarsi alle prove di accesso al triennio universitario e ancora meno ad ogni altro test atto a superare lo studio effettuato. Da quel momento, tutto è stato falso. E lui è stato un truffatore di amici e parenti, un padre e un uomo gentile, un rispettabilissimo e insospettabile pluriomicida.
La tragedia. È il 9 gennaio 1993 quando il “dottor” Jean-Claude Romand uccide la moglie, i due figli e i genitori. Il tentativo di suicidio, preventivato e ipotizzato per mesi, fallisce perché mai davvero calcolato. La sua vita così magistralmente costruita sulle menzogne si sgretola, si disintegra portando luce a ogni fandonia raccontata per diciotto anni. Come continuare a vivere sotto gli occhi di chi lo ha scoperto rendendosi conto di essere stato ingannato? Meglio ucciderli e poi uccidersi e chiudere così ogni conto e non dover affrontare lo sguardo inquisitore. Ma Romand è sopravvissuto ed è stato condannato. Nel 2019 per la prima volta è destinatario della misura della libertà vigilata.
Non è difficile immedesimarsi nella curiosità che ha spinto Emmanuel Carrrère ad avvicinarsi a questa storia a cercare di ricostruirne i vari aspetti, le varie sfumature e le molteplici vicissitudini. Così come, non è difficile, comprendere le difficoltà che si sono celate dietro questo scrivere, uno scrivere che si è dibattuto e perpetrato per quasi una decina d’anni in un continuo di tira e molla, di un’attrazione che portava l’autore a voler comprendere le ragioni più intime dell’omicida sino ad allontanarsene quasi come se l’esservisi avvicinato troppo potesse essere in un qualche modo troppo pericoloso, troppo invasivo.
Interessante è anche la riflessione che coinvolge il francese circa la posizione dei fatti da assumere, da interpretare per dare una giusta narrazione all’intero contenuto. Carrère si pone delle domande e a sua volta ce le ripropone seppur consapevole che a queste di fatto una risposta non vi sia. Alterna una narrazione cronistica atta a ricostruire i fatti con anche missive provenienti da Romand stesso a un tentativo di entrare all’interno della sua psiche così da comprendere davvero le motivazioni, le idee, i pensieri che lo hanno spinto a un gesto così eclatante. Tuttavia, questo alternare, rende la lettura talvolta un poco fredda, prevalentemente cronistica, tanto da tendere a tenere distante il lettore che quindi compie un viaggio introspettivo parziale e totalmente incentrato sulle sue forze. Non viene aiutato dal romanziere tanto che si auto monitora nel tentare di bypassare lo scudo di mistero che avvolge Jean Claude. Non giudica Carrère e come lui, non giudica il lettore che mira ad intraprendere il viaggio interiore.
E chissà che non sia proprio questa la forza di questo componimento. E chissà che non sia proprio quest’assenza di riposte il perno che spinge ad andare avanti. E chissà se la certezza sopravviverà al dubbio di quel gran quesito che ruota attorno a una fatidica domanda: vittima o carnefice?

«Invece non esisteva un’altra scena, un altro pubblico davanti al quale recitare quell’altro ruolo. Fuori, era completamente nudo. Tornava all’assenza, al vuoto, al nulla che per lui non costituiva un incidente di percorso ma l’unica esperienza della sua vita. La sola che abbia mai conosciuto, credo, anche prima di ritrovarsi al bivio.»

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Fabiana83 Opinione inserita da Fabiana83    27 Gennaio, 2019
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“Non farebbe mai male ad una mosca” (Psyco- Hitchc

Prevessin, ricco paesino in territorio francese, poco distante da Ginevra.
Qui vivevano i coniugi Romand, Jean Claude e Florence insieme ai loro due figli, Antonie e Caroline di cinque e sette anni.
Abitavano in una vecchia fattoria trasformata, come tante altre, in comoda villa, con una Bmw da 250 mila franchi parcheggiata in garage. All’interno della comunità i Romand venivano considerati figure note e stimate d’altronde Jean Claude era un medico, o meglio un luminare nel campo della ricerca, lavorava presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, viaggiava spesso, partecipava a convegni internazionali, frequentava ministri e personaggi illustri. Tutti però ammiravano la sua discrezione, la rara modestia con cui metteva in luce gli altri anziché se stesso e soprattutto la sua profonda gentilezza. Era un uomo limpido e corretto, degno di assoluta fiducia e rispetto.

Questo fino al 9 Gennaio del 1993 quando, durante la notte, uccide la moglie fracassandole il cranio con un mattarello.
Al mattino infila nel videoregistratore la cassetta dei “Tre Porcellini”, si siede sul divano accanto ai figli a bere latte e a sgranocchiare coco pops. Dopo averli coccolati, inventa un nuovo gioco: Caroline viene fatta stendere sul letto, a pancia in giù, le copre la testa con un cuscino e spara. La stessa sorte toccherà al piccolo Titou.
Parte poi alla volta di Clairvaux dove pranza con gli anziani genitori prima di assassinarli, dove accarezza l’amatissimo labrador prima di abbatterlo. Durante l’interrogatorio confesserà che lasciando la casa paterna gli è venuto spontaneo girarsi a guardare la porta perché temeva, come sempre, di non rivedere più quella madre e quel padre ormai vecchi e malati.
Tenta di uccidere anche l’amante, Corinne, ma incrociare il suo sguardo al momento dell’aggressione lo fa desistere. La donna viene risparmiata.
Rientra a Prevessin, nella sua abitazione, dove sul tavolo ci sono ancora i disegni fatti dai bambini e nel piano superiore i loro cadaveri. Appicca il fuoco cominciando dalla soffitta, il punto più alto della villa, in modo che le fiamme si vedano subito e anche in lontananza. Attende l’arrivo dei pompieri prima di ingerire una manciata di barbiturici scaduti e segnala la sua presenza aprendo la finestra per assicurarsi un tempestivo soccorso. Non fallisce, difatti Jean Claude viene portato in salvo.

Tentato suicidio o suicidio inscenato? Il dubbio ancora oggi resta. Tuttavia la domanda più comune che ci poniamo quando sentiamo o leggiamo di crimini così efferati e privi di senso è la seguente: perché lo ha fatto?

Alla luce delle prove raccolte, gli inquirenti hanno scoperto che il signor Romand non è affatto un medico, non ha mai lavorato per la OMS e che per diciotto anni ha mentito a tutti, anche alle persone a lui più vicine. Più che essere un ricercatore di successo, come la moglie e il resto della famiglia erano stati portati a credere, Jean Claude altro non è che un abile millantatore.
Quella raccontata è dunque la storia di un uomo che ogni mattina baciava la moglie e i figli, usciva di casa fingendo di recarsi a lavoro, ma in realtà andava a perdersi nelle foreste del Giura. Questa è la storia di un uomo brillante che doveva essere a Tokyo per un convegno medico e si ritrova invece nella camera di un motel, poco distante dall’aeroporto, a guardare il soffitto e a sfogliare guide turistiche da cui reperire informazioni utili a rendere verosimiglianti i racconti dei suoi fantomatici viaggi. Questa è la storia di un uomo che per anni ha vissuto in maniera consona alla sua finta posizione sociale di ricco borghese, non solo utilizzando i risparmi che amici e parenti gli avevano affidato perché li investisse, contando naturalmente sulla sua indiscussa onestà, ma addirittura vendendo “pillole miracolose” (probabilmente comuni analgesici) che promettevano di curare pazienti oncologici in stadio terminale.
Insomma la sua vera identità, ammesso che ne avesse una o una sola, non combacia con quella facciata di perfezione che ha costruito per la famiglia e per gli amici più cari.

Com’è facilmente intuibile il fatto di cronaca scosse l’intero Paese e anche lo stesso Carrere che scrive sul caso Romand, “non per curiosità malsana” e non semplicemente per portare alla luce “i fatti” e i dettagli di questa torbida vicenda, ma per rispondere sostanzialmente a due domande: Che cosa passava nella testa nella testa di quell’uomo durante le giornate in cui gli altri lo credevano in ufficio? E che cosa accade nel suo cuore durante le ore notturne di veglia e preghiera che ora trascorre nel carcere di Fresnes?
Lo scrittore non si accontenta di assistere personalmente al processo, ma inizia una breve, e a mio avviso nemmeno proficua corrispondenza con l’imputato, visita addirittura i luoghi in cui Jean Claude “aveva vissuto la sua vita di fantasma".

Entrare nella mente (e nel cuore) di uno psicopatico è certamente un progetto ambizioso, ma anche irto di insidie, infatti Carrere ci riesce, solo parzialmente. Per questa ragione il libro risente di un taglio fortemente giornalistico e a tratti diventa uno scarno resoconto del dibattimento procedimentale.
In ogni caso non gliene faccio una colpa, consapevole della difficoltà di spiegare razionalmente qualcosa che non ha nulla di razionale: la follia. Quella follia che sfugge a qualsivoglia paradigma scientifico e che rende vano ogni tentativo di restituire un volto umano al male.

Tuttavia lo scrittore francese commette due passi falsi, il primo quando si rapporta a Jean Claude facendolo sentire “alla pari”. Non esiste un rapporto paritario tra i due, la loro è una comunicazione fortemente sbilanciata perché a dettare le regole è un pluriomicida che si ostina a parlare di “tragedia” o “incidente” anziché di “crimine” e che non ricorda mai le sue vittime preferendo invece dilungarsi sulla propria sofferenza. E’ lui a decidere cosa dire, omettere o mistificare, questo è il suo show. Carrere invece appare diviso tra l’ossessione di raccontare una storia scomoda, che smuove le coscienze e la paura di pubblicare un libro che potrebbe fomentare la mitomania del suo protagonista o peggio ancora riabilitarlo.
Considerare alla pari un soggetto fortemente disturbato obbliga inoltre a ricondurre la crudeltà del crimine a motivi straordinari. Preferiamo dire che si tratta di pazzi in preda ad un raptus, ad una crisi di nervi perché è difficile riconoscere che tra noi si nascondono cittadini esemplari – apparentemente normali- che un bel giorno decidono di impugnare una pistola e sterminare un’intera famiglia.
Molti di questi moventi “eccezionali” sono stati snocciolati nel corso dell’interrogatorio: l’isterectomia di sua madre, l’essere figlio unico e dunque troppo coccolato e viziato, la morte del cane, suo unico confidente nel periodo dell’infanzia, il presunto suicidio di una ragazza che frequentava ai tempi dell’università, i suoi problemi sessuali (“non doveva essere un drago a letto”) o lo stress economico. Tuttavia nessuna delle motivazioni risulta abbastanza convincente per poter spiegare l’orrore di quell’assassinio. Secondo la mia personale opinione, tutte queste ragioni, per quanto plausibili, possono aver funzionato semplicemente da “catalizzatore”, ma è la presenza latente e nascosta di un disturbo psichiatrico che spinge l’uomo a compiere una strage. Jean Claude uccide per un motivo banale, e non straordinario, ovvero per non essere smascherato per quello che era già prima di impugnare la rivoltella.
Spogliarsi della maschera di menzogne che si è cucito addosso, di quel travestimento che ha portato così a lungo da diventare la sua prima (e non seconda) pelle non significa solo ritrovarsi nudo, ma completamente scorticato. E’ un meccanismo che si inceppa, la finta immagine di decoro va in frantumi, e lo stesso accade alla sua vita. Dunque non potendo più apparire come una persona integerrima soccombe alle proprie devianze (che devono considerarsi INNATE e non conseguenziali) e uccide, elimina il problema.

Il secondo passo falso, l’essersi avvicinato a Jean Claude nel tentativo di parlare non all’uomo che ha commesso qualcosa di agghiacciante, ma all’uomo a cui è accaduto qualcosa di agghiacciante, “vittima sventurata di forze demoniache”. Eppure un omicidio non accade, viene fatto accadere. Jean Claude si è trovato di fronte ad un bivio: scegliere di confessare tutto assumendosene la piena responsabilità o continuare la farsa, anche se questo significava sopprimere i suoi stessi figli. Ha deciso. Contrariamente ad altri soggetti patologici, gli psicopatici sono provvisti di capacità di analisi, sanno perfettamente cosa stanno facendo. Sopperiscono al loro spaventoso deficit emotivo, mantenendo una spiccata ipertrofia del mondo razionale, devono capire tutto. Sono lucidi, scaltri e spesso possiedono un QI solitamente molto alto. Agiscono e scelgono con calcolo e consapevolezza. Jean Claude decide di mentire e di assassinare.
D’altronde anche nelle testimonianze fornite avrebbe potuto finalmente riscattarsi e dimostrarsi sincero, eppure continua ad alterare la verità, ad aggiungere dettagli e particolari per manipolare la corte, i giornalisti, gli psichiatri e in generale l’opinione pubblica. Sbugiardato inventa nuove storie, cambia il racconto, rimaneggia i fatti con la stessa calma e tranquillità di chi sta affermando il vero. Carrere intravede una possibile giustificazione, lascia intendere che quelle menzogne patologiche fossero incontrollabili, che uscissero dalla bocca di Jean Claude quasi in modo spontaneo, naturale e che lo spingessero ad autoingannarsi, a non distinguere più il vero dal falso. Il problema è che il soggetto in questione non si limitava a mentire, ma distorceva la realtà tacendo su informazioni che certamente avrebbero potuto deludere o far soffrire l’altro, ma anche influenzare la sua capacità di scelta. Un esempio per tutti, dopo un insistente corteggiamento riesce ad ottenere la mano di Florence confessandole di avere un (inesistente) tumore e facendo leva sulla sua empatia, sul lato compassionevole di una donna semplice, priva di malizia. Lo stesso copione si ripeterà, a distanza di anni, quando l’amante ormai insoddisfatta tenterà di scaricarlo. Queste non sono semplici bugie, ma vere e proprie truffe emotive.
Bugia e verità vengono magistralmente utilizzate, nella vita e nel corso del processo, per manipolare gli altri e per costruire quel personaggio perfetto che forse avrebbe voluto essere e che, di fatto, si limita ad interpretare.

Sono certa che l’urgenza di trovare una risposta ai tanti interrogativi che un fatto così inspiegabile suscita, abbia incoraggiato molti di noi (o potrà incoraggiare) ad avvicinarsi ad un libro così doloroso, difficile da capire e da digerire. Sono diverse le domande che io stessa mi sono posta: cosa avrà pensato Jean Claude quando ha visto le foto dei suoi bambini, dei loro piccoli corpi carbonizzati distesi sul tavolo di un obitorio? Orrore? Inconsolabile disperazione? Si sarà portato le mani davanti agli occhi per non guardare? Avrà scosso la testa per cancellare quella terribile realtà, l’unica realtà possibile, quella vera, quella autentica che stavolta non è riuscito a contraffare? E inoltre, tra qualche anno, per il signor Romand si apriranno le porte del carcere, tornerà ad essere un uomo libero, ma un uomo “nuovo” o lo stesso “individuo perverso e macchiavellico capace di prendere una falsa identità come altri prendono i voti? E’ sbagliato considerare “L’Avversario”(e forse qualsiasi libro) un piccolo oracolo tascabile, ma sfogliando quelle pagine potrete sicuramente cogliere spunti utili e chiarificatori.





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Opinione inserita da Katya Vettorello    29 Settembre, 2018

O forse no?

Perché se invece non conosceste affatto chi vi sta vicino, ci avete pensato?
Vi è mai venuto il dubbio, un solo minuto, riflettete bene, che chi vi sta al fianco possa essere qualcuno che ha costruito talmente bene una seconda identità da essere disposto a fare qualsiasi cosa – dico qualsiasi cosa - per difenderla, perché essa non sia lesa in alcun modo?

Certo che no, non scherziamo. Non è il vostro caso e non conoscete nessuno a cui sia successo.

Però Carrère l’ha conosciuta davvero, una di queste persone. L’ha conosciuta e ci ha parlato, l’ha guardata negli occhi, l’ha vista volgerli al suolo. Ci ha parlato non per “i perché”, ché quelli sono chiari a chiunque conosca la storia, una storia vera. Ma per “i come”: come si finisce ad essere qualcun altro, a fare della propria vita un copione d’inchiostro simpatico che nessuno, nessuno, dovrà mai essere in grado di decifrare, pena la più terribile delle fini?

Vittima o carnefice?

“Sono sicuro che non stia recitando per ingannare gli altri, mi chiedo però se il bugiardo che c’è in lui non lo stia ingannando. […] Non sarà caduto ancora una volta nella rete dell’Avversario?”

Vi posso dire solo una cosa: quando avrete letto questo libro nessuna delle vostre domande avrà risposta, nessuna certezza resterà tale e, per un tempo indefinito che starà a voi limitare, il dubbio si insinuerà nelle vostre giornate. Perché diciamocelo, a volte vediamo esattamente ciò che vogliamo vedere.

O forse no?

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    16 Febbraio, 2018
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Un uomo chiamato Menzogna

Difficile dare un giudizio su quest'opera di Emmanuel Carrère. Sebbene all'inizio sembra esserci la chiara intenzione, da parte dell'autore, di indagare a fondo i motivi che hanno portato il protagonista di questa storia vera a fare quello che ha fatto, procedendo nella lettura questa si trasforma in una sorta di freddo resoconto dei fatti. È chiaro che l'autore abbia capito (come lui stesso ammette) di non essere in grado di dare un giudizio su questa tragedia e sul suo autore, personaggio controverso fin dalla sua prima giovinezza.
Questo libro avrebbe avuto tutt'altra forza se avesse almeno tentato di scavare più in profondità, e non limitandosi a fare una cronaca dei fatti. È un peccato, perché lo stile dell'autore è molto valido e lascia intravedere potenzialità notevolmente maggiori, che evidentemente sono state riposte nel cassetto per il timore di dare un giudizio su questa storia tragica e delicata. Avrebbe potuto dare spunto a tantissime riflessioni, ma il modo in cui l'autore la affronta manca degli input necessari a stimolare la mente del lettore.

Il protagonista, Jean Claude Romand, è il classico tipo al di sopra di ogni sospetto. È una persona molto gentile, disponibile, con una bella famiglia e un lavoro importante in cui afferma di essere una figura di spicco. Lui. Peccato che gran parte di tutto questo sia una menzogna, che porta avanti fin dai tempi dell'università.
Sì, Jean Claude Romand non è quel che dice di essere, nemmeno un po'. Non si è nemmeno laureato. Quella di aver superato l'esame del secondo anno è stata la prima, grande bugia, che lo ha messo su un sentiero fatto di menzogne che non potevano avere altro capolinea che la rovina.
Ma la rovina che attende il "dottor" Romand è ben peggiore di quel che ci si potrebbe attendere. Fingerà di essere un medico per tantissimi anni, fingendo di andare al lavoro ogni giorno, e tirerà avanti coi risparmi dei suoi familiari e amici, che glieli affidano convinti che sappia investirli nel migliore dei modi. È un tipo affidabile, il Jean Claude Romand che conoscono loro. In realtà, quei soldi non faranno altro che finanziare le sue menzogne per tanto tempo, menzogne che data la loro entità sono durate un tempo inspiegabilmente lungo. Come potevano le persone a lui vicine non accorgersi dei suoi segreti, delle sue stranezze?
Quando Jean Claude si accorge che tutto sta per venire a galla, comincia a vedere nel suicidio l'unica soluzione sensata; dopo un po', ne trova un'altra infinitamente peggiore. Uccide sua moglie, i suoi bambini, i suoi genitori. Perfino il cane. Nella distruzione di tutto ciò che ha di più caro, inspiegabilmente, trova la via di fuga.
L'uomo che si è reso vettore di tanta malvagità non ne sembrava assolutamente in grado, neanche quando le sue colpe sono state accertate. A me è sembrato un uomo incapace di essere sincero, completamente immerso nelle sue bugie e che non riesce a smettere di fingere neanche quando non ha più nulla da perdere.

"Quando entrava in scena nella sfera privata, tutti pensavano che avesse appena lasciato un'altra scena, dove svolgeva un altro ruolo - quello dell'uomo importante che gira il mondo, frequenta i ministri, viene invitato a cene ufficiali in sontuose dimore -, ruolo che uscendo sarebbe tornato a interpretare. Invece non esisteva un'altra scena, un altro pubblico davanti al quale recitare quell'altro ruolo. Fuori, era completamente nudo. Tornava all'assenza, al vuoto, al nulla che per lui non costituiva un incidente di percorso ma l'unica esperienza della sua vita. La sola che abbia mai conosciuto, credo, anche prima di ritrovarsi al bivio."

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    16 Luglio, 2017
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Quizas Quizas Quizas

Io (mi) scampi e liberi da questi libri.
È il secondo che leggo di Carrère ed è la seconda e ULTIMA falsa partenza. Il primo è stato l’insopportabile “Facciamo un gioco” che con La casa nel bosco dei Carifigli si colloca fra i peggiori marchettoni della mia carriera di lettrice. Qui sembrava impossibile sbagliare.
Carrère racconta una storia vera: un efferatissimo fatto di cronaca della Francia di quasi vent’anni fa. Jean-Claude Romand uccise la moglie, i tre figli, i genitori e tentò il suicidio, senza successo.
L’autore per un po’ si immagina il punto di vista di un amico dell’assassino e descrive la sua esistenza. Poi passa ad essere lo scrittore che racconta la tragica vicenda. Senza riuscire a destare il ben che minimo interesse nel povero lettore. Che poi…
È una storia tosta e non la sai raccontare. Non te l’ha mica scritto il medico. Scrivi qualcos’altro. FAI qualcos’altro.
Che dire di positivo? Lasciami pensare…
È abbastanza breve.
Ma come insegna Maestro Yoda “non breve abbastanza è stato”.
Non si può fare a meno di pensare a Truman Capote e a “Sangue Freddo”, ma onestamente non mi aspettavo tanto. Quello è un unicum ritengo difficilmente ripetibile. Però non riuscire a dire NIENTE su una storia come questa pare impossibile.
L’apporto di Carrère è scaricare sul lettore una serie di quesiti inutili e stucchevoli, che si rimediavano facilmente sul tram, spegnendo il lettore mP3: chissà come è possibile che nessuno abbia capito, chissà cosa è successo nella sua mente, chissà come mai nessuno si è accorto, chissà perché nessuno ha potuto supporre...
Quizas quizas quizas.
Ma per favore!

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catcarlo Opinione inserita da catcarlo    05 Marzo, 2017
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L'orrore della porta accanto

Colpito da una vicenda che varca di parecchio i confini comunemente intesi dell’incredibile, Carrère abbandona i lavori di pura fiction per addentrarsi in una dimensione e in una psicologia tanto all’apparenza banali quanto terribili nel loro lato più nascosto. Lo scrittore si mette in scena all’inizio e alla fine, un po’ perché è narciso e in gran parte perché ritiene necessario rendere manifesto il rapporto che lo lega a ciò che narra e, soprattutto, a colui di cui narra: i dubbi dei primi tempi, la corrispondenza scambiata con l’assassino, la volontà di guardare nell’abisso per cercare in qualche modo di capire portano il ‘personaggio’ Carrère ad avere un notevole peso nel libro, a differenza, ad esempio, dell’oggettività cercata da Truman Capote in ‘A sangue freddo’. All’improvviso, a metà degli anni Novanta, Jean-Claude Romand stermina la famiglia prima di prendere la macchina e andare a uccidere i genitori: gesti inspiegabili che pochi controlli di polizia rendono subito più plausibili, visto che si scopre che egli ha mentito per tutta la vita (niente laurea in medicina, niente lavoro all’OMS di Ginevra) ed è vissuto sui soldi che i parenti incautamente gli affidano per investirli in Svizzera. Un gruzzolo ormai agli sgoccioli, anche perché drenato dalle costose spese per l’amante (non per colpa dell’amante): senza vie di fuga, Romand decide di cancellare la sua vita per ricostruirsene una in carcere in quella che si configura come un’altra fra le stranezze che lo accompagnano. L’autore indaga la vita dell’omicida sin dall’infanzia di timido bravo ragazzo che produce un giovane uomo, senza qualità e non troppo gradevole, disposto a qualsiasi cosa per venir accettato: nasce e si sviluppa così il bugiardo seriale, capace di edificare sul proprio vuoto interiore una posizione, alcune amicizie sincere e persino una famiglia a cui vuole davvero bene. E’ un lento crescendo segnato da una particolare attenzione per quelle giornate vuote in cui Jean-Claude finge di recarsi a lavorare e invece passeggia solitario nei boschi dei Grigioni oppure sta a fissare un lago di montagna dalla macchina: infine la situazione precipita, accelerata verso l’inevitabile dal rapporto extraconiugale, culminando nell’incalzante rielaborazione degli ultimi giorni (che, peraltro, per il protagonista mantengono il ritmo banale dell’intera sua esistenza). Lo scritto è basato sulla ricostruzione del passato di Romand, sulle testimonianze di amici e conoscenti nonché sul processo che Carrère segue fra il pubblico dall’inizio alla fine: la sua bravura nel coinvolgere il lettore, grazie a una lingua elegante e a un brillante dosaggio dei tempi narrativi uniti a scarti emotivi di notevole impatto, non viene mai messa in dubbio, facendo scorrere le pagine malgrado le tematiche siano quanto di più ostico si possa pensare. A dir il vero, di tanto in tanto sorge il sospetto che l’autore tenda a preferire i colpi a effetto, ma non è questo che spiega l’evidente disagio che coglie una volta finito il volume: si ha viceversa l’impressione che sia fondata l’accusa di una giornalista citata nel libro, ovvero che il manipolatore Romand abbia in qualche modo toccato anche lui come già aveva fatto con gli amici o la famiglia (parliamo di uno che per anni è riuscito a non farsi chiamare nell’ufficio che non aveva, ed è solo un esempio) e poi, una volta in carcere, con molte delle persone che entrano in contatto con lui. Non sapremo mai se dentro alla mente di Jean-Claude ci sia un avversario come mister Hyde oppure la normalità apparente sia solo l’ennesima finzione: è certo invece che, riguardando le sue azioni in retrospettiva e con lucidità, la sua capacità di convincere (irretire) il prossimo fa davvero paura.

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ilaria.todisco Opinione inserita da ilaria.todisco    20 Febbraio, 2017
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L'AVVERSARIO ALBERGA DENTRO DI NOI

***ATTENZIONE SPOILER***
L'avversario", scritto da Emmanuel carrère e pubblicato da Adelphi edizioni nel 2013 è stato il mio primo approccio con questo autore di cui non conoscevo assolutamente nulla e che è giunto a me casualmente grazie alla raccolta "Duemila" di Repubblica & l'Espresso.
Nel 1993 Jean Claude Romand, stimato medico e ricercatore dell' OMS a Ginevra ,uccide sua moglie e i suoi due figli, dà fuoco alla loro casa cercando invano di suicidarsi. Balzerá subito agli occhi degli inquirenti la sua colpevolezza e ben presto verrà fuori che ha ucciso anche i suoi genitori. Da un accadimento cosí tragico si scoprirà ben presto che Jean Claude per 18 anni si è costruito una vita fittizia: ha fatto credere a tutti di aver studiato Medicina, di esser diventato un ottimo medico, così bravo da essere uno stimato ricercatore a Ginevra, ha finto per anni di guadagnare cifre altissime e di essere amico di altrettanti medici e ricercatori che non sapevano nemmeno della sua esistenza. In realtà passa le sue giornate in un parcheggio, leggendo giornali, scrivendo, sonnecchiando e aspettando di tornare a casa per continuare la sua recita. Vive nell'agiatezza grazie ai soldi spillati a parenti ed amici raggirati in mille modi diversi. Quando poi la paura di esser scoperto prende il sopravvento, preferisce annientare in modo barbaro tutti i suoi cari piuttosto che tirar fuori tutta la verità e vedere la delusione nei loro occhi.
Carrère in questo breve ma intenso romanzo ripercorre tutta la vita di Jean Claude fino al tragico epilogo che l'ha visto condannato all'ergastolo, riuscendoci a trasmettere chiaramente il senso di panico vissuto dal protagonista quotidianamente, il senso di smarrimento della sua stessa persona e l'essersi volutamente trovato in una situazione troppo più grande per un uomo così piccolo. Questo libro è un vero e proprio viaggio nel vuoto, a tratti nemmeno l'autore riesce a spiegarsi il perchè di certi gesti; un viaggio che ci porta a metterci in discussione e a capire che molto spesso il nostro avversario alberga dentro di noi.
Consigliato vivamente.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    12 Luglio, 2016
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L'avversario che abbiamo dentro...



Detta una bugia, dette tutte.
Come essere risucchiati dal vortice della menzogna e non riuscire più ad uscirne...ma questo libro/verità è molto più di questo...è il racconto agghiacciante di un uomo incapace di raccontarsi perché sconosciuto a se stesso, vittima delle sue bugie (ma per niente "vittima" in realtà)...che non servono a nascondere qualcosa o qualcuno, ma a celare il nulla, l'abisso di una vita mai vissuta.
Difficile capire dove finisce la debolezza, la malattia di quest'uomo e dove inizia il "male", il "marcio"...
Nella mia mente, a dir la verità, per tutta la durata della narrazione, girava e rigirava un'unica parola: "vigliaccheria"...da qualunque angolazione guardassi.
Diciotto anni di menzogne, di finzione, di truffe ai danni di chi ti vuole bene...e poi il tragico epilogo...perché è più facile spegnere la luce degli occhi un figlio, di una figlia, di una moglie, di un padre e di una madre piuttosto che leggervi la loro delusione dentro.
Ovviamente tutto sarebbe più tollerabile se fosse solo un romanzo...e non una storia vera.
Questo libro ti obbliga a porti qualche semplice e inquietante domanda: "chi è davvero la persona che ci dorme accanto?"...e ancora: "siamo davvero noi stessi o solo chi abbiamo scelto di essere?"
Carrère entra nella vita dell'assassino e ci racconta tutta la storia con una scrittura tanto semplice quanto crudele, non un arido resoconto giornalistico, ma neanche un'analisi psicologica da criminologo...Forse la grandezza di questo libro sta nella capacità dell'autore di farci sentire tutti un po' Jean Claude, tutti un po' bugiardi, ma allo stesso tempo tutti pronti a metterci dalla parte dei "buoni"...di coloro che una vita ce l'hanno davvero!
C'è chi lotta tutta una vita contro le avversità del mondo esterno e chi, invece, l'Avversario ce l'ha dentro...
Ottimo Carrère.

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faye valentine Opinione inserita da faye valentine    24 Gennaio, 2016
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Specchiarsi nel male

Chi non ha mai mentito? Che si tratti di una bugia detta per non ferire qualcuno, o di una verità nascosta, o ancora di un atto compiuto con cattiveria, fino a che punto può arrivare la menzogna? Si può mentire per dare quell'immagine di sé che gli altri si aspettano. Si può mentire, al punto da sfumare il confine tra bugia e verità. La menzogna che avvolge la vita del protagonista diventa il pane quotidiano che alimenta ogni suo atto e ogni suo pensiero.

Durante la lettura ho sentito una forte empatia con lui, al punto di pensare quasi con la sua testa. Mi sono chiesta perché per lui sia stato così facile ridursi a tal modo e mi è sembrato quasi di sentirlo parlare.. Non mi creo una doppia vita, la mia vita stessa diviene una menzogna. Mento sul mio lavoro, con la mia famiglia, con i miei affetti. Riesco a provare dei sentimenti per qualcuno? O sono essi stessi menzogna? E quando il peso di questa vita di menzogne diventa insopportabile, scelgo la soluzione più facile e più spaventosa, più difficile e più allettante. La soluzione che mi renderà libero ed eternamente schiavo delle mie menzogne.

Ho cercato di ripercorrere la discesa nelle tenebre compiuta dall'autore, allo stesso tempo affascinato e spaventato da questa vicenda realmente accaduta, da questo personaggio così freddo e così implacabile, tanto da alimentare sempre più il suo interesse.

Un bellissimo romanzo, breve e intensissimo, crudo e spietato, che risucchia il lettore nella spirale delle bugie create dal protagonista e che fa irrimediabilmente riflettere sulla condizione umana. Mi sono sentita terribilmente affascinata dal protagonista, ho fatto un esame di coscienza, ho messo in discussione la mia persona, mi sono messa in gioco e ho avuto paura di quello che ho visto, di quanto lui potesse anche lontanamente avvicinarsi a me. Man mano che proseguivo la lettura ne ho poi preso le distanze, ho capito, ho conosciuto la sua storia e ne sono stata disgustata. Sono arrivata a guardare il male in faccia e al suo cospetto mi sono sentita pulita e innocente.. Alla fine è prevalso in me l'interesse sociologico sul turbamento scatenato dalla vicenda in sé, e a questo ha contribuito lo stile dell'autore che la rende così "normale". Ho chiuso il libro con lo stomaco rivoltato e quella sensazione di cupa devastazione che non mi capitava da troppo tempo.

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Mi sono permessa di dare un 5 alla piacevolezza intendendola come intensità.. Lo consiglio a chi non legge solo per diletto.
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MarcelloDC Opinione inserita da MarcelloDC    19 Marzo, 2014
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Un salto nel vuoto

Questo libro è stato il mio primo approccio a Emmanuel Carrère: non mi ha deluso.
Il 9 gennaio del 1993 Jean Claud Romand, stimato medico, uccide la moglie e i figli. Nel tentativo di suicidarsi brucia la propria abitazione, ma viene soccorso in tempo. La sua colpevolezza salta presto a galla, e si scopre rapidamente che anche i suoi genitori hanno seguito la stessa sorte.
Il gesto, apparentemente spiegabile, da' il via al racconto di una delle vicissitudine più inquietanti e contorte di cui abbia mai letto.
Jean Claud per quasi 20 anni infatti, si è costruito una vita lavorativa fittizia ad insaputa di chiunque: non è medico, non è ricercatore all'OMS. Passa le sue giornate in un parcheggio, aspettando di tornare a casa e alla sua recita. Vive nell'opulenza, costruita sul denaro spillato ad amici e parenti convinti attraverso truffe di ogni tipo.
Ma quando i debiti cominceranno a soffocarlo, la paura della reazione dei suoi cari lo porteranno a compiere una decisione inspiegabile.
L'opera di Carrère, che per stile e forma deve molto al Truman Capote di "A sangue freddo", ripercorre la vita di Romand sino al tragico epilogo e al processo che lo vide condannare all'ergastolo.
Una vita che è stata tutta una grande menzogna, bugia dopo bugia, solo per un motivo: il terrore di deludere gli altri.
In "L'avversario" Carrère riesce a trasmetterci il senso d'ansia e di panico quotidiani vissuti da Romand, l'orrore al pensiero che il suo teatrino venisse scoperto. E per finire, l'inspiegabilità di un gesto folle a fronte di una situazione che era diventata troppo grande da gestire per un uomo così piccolo, vuoto e inutile, alla quale neanche l'autore riesce a darci risposta.
160 pagine difficili: un vero e proprio viaggio nel vuoto, dal quale sarà difficile uscire indenni.

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"A sangue freddo" T. Capote
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marlon Opinione inserita da marlon    05 Giugno, 2013
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LE TENEBRE

Cosa porta un uomo a sterminare la propria famiglia ? Le ragioni possono essere molteplici, spesso inspiegabili. Già, inspiegabili come dichiarano spesso i conoscenti o parenti delle vittime. Dopo avere scartato le varie ipotesi ( tradimenti,separazioni, crisi economiche, malattie,raptus…) rimane l’incredibile. Questa opzione compare nella cronaca francese di vent’anni fa e la descrive per filo e per segno Emmanuel Carrere in questo corto libro ( 169 pagine di sgomento). UNA STORIA VERA!!
J. C. Romand è un uomo con una moglie e dei figli che lo adorano. Amato dai genitori e stimato dagli amici, egli è un medico francese, laureato a pieni voti. Ha un incarico prestigioso presso l’ OMS a Ginevra, e sovente viaggia tra Francia e Svizzera per lavoro.
Purtroppo la verità è che Romand da 18 anni mente a tutti. Tutto nasce dall’esame universitario mai superato e la PAURA di deludere i genitori. Una macchia ( secondo la sua mente..) da nascondere, ma questa macchia ogni giorno si allargherà sempre di più. La menzogna lo porterà ad alimentare un mostro che divorerà la sua esistenza. Agli occhi di tutti ormai lui è un medico, ma questo castello di bugie ha bisogno anche di denaro. Si indebiterà in modo spropositato chiedendo prestiti ad amici e parenti sfruttando la sua immagine di professionista rispettato. Ma tutto avrà fine. Il castello di inganni crolla insieme alla sua mente fino al tragico epilogo. UNA STRAGE.
Ma la cosa più terrificante è il viaggio nelle tenebre. La metamorfosi graduale di quest’uomo vuoto e schiavo delle sue paure ( e quindi della PAURA). Passare le giornate in macchina, parcheggiato in qualche autogrill, ad ascoltare la radio. Oppure passeggiare nei boschi durante le sue” gite forzate”. Essere costretti ad andare a Ginevra per incontrare qualche conoscente ed alimentare la menzogna.
Non consiglio la lettura perché tutto quello che ho letto è agghiacciante. Mi chiedo come sia possibile che ci siano persone così vuote. La completa assenza dell’anima del protagonista mi lascia senza parole. Mi chiedo anche se questo fatto di cronaca sia un “regalo” che ci fa l’epoca in cui viviamo. I nostri nonni e bisnonni hanno conosciuto il male in altre forme ( guerre , fame ,povertà…) , ma questa nuova forma è inconcepibile. Magari mi sbaglio. Comunque sia dobbiamo rivedere tante cose. Per certi “ ASPETTI” siamo migliorati negli ultimi decenni ma anche il MALE si evolve e sta al passo con i tempi.
BUONA (NON) LETTURA.

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