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L'anno della morte di Ricardo Reis
 
L'anno della morte di Ricardo Reis 2018-03-03 13:50:52 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    03 Marzo, 2018
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RICARDO REIS E IL FANTASMA DI PESSOA

“Fernando Pessoa chiuse gli occhi, appoggiò la testa sullo schienale del divano, parve a Ricardo Reis che due lacrime gli spuntassero fra le palpebre, potevano anche essere… effetti di luce riflessa, lo sanno tutti che i morti non piangono. Quel volto nudo, senza occhiali, con i baffi leggermente cresciuti, …, esprimeva una grande tristezza, di quelle senza conforto… D’improvviso, Fernando Pessoa aprì gli occhi, sorrise, Pensa un po’ che ho sognato di essere vivo…”

“L’anno della morte di Ricardo Reis” sembra essere nato da una scommessa: quella di scrivere un romanzo che abbia per protagonista un non-personaggio, un eteronimo (quello con cui Fernando Pessoa scrisse alcune delle sue odi), quindi un semplice nome, il quale viene rivestito per l’occasione da Saramago di fattezze e connotati umani, a cui viene dato un corpo e una vita autonoma, indipendente dal suo creatore; un personaggio che, per di più, nelle quasi cinquecento pagine del libro non fa nulla di rilevante, bighellona inoperoso per le strade di Lisbona, fa sporadici incontri, scrive poesie, legge giornali. Si tratta, a ben vedere, di una duplice scommessa: perché è un romanzo costruito narrativamente sul vuoto anziché sul pieno (senza cioè un vero centro di interesse, se non quello legato alla morte enunciata dal titolo) e, in secondo luogo, perché abbina il massimo di irrealtà (lo sdoppiamento di Pessoa-Reis) con il massimo di realtà (la cronaca meticolosa degli avvenimenti del 1936). La cosa non deve però sorprendere, giacché sono proprio questi motivi a fare de “L’anno della morte di Ricardo Reis” un romanzo perfettamente saramaghiano. Infatti, la missione dello scrittore portoghese è sempre stata quella di dare ad anonimi e misconosciuti personaggi (siano essi contadini dell’Alentejo o soldati impegnati in un assedio) un volto, un passato, una storia. Si pensi a “Tutti i nomi”, in cui il protagonista si prefigge assurdamente di rintracciare e fare la conoscenza della donna la cui scheda anagrafica (rappresentante la spersonalizzazione per eccellenza, quella burocratica che riduce gli individui a meri nomi) è finita per errore nell’archivio dei decessi. Secondariamente, Saramago cerca in quasi tutte le sue opere di partire da dati reali (la costruzione del convento di Mafra, l’assedio di Lisbona occupata dai Mori, ecc.) per inserirvi una vicenda puramente fantastica, persino con divagazioni surreali (come nel caso del “Memoriale del convento”).
Leggendo “L’anno della morte di Ricardo Reis” si giunge ad effetti stranianti. Saramago rovescia il rapporto tra Pessoa (l’autore) e Reis (il personaggio), dando una concretezza inoppugnabile di vita autentica al secondo (attraverso la registrazione minuziosa e diaristica dei suoi atti, incontri e pensieri) e trasformando il primo (già morto quando Reis, nel dicembre del 1935, ritorna in Portogallo dal Brasile) in un personaggio di fantasia, impressione accentuata dal fatto che egli appare solo in veste di fantasma (tra l’altro, nel corso del carnevale, Reis incrocia un uomo travestito da morte e immagina cosa Pessoa, interrogato, potrebbe rispondergli alla domanda se dietro la maschera c’era proprio lui; qualche pagina dopo, quando Reis incontra “realmente” lo scrittore defunto, questi ripete, parola per parola, quanto Reis aveva poco prima pensato: segno forse che è Pessoa ad essere un’invenzione della mente di Reis, e non viceversa?). In questa ottica, “L’anno della morte di Ricardo Reis” è un’opera quasi esistenzialista, che si interroga tra le altre cose, anche se mai direttamente, sull’identità (gli “innumerevoli” che “vivono in noi”), sulla labilità del concetto di individuo (la vita che trapassa gradualmente nella morte senza un confine netto e inscindibile che le separi, come nel bellissimo finale), sulla solitudine (è indimenticabile la figura di Pessoa, spettro annoiato e triste che vaga per Lisbona in cerca di compagnia, sospeso “fra una memoria che tira e un oblio che spinge”, che non è più vivo ma pare abbia portato nell’aldilà tutti i fardelli della vita) e sul destino (la sterile saggezza cui approda Reis è sapere quello che accadrà e non fare nulla per cambiarlo, apatico e inutile spettatore dello “spettacolo del mondo”).
Per contro, l’impressione già citata che il romanzo di Saramago non parli di nulla di importante, ma sia tutt’al più la cronaca minimalista di un’esistenza vissuta nella dimensione soggettiva della coscienza, è contraddetta dal continuo, stringente parallelo con la realtà storica. Allo stesso modo in cui di Reis seguiamo gli insignificanti pensieri e i ripetitivi gesti quotidiani, così di quest’ultima emergono piccoli dettagli, frammenti di un puzzle che sappiamo, col senno del poi, che andranno a comporre lo scenario drammatico della Seconda Guerra Mondiale, ma che la versione dei giornali e della propaganda dell’epoca minimizza e annacqua in una visione stolidamente ottimistica e patriottica, non consentendo di coglierne tutte le straordinarie e irreversibili implicazioni politiche. Come il mondo del ’36 va ignaro verso la tragedia bellica, così Ricardo Reis si incammina senza saperlo verso la sua fine. La consapevolezza che il lettore ha (per esperienza storica del passato da una parte e per via del titolo del romanzo dall’altra) che i giorni della pace e quelli del suo protagonista sono contati carica quindi già a priori di senso quegli avvenimenti, quei pensieri e quei gesti che all’apparenza senso non hanno, convalidando così, mediante questo stratagemma narrativo, la straordinaria bravura di uno scrittore che non fa mai un libro uguale al precedente (qui addirittura usando un periodare molto più breve del solito) e che pure rimane sempre inconfondibilmente sé stesso.

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"Il libro dell'inquietudine" di Fernando Pessoa
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