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La chiave a stella
 
La chiave a stella 2021-02-24 08:13:51 anna rosa di giovanni
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anna rosa di giovanni Opinione inserita da anna rosa di giovanni    24 Febbraio, 2021
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Il lavoro come l'amore

LA CHIAVE A STELLA, di PRIMO LEVI (1978)

TRAMA. In questo bel romanzo che già da tempo volevo rileggere, la narrazione alla prima persona non è di un personaggio di finzione, bensì dell’autore stesso, chimico di professione fino al ‘75, che - chissà se questo invece è finzione - trovandosi per lavoro nell’URSS di prima della caduta del muro (che non sembra proprio un paradiso: vedi in particolare p. 173), fa la conoscenza di un montatore che anche è lì in trasferta: Faussone. Nonostante la differenza d’età, tra i due nasce un rapporto di stima e di comprensione reciproca, accomunati come sono dalla passione per il lavoro, il lavoro tecnico, quello che mette a confronto l’intelligenza con la materia. Levi, che ha ormai deciso di dedicarsi completamente alla scrittura (vedi il capitolo “Acciughe, I” p. 148 e ss.), riporta al lettore, talora esplicitamente evocato (es.: “lo ho sempre lasciato parlare come voleva e per tutto il tempo che voleva, e del resto il lettore ne è testimone” p. 98), le conversazioni che soprattutto la sera, in mensa, si dipanano fra lui e Faussone - Faussone è il cognome, ma tra colleghi … - , o piuttosto riporta quello che Faussone gli racconta del suo lavoro. E alla fine si congedano, avendo fatto quel che dovevano fare.

Ora uno potrebbe chiedersi: Ma come ci si può fare un libro, con questo??”: altrochè se si può, se si mettono in gioco lo stile colloquiale di Levi, la sua verve nel rendere il lato buffo delle situazioni o dei personaggi, un personaggio credibile come Faussone nonchè il suo linguaggio colorito di bellissime espressioni idiomatiche piemontesi. Detto per inciso, già il titolo dice il talento dell’autore, perché è vero che la chiave a stella è un attrezzo, ma … quanta poesia nel nome di questo attrezzo! Faussone dice che essa “È PER NOI COME LA SPADA PER I CAVALIERI DI UNA VOLTA” (p. 74). E in effetti Faussone appare un po’ come un cavaliere di una moderna epopea: quella di un’Italia in via di modernizzazione in cui si moltiplicano le autostrade e gli elettrodotti ad alta tensione, quella di un mondo in cui con l’acciaio e il cemento l’uomo sfida la profondità dell’oceano come la forza dei venti di alta montagna, quella in cui l’aereo ha ormai accorciato le distanze tra i continenti.

Cosa vuole dire Primo Levi con questo libro? Ecco alcuni passaggi della p. 81 dell’edizione Einaudi che ne sintetizzano il significato:

“SE SI ESCLUDONO ISTANTI PRODIGIOSI E SINGOLI CHE IL DESTINO CI PUÒ DONARE, L’AMARE IL PROPRIO LAVORO (CHE PURTROPPO È PRIVILEGIO DI POCHI) COSTITUISCE LA MIGLIORE APPROSSIMAZIONE CONCRETA DELLA FELICITÀ SULLA TERRA: MA QUESTA È UNA VERITÀ CHE NON MOLTI CONOSCONO (…) Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, (…); però esiste anche una retorica di segno opposto (…) che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio o altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui; come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero. (…).
Molto significativamente, Faussone di nome si chiama Libertino, perché suo padre pensava che significasse la stessa cosa che “libero” (che il prete non voleva accettare): “Il termine “libertà” ha notoriamente molti sensi - scrive Levi -, ma FORSE IL TIPO DI LIBERTÀ PIÙ ACCESSIBILE, PIÙ GODUTO SOGGETTIVAMENTE, E PIÙ UTILE AL CONSORZIO UMANO, COINCIDE CON L’ESSERE COMPETENTI NEL PROPRIO LAVORO, E QUINDI NEL PROVARE PIACERE SVOLGENDOLO” (p. 145).

Ovviamente, come scrive Levi sempre a p. 81, “ E’ malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge.”

Come si vede, “La chiave a stella” è UNA CELEBRAZIONE DELL’HOMO FABER E DEL LAVORO, IN PARTICOLARE DEL LAVORO DELLE MANI O - MEGLIO - TECNICO: “Le avevo davanti agli occhi, le mani di Faussone: lunghe, solide e veloci, molto più espressive del suo viso. (…) Mi avevano richiamato alla mente lontane letture darwiniane, sulla mano artefice che, fabbricando strumenti e curvando la materia, ha tratto dal torpore il cervello umano, e che ancora lo guida stimola e tira come fa il cane col padrone cieco” (p. 162-3). Levi trova parole persino commoventi per “cantare”, come si diceva una volta, il lavoro artigiano, e le fa dire a Faussone che parla di suo padre anziano e dei suoi amici: “Avevano tutti fatto la guerra, chi in Russia, chi in Africa (…), così, essendo che erano tutti più o meno del mestiere, uno sapeva saldare, uno tirava la lima, uno batteva la lastra e così via, avevano combinato di fare un monumento e di regalarlo al paese, ma doveva essere un monumento all’incontrario. Di ferro invece che di bronzo, e invece che tutte le aquile e le corone di gloria e il soldato che viene avanti con la baionetta, volevano fare la statua del panettiere ignoto: sì, quello che ha inventato la maniera di fare le pagnotte”.
Quando Primo Levi scriveva, il dibattito pubblico intorno al lavoro non si incentrava già più sul carattere alienante del lavoro alla catena di montaggio, e infatti chi nel libro impersona il lavoro, il lavoro appagante perché mette alla prova e quindi può essere occasione di vittoria sulle difficoltà e sui propri limiti, sono il chimico-scrittore e l’operaio specializzato, che hanno ormai maturato una competenza tale da consentir loro di decidere in autonomia per risolvere problemi difficili : perché, come diceva il padre di Faussone, “è meglio essere testa d’anguilla che coda di storione”. Rispetto a quando Levi ne parla, il lavoro tecnico o manuale si è deprezzato: esso è ritenuto vile rispetto a quello intellettuale (e infatti le scuole tecniche e professionali sono, nell’opinione di molti, riservate ai ragazzi meno capaci o socialmente svantaggiati) e i paesi più avanzati hanno via via delegato la produzione ai paesi poveri e alla manovalanza immigrata. O comunque a tutti quei giovani che per campare sono disposti a fare le bestie da soma. Comunque il discorso qua si fa complicato, ma voglio riprendere il brano a p. 81 che ho citato sopra: “L’AMORE O RISPETTIVAMENTE L’ODIO PER L’OPERA SONO UN DATO INTERNO, ORIGINARIO, CHE DIPENDE MOLTO DALLA STORIA DELL’INDIVIDUO, E MENO DI QUANTO SI CREDA DALLE STRUTTURE PRODUTTIVE ENTRO CUI IL LAVORO SI SVOLGE.”. Ecco, un tema presente nell’opera è il rapporto tra le generazioni, tra padre e figlio: se Faussone ama il suo lavoro (più di quanto non ami le donne), è perché suo padre - a cui Faussone pensa spesso con struggimento di cuore - gli ha trasmesso il gusto di “batter la lastra” ad arte (vedi il bellissimo capitolo Batter la lastra e p. 128), suo padre .

Postilla finale che faccio come ex-prof di francese. Il mio pensiero è andato a due autori: al Voltaire di “Candide”, che dice “Bisogna coltivare il nostro giardino” (che si opponeva alla vana interrogazione metafisica e non ha niente a che fare con l’espressione “coltivare il proprio orticello”) e a Diderot, la cui Encyclopédie mostra quanta intelligenza si dispiega nel lavoro e quanta intelligenza richiede la fabbricazione di una macchina.





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Candide (di Voltaire), Homo faber (di Max Frisch)
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Commenti

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Anch'io l'ho apprezzato, benché non quanto te.
L'ho trovato inaspettato, pertanto è stato una gradita sorpresa, sicuramente originale ; ... e molto piemontese.
In risposta ad un precedente commento

24 Febbraio, 2021
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Si, assolutamente
siti
27 Febbraio, 2021
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Sai Anna Rosa che ho tentato due volte di leggerlo ma l' ambientazione, i dialoghi, la materia, mi hanno fatto desistere? So che è capitato nel momento sbagliato e la tua valutazione mi porta a riavvicinarmi alla prosa incisiva, riflessiva e cristallina di Levi. Certo il piemontese non mi è familiare...
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