Narrativa straniera Romanzi Facciamo che ero morta
 

Facciamo che ero morta Facciamo che ero morta

Facciamo che ero morta

Letteratura straniera

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Al mondo non c'è nessuno che, in fondo a un cassetto o sotto il materasso, non nasconda qualcosa di imbarazzante. Lo sa molto bene Mona, che di mestiere fa la donna delle pulizie e che, mentre lava, smacchia, scrosta, lucida e passa l'aspirapolvere, si distrae curiosando in giro e ricostruendo impietosamente la vita dei suoi clienti. Il martedì sera, non avendo di meglio da fare, presta servizio come volontaria distribuendo aghi puliti ai tossicodipendenti. È in questo ambiente che, in barba alla prudenza, adocchia un soggetto a suo parere interessante: certo, sembra un po' sporchino, tanto che gli appioppa il soprannome di Mister Laido, però è alto e ha le spalle larghe, e poi ha sempre con sé un libro. E così, tra regali bizzarri ed escursioni domenicali sui tetti di fabbriche abbandonate, comincia una storia a dir poco strampalata. Seppure inevitabile e tutto sommato salvifico, l'epilogo supera, per le sue grottesche modalità, ogni più nera previsione. Per riprendersi dalla batosta, Mona decide di cambiare aria e, dopo aver caricato lo stretto necessario sul furgone, si trasferisce a Taos, un rifugio di fricchettoni e nullafacenti perso nel deserto del New Mexico. C'è la coppia anglo-giapponese di Nigel e Shiori (Yoko e Yoko, li soprannomina Mona, non riuscendo a decidere quale dei due dovrebbe far la parte di Lennon) che se ne vanno in giro in pigiama dispensando immortali perle di saggezza new age. C'è la sensitiva Betty, che colleziona inquietanti bambole e fotografie rubate del suo ex marito. C'è un giovane gay, Gesù, che viene appioppato a Mona come finto fidanzato. Potrebbe bastare per tagliare i ponti con quel che è stato. E invece il passato la insegue e Mona, anche se controvoglia, dovrà fare i conti con la sua infanzia e, in particolare, con un padre ben al di sotto del livello di accettabilità. Perché ormai è cresciuta e non ha più intenzione di fingersi morta. Intrepido nella sua schiettezza, vivido come un film di Wes Anderson, Facciamo che ero morta è un originale viaggio tra anime dannate, un romanzo che ride con affetto delle stramberie e delle imperfezioni degli esseri umani celebrandone al tempo stesso tutta la forza.



Recensione della Redazione QLibri

 
Facciamo che ero morta 2019-01-19 11:00:32 Chiara77
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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    19 Gennaio, 2019
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Mona

Il romanzo d'esordio della scrittrice statunitense Jen Beagin, “Facciamo che ero morta”, è incentrato sulla figura della protagonista, Mona.
Mona è una giovane donna di venticinque anni che lavora come donna delle pulizie e fa volontariato distribuendo kit di siringhe nuove ai tossicodipendenti. Il romanzo si apre trasportandoci subito in medias res: Mona sta distribuendo kit puliti quando nota un tossico e scatta l'amore a prima vista.

«L'aveva soprannominato Mister Laido per l'aspetto e i vestiti sporchi. I capelli erano lunghi e formavano un groviglio che solo un bel trattamento all'olio caldo sarebbe riuscito a districare. La faccia era un elaborato reticolo di rughe. Ma era alto, aveva le spalle larghe e, dovendo o volendo, sarebbe stato in grado di prenderla di peso e fare il giro dell'isolato o salire una rampa di scale, cosa che non si poteva certo dire dei suoi fidanzati precedenti. Però si era innamorata soprattutto dei suoi occhi, così scuri e sinceri, che sembravano dire: “Tu sei qui”. »

Fin da subito ci rendiamo conto che Mona è un po' particolare: non solo perché ha scelto di fare la colf, pur essendo giovane e angloamericana, non solo perché si innamora di un tossico poco pulito molto più vecchio di lei che ha in programma di autodistruggersi, ma soprattutto perché è molto sola, triste, con probabili disturbi mentali che le derivano da traumi vissuti nell'infanzia.
Il romanzo apparentemente potrebbe ricordare “Eleanor Oliphant sta benissimo”, con il quale ha in effetti dei punti di contatto. Innanzi tutto perché entrambi narrano la storia di una giovane donna ferita dalla vita durante l'infanzia, che riporta in età adulta diverse turbe psicologiche. Però la somiglianza è solo apparente. Il romanzo di Gail Honeyman narra con determinazione una vicenda di ascesa: dalla solitudine all'amicizia, dal disturbo mentale alla sua guarigione, dalla tristezza alla speranza. E' evidentemente costruito per venire incontro al gusto del lettore, che si sente appagato dalle storie che evolvono in una certa direzione.
“Facciamo che ero morta” non è così. C'è il tentativo di superare il passato e giungere ad una condizione di vita migliore, che procuri minore sofferenza, infatti ad un certo punto, spinta da un evento traumatico, Mona lascia il New England e si trasferisce a Taos, in New Mexico. Il suo percorso di evoluzione rispetto al passato però non è lineare, né facilmente comprensibile. Mona è un personaggio strano e complesso, grottesco in diversi aspetti, e, nel New Mexico non farà altro che incontrare personaggi altrettanto strani, ambigui e a volte grotteschi, se pure sempre molto differenti da lei. Si tratta di un romanzo di formazione molto originale.
Lo consiglio se amate le storie un po' alternative, con personaggi e situazioni lontani dall'essere esemplari e perfetti, ma piuttosto grotteschi e bislacchi, che vogliono raccontare la difficoltà e la tristezza del vivere.

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Consigliato a chi ha letto...
A chi ha letto e apprezzato Fabio Genovesi in "Chi manda le onde" e "Esche vive". L'accostamento è venuto spontaneo perchè sia Genovesi che Beagin hanno costruito delle storie un po' grottesche con personaggi strani e diversi che agiscono su un fondo di tristezza. E' evidente invece la lontananza nei contenuti fra questi romanzi.
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Facciamo che ero morta 2019-02-18 08:46:12 ornella donna
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    18 Febbraio, 2019
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Mona e Le difficoltà del passato

Jen Beagin firma Facciamo che ero morta: un libro strano, estroso, al di fuori delle regole e delle convenzioni.
Narra la vicenda di Mona, una donna con grossi problemi psicologici e di affettività, ha solo ventiquattro anni e si guadagna da vivere andando a fare le pulizie nelle case delle persone ricche, soprattutto. Vissuta da Sheila, una cugina che l’ha cresciuta, dopo che i genitori, una specie di figli dei fiori, l’hanno abbandonata. Ma Mona fa anche volontariato e lì conosce un individuo molto più vecchio di lei, drogato fino al midollo, che lei soprannomina Mister Laido. Un uomo che nonostante le evidenti difficoltà di vita, parla con accuratezza e ha sempre dei libri con sé. Iniziano una relazione alquanto ambigua e sofferente, lui addirittura cerca di trascinarla alla scoperta delle droghe. Fino a quando lui un giorno scompare letteralmente, lei ha paura che si sia suicidato e soffre. Infatti dopo poco le viene recapitata una lettera sconvolgente, dove le si consiglia di:
“Ti supplico di non disperarti. Sono senza denti, senza cazzo, e ho il doppio dei tuoi anni: devi essere felice di liberarti di me. Hai bisogno di una persona più giovane e più ottimista, che ti scopi come Dio comanda e magari che ti ingravidi pure.
Prima di uscire di scena, ti do un consiglio non richiesto: vattene da qui. Non hai nessun vero legame in questo posto, perciò sarebbe sciocco rimanere. Il motivo per cui ti trovi così a tuo agio nelle case altrui, Mona, è che non ne hai una. Continua a cercare. Va nel deserto. Mi sarebbe sempre piaciuto vivere nel New Mexico, e ti vedrei bene a Taos, una cittadina dove sono passato quando aveva la tua età. Perché non ti trasferisci lì e ricominci da zero? Prendi in affitto una casita de adobe. Dipingi dei quadri. Entra in una setta salutista. Trovati un guru.”
Così lei ascolta e mette in atto il suo consiglio, recandosi nel New Mexico, sconvolgendo del tutto la propria vita. Ma così facendo affrontando le ataviche paure che da sempre la sconvolgono, e che sono soprattutto legate al suo rapporto con i genitori, e con il padre in primis.
Un romanzo che non ha incontrato del tutto le mie simpatie. Un viaggio empatico che non conduce a nulla, scritto con una prosa noiosa e alquanto pesante. Un testo che sa di stantio, di già visto e conosciuto, che non conduce a nulla. Peccato.

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Facciamo che ero morta 2019-01-24 16:33:35 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    24 Gennaio, 2019
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Weltschmerz

“Facciamo che ero morta”, si ripete Mona. Un gioco di quando era bambina, un modo per far sentire Mickey un padre decente per qualche minuto, un modo per non pensare alla sua vita e a quell’infanzia e adolescenza da cui lei non è uscita integra. Ventiquattro anni, donna delle pulizie e con un passato duro e crudo alle spalle, Mona, ogni martedì sera presta servizio di volontariato distribuendo kit di siringhe pulite ai tossici.

«Tra le persone che conosceva, aveva più cose in comune con i tossici che con chiunque altro. Come lei, erano invisibili al resto della società – loro in quanto tossici, lei in quanto colf – e, come lei, mangiavano praticamente qualsiasi cosa fosse coperta di glassa. Tra loro non c’erano buoni samaritani, esibizionisti o tipi alla Save the Children. Fumavano come turchi e mangiavano nachos e hot dog comprati al 7-Eleven, tutte cose che lei apprezzava»

Ed è durante uno di questi turni che lo vede: Mister Laido. Per i primi mesi di quel gioco di osservazione per lei, lui non era stato altro che un numero dall’epilogo già scritto, “un pellicano impantanato nel petrolio, sfinito e in condiscendente attesa della sua stessa disfatta”, poi, un libro dal titolo “La vita di Art Pepper” stabilisce il contatto e dal contatto nasce una relazione la cui sorte è inevitabile ma a cui, eppure, è impossibile sottrarsi.
Sin dal principio la protagonista dell’esordiente Jen Beagin colpisce il lettore per il suo essere semplicemente così se stessa e per le sue scelte: eclettica, triste e sola a causa di traumi vissuti nell’infanzia che le hanno arrecato disturbi mentali non superati nonostante cinque anni di terapia, ella si accontenta del suo lavoro di donna delle pulizie, vive le vite dei suoi clienti di cui conosce tutto grazie a quella intima confidenza che assume pulendo e al contempo si innamora di un quarantaquattrenne che per sei mesi riesce a restare “pulito” per poi ricadere nel suo programma di autodistruzione, programma in cui però non ha intenzione di coinvolgerla fino alla fine. Non solo, a renderla ancora particolare è la scelta di andarsene e di lasciar tutto per seguire il consiglio proprio di quest’ultima voce che per l’intero componimento le fa da eco nella mente. Abbandonata così Lowell, Massachusetts, la giovane giunge nel New Mexico e approda in una cittadina vicina a Taos abitata da una bislacca comunità di nullafacenti e new ager quali Yoko e Yoko.

«Tu non sei una lotofaga, Mona, – disse Nigel con pazienza. – Non più. Sei risalita a bordo e stai tornando a casa. È giunta l’ora di gir battendo co’ pareggiati remi il mar canuto. Rema con tutte le tue forze e non guardarti indietro»

Leggendo di Mona molteplici sono le sensazioni di dejà vu con “Eleanor Oliphant sta benissimo” di Gail Honeyman. Le due eroine, infatti, sono vicine proprio per il modo di porsi rispetto al mondo fuori e alla dimensione esterna a quella del proprio io a causa di traumi che le hanno segnate nell’età dello sviluppo, tuttavia, man mano che l’opera prosegue nel suo scorrimento, vediamo che in realtà questa apparente comunanza di romanzi, finisce con l’imbarcarsi su rette parallele che sono destinate a non incontrarsi mai e che forse mai si sono incontrate se non per qualche gioco della nostra mente. La differenza tra i due scritti risiede proprio nel contenuto, perché se Eleanor passa dalla solitudine all’amicizia, dal disturbo psichico alla terapia per la guarigione, alla speranza per un futuro diverso fatto di possibilità e di un principio, a un domani che diventa possibile, Mona è talmente contrita nella sua psiche e nel suo passato così poco lineare e affrontato, che si limita semplicemente a tentare di mutare la propria condizione andandosene in un’altra città ma senza davvero provare a cambiare la sua esistenza. Conosce persone, conosce situazioni e realtà paradossali sin dalla prima pagina, ma le manca quel qualcosa per riuscire. Lo dimostra il fatto che nonostante la sua giovane età mai pensi ad un’alternativa concreta al suo lavoro. Ama scattarsi foto in pose assurde e talvolta inquietanti, ha un rapporto provato con il suo corpo, potrebbe essere tutto, ma resta sempre lì. Ferma, immobile. Solo nell’epilogo e nelle telefonate a quel padre che fa accapponare la pelle, si può ipotizzare un presunto baluardo di speranza.
È un personaggio complesso, stratificato, grottesco, ironico, con un senso dell’umorismo tagliente, la nostra Mona, è una giovane donna con una prospettiva a trecentosessanta gradi tanto interna quanto esterna che però sopravvive e mai vive. Ha uno spiccato senso verso l’autodistruzione e verso l’autocommiserazione. La forza dell’autrice è proprio questa, riuscire a far entrare il lettore nella sua psiche, trascinandolo, sconvolgendolo con le vicende e le circostanze, lasciandolo perplesso innanzi a scelte e comportamenti e al contempo rivelando, in modo assolutamente casuale e non seguendo un filo logico-temporale preciso bensì in modo volontariamente impreciso e irruento, quegli avvenimenti della gioventù della donna. L’effetto è che il conoscitore torna indietro, rilegge, si assicura di aver letto bene, intuisce ma resta nel dubbio da questa totale assenza di certezza, si interroga, e va avanti e ancora avanti nel tentativo di far chiarezza, di capire, di scoprire cosa si cela in questo percorso cieco e oscuro.
In conclusione, un romanzo d’esordio che non lascia indifferenti, con una storia e con personaggi imperfetti che fanno della loro assenza di perfezione la loro forza e che ha quale grande obiettivo quello di invitare alla riflessione sul male di vivere, sulle sue difficoltà, sulle realtà che ci circondano, sulla solitudine, l’isolamento, la tristezza e la depressione di questa vita dai colori opachi, dal sapore amaro e dalla tonalità acuta e ingiusta.

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