Narrativa straniera Romanzi I giorni e gli anni
 

I giorni e gli anni I giorni e gli anni

I giorni e gli anni

Letteratura straniera

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Diviso in capitoli dedicati ognuno a un giorno dell’anno, il romanzo è un viaggio tra le dimensioni temporali che intessono il nostro quotidiano e lo legano indissolubilmente alle sorti comuni degli uomini. Con straordinaria varietà di registri, di toni e di stili, Johnson evoca il fervore della metropoli statunitense e le ferite della Storia per tracciare un affresco memorabile: dietro al susseguirsi dei giorni nella vita di una donna traspaiono gli anni cruciali dei destini d’Europa. Una lettura unica e necessaria. L’immersione totale in una vita parallela.



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I giorni e gli anni 2020-07-25 20:46:51 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    25 Luglio, 2020
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IL TEMPO E LA MEMORIA

“– Gesine, svegliati. Dov’eri? – Indietro di qualche anno.”

365 capitoli, uno per ogni giorno dal 21 agosto 1967 al 20 agosto 1968, 365 capitoli a comporre un anno “dalla vita di Gesine Cresspahl” (come recita il sottotitolo de “I giorni e gli anni”, in originale “Jahrestage”, letteralmente “Gli anniversari”). Chi pensasse che la tetralogia di Uwe Johnson sia una sorta di diario della protagonista cadrebbe però in un clamoroso equivoco, perché la componente diaristica (la descrizione della vita quotidiana di Gesine e di sua figlia Marie a New York), seppur presente, risulta alquanto marginale, rimanendo quasi sempre sullo sfondo. Ne “I giorni e gli anni” c’è infatti molto altro: ci sono i ricordi dell’infanzia e della giovinezza “tedesca” di Gesine e la narrazione (parecchio romanzata) del passato della famiglia di origine, c’è la Storia (la Repubblica di Weimar, l’ascesa del nazismo, la guerra, l’occupazione sovietica) e la cronaca, in attesa di diventare Storia, che trapela dalle pagine del New York Times di cui Gesine è un’assidua lettrice (i disordini razziali, la guerra in Vietnam, gli omicidi di Martin Luther King e di Robert Kennedy, la contestazione giovanile, la Primavera di Praga: il 1968 è stato un anno davvero cruciale nella storia del Novecento!), ci sono le riflessioni filosofico-intellettuali (ad esempio quelle, illuminanti, sulla rimozione collettiva dell’Olocausto) e tanto altro ancora (sogni, dialoghi mentali con i defunti, fantasie infantili, ecc.). “I giorni e gli anni” è un’opera incredibilmente complessa e stratificata, dalle mille sfaccettature, un libro che non è paragonabile a nessun altro, un unicum nella storia della letteratura moderna (ed è probabilmente questa singolarità ad aver fatto sì che Uwe Johnson rimanesse un autore relativamente poco conosciuto al grande pubblico, rispetto ad altri scrittori suoi connazionali, come Gunther Grass o Heinrich Boll). E’ – soprattutto – un capolavoro sul tempo e sulla memoria, come prima di esso solo Proust con la sua “Recherche” è stato in grado di realizzare. Gli andirivieni temporali de “I giorni e gli anni” creano un elaborato ordito, in cui si avverte ad ogni pagina l’orgoglioso, titanico tentativo di restituire il volto del tempo in tutte le sue sfuggenti, impalpabili e “impossibili” sfumature. Ma a differenza di Proust, che medianicamente, era riuscito a resuscitare il passato, integro e intatto grazie all’epifanica capacità dell’opera d’arte di annullare ogni barriera cronologica, in Johnson c’è piuttosto la sconsolante consapevolezza della fallacia della memoria di far rivivere il passato. La memoria cerca sì di riempire con i ricordi il vuoto di ciò che è stato, “di ciò che un tempo fu realtà, sensazione viva, fatto accaduto”, ma invano. I ricordi sono infatti come “lacerti, schegge, spezzoni, filacci che andranno a ricoprire a caso l’immagine depredata e priva del suo contesto, calpesteranno le tracce della scena che si voleva ricostruire, e così siamo ciechi ad occhi aperti. Quel pezzo di passato che ci appartiene perché c’eravamo rimane nascosto dentro a un segreto impenetrabile […], inavvicinabile nel suo gesto di rifiuto, privo di parola e affascinante come un enorme gatto grigio dietro al vetro della finestra, visto da molto in basso come con occhi di bimba”. Il ricordo ha i suoi trucchi (ad esempio, generare da se stesso, magari partendo da un tono di voce, una frase che un personaggio avrebbe potuto dire, e da qui costruire un intero dialogo che magari non si è mai svolto nella realtà, almeno non con quelle parole), ma non è in grado di garantire l’accesso al tempo trascorso; se ogni tanto si accende per qualche istante qualcosa che ci piacerebbe spacciare per passato, questa è solo un’intermittenza del ricordo destinata inesorabilmente a scomparire, senza neppure l’illusione del potere taumaturgico di una parola poetica in grado di compiere il miracolo di fissare per sempre questi evanescenti momenti. Conscio di questa incapacità, Uwe Johnson adotta una sorta di originalissima visione “prismatica”, che cerca di sopperire alla inaffidabilità della memoria: i fatti del passato sono visti da varie angolazioni e punti di vista. Quello di Gesine è solo uno di questi, è al più una “congettura” (non a caso il suo romanzo d’esordio, che cercava di ricostruire “rashomonicamente” la morte di Jakob, un personaggio che ricorre anche ne “I giorni e gli anni”, si intitola “Congetture su Jakob”), perché nella poetica di Johnson a un massimo di realismo corrisponde paradossalmente un massimo di indeterminatezza, alla verità viene pragmaticamente sostituita la verosimiglianza. Siccome i ricordi travisano la realtà, Johnson fa alternare spesso, a volte nella stessa frase, la prima e la terza persona, per separare il punto di vista di chi ha vissuto un’esperienza nel passato da quello di chi la rielabora nel presente (cosa che fa oscillare il romanzo tra immedesimazione soggettiva e distanziazione oggettiva). A proposito delle voci con cui si trova di frequente a parlare nella sua testa (voci di persone defunte, come il padre Heinrich, la madre Lisbeth o Jakob), Gesine coglie bene questo aspetto, quando afferma che “mi sento parlare non soltanto dalla posizione reale del soggetto (nel passato) ma anche dalla prospettiva del soggetto attuale di trentacinque anni. Nell’udire capita anche che la mia propria posizione di ragazzina quattordicenne si scambi con quella di me partner attuale, che però non posso in nessun modo aver rivestito”. Questa situazione si amplifica se si considerano gli avvenimenti che vengono ricostruiti senza neppure averli vissuti (ad esempio gli anni prima della nascita di Gesine o la prigionia di Heinrich Cresspahl), i quali sono sempre passibili dell’accusa di falsificazione (e la figlia Marie assume nei dialoghi sul passato della madre proprio la funzione di mettere criticamente in discussione la verità di quanto rievocato, cercando di trovare nei suoi racconti falle e punti deboli, oppure di svelare quei ricordi che hanno surrettiziamente preso spunto da fatti ben più recenti). E’ significativo che prima di morire Uwe Johnson, la cui opera ha girato sempre intorno agli stessi luoghi e personaggi (oltre al Jakob citato poco innanzi, anche il Karsch de “Il terzo libro su Achim”), stesse pensando a una sorta di romanzo su Heinrich Cresspahl, il padre di Gesine, quasi volesse dare anche a lui la possibilità di dire la sua, dopo quello che la figlia ne aveva raccontato ne “I giorni e gli anni”. L’opera di Uwe Johnson è una costruzione che, quasi fosse una sorta di elaborazione in chiave letteraria del principio di indeterminazione di Heisenberg, più si avvicina realisticamente ai fatti e meno diventa oggettiva. L’ossessione di Gesine per quella che considera “la prova dell’esistenza di questo giorno”, ossia la letteratura quotidiana del New York Times (che lei chiama affettuosamente “zia Times”, dando al giornale le fattezze di una “anziana signora onusta d’anni e di dignità”, che “ha girato il mondo in lungo e in largo” e “ha guardato la vita in faccia”, che sa stare al passo coi tempi e non alza mai la voce, e “non chiama il presidente col nome di battesimo, tutt’al più le vittime di un omicidio”, insomma una affidabile “polena sul vascello della morale”) è forse il tentativo di ancorare la propria vita a una qualche istanza di verità superiore, tentativo peraltro destinato anch’esso al fallimento, dal momento che neppure la cronaca giornalistica del presente è esente da quei problemi di soggettività e di interpretazione che Gesine sperimenta nelle sue elucubrazioni sul passato.
Il problema della memoria si riflette anche nelle considerazioni più propriamente politiche del romanzo. Un esperimento dell’Università di Princeton del secolo scorso era addivenuto alla conclusione che l’uomo tende a dimenticare ciò che è legato ad esperienze spiacevoli, in quanto il dolore e il ricordo sono correlati. Paradossalmente Gesine, la quale soffre dell’incapacità di far rivivere con la memoria il proprio passato personale e familiare, è schiacciato (in quanto tedesca, anche se all’epoca solo una bambina) dalla memoria storica dell’Olocausto, quella “sensazione di incubo, la cieca e inane autodifesa di chi dorme e lotta con qualcosa che nessun risveglio riuscirà a fugare del tutto”. Una colpa inconscia che diventa vergogna quando ci si rende conto di come con gli anni ci sia stata in Germania una vera e propria rimozione collettiva, al punto che, nonostante la “denazificazione” operata dalle potenze vincitrici nel dopoguerra, molti personaggi compromessi con il nazismo siano tornati ugualmente a ricoprire cariche politiche di prestigio. Del resto, il senso di colpa ereditato da Gesine appare del tutto comprensibile alla luce del fatto che la famiglia Papenbrock (cioè i nonni e gli zii di Gesine) è una ipostasi quasi perfetta della società tedesca degli anni trenta che si è resa complice dell’avvento della dittatura: Horst, la SA, l’ingenuo e rozzo nazista della prima ora, viene ben presto soppiantato dal cinico fratello Robert, destinato a diventare un sonderfuhrer in Ucraina durante la guerra, mentre il capofamiglia Albert, facoltoso commerciante agrario, rappresenta l’alta borghesia e l’industria tedesche che si sono illuse di poter utilizzare a proprio vantaggio quella apparentemente innocua masnada di zotici in camicia bruna al seguito di Hitler e che troppo tardi hanno scoperto l’esiziale volto del Terzo Reich. Se il giudizio di Johnson è impietoso anche nei confronti dei sovietici, che nel dopoguerra governano spietatamente per qualche anno la parte orientale della Germania (e i cui campi di concentramento non sono poi molto differenti dagli omologhi lager nazisti), e della R.D.T. comunista, dove la ragione di Stato, o meglio quella di partito, ha la supremazia su tutto, dove a scuola le lezioni di “educazione all’attualità” ottenebrano le menti delle giovani generazioni, dove quello del delatore “è un lavoro come un altro” e – a differenza dei tempi del nazismo in cui vigeva il motto “il nemico ti ascolta” – è l’amico ora a poterti tradire e spedire ai lavori forzati con l’accusa di sabotaggio, di attività controrivoluzionaria, o semplicemente di possesso di letteratura antidemocratica, il giudizio di Johnson – dicevo – non è benevolo neppure nei confronti dell’America, dove solo la libertà di pensiero e di parola riesce a compensare parzialmente la sostanziale iniquità della politica imperialistica e del sistema economico-sociale capitalistico. Hans Magnus Enzensberger aveva avanzato un provocatorio parallelo tra gli Stati Uniti della fine degli anni ’60 e la Germania della metà degli anni ’30, sostenendo che in entrambi i casi c’era una razza svantaggiata e perseguitata, e così come la Germania si era immischiata nella guerra contro la rivoluzione spagnola, così gli U.S.A. avevano fatto in Vietnam (“Il Vietnam è la Spagna della nostra generazione!”). Anche se Uwe Johnson non è mai stato troppo tenero con le posizioni ideologiche del connazionale Enzensberger, non c’è dubbio che la particolare dinamica temporale de “I giorni e gli anni” (quel passare nella stessa pagina da un’epoca all’altra) autorizzi il lettore a convincersi della liceità di una simile correlazione.
“I giorni e gli anni” è una imponente tetralogia di quasi duemila pagine, che Johnson ha impiegato ben quindici anni a realizzare. Se l’opera è sicuramente importante da un punto di vista “intellettuale”, il lettore non è mai privato del piacere popolare della saga familiare. La Jerichow e il Meclemburgo in cui Gesine vive la prima parte della sua vita, così provinciali e appartati, con la sua schietta umanità e il suo dialetto (il “plattdeutsch”, che i traduttori hanno restituito utilizzando il vernacolo toscano, cosa che all’inizio mi ha lasciato un po’ interdetto, ma che successivamente mi è sembrata una scelta tutto sommato appropriata), Jerichow e il Meclemburgo – dicevo – mi hanno ricordato la Schabbach e l’Hunsruch dell’epocale capolavoro cinematografico “Heimat” di Edgar Reitz, un autore che, come Johnson, non ha mai avuto paura di allargare smisuratamente i propri orizzonti, fino a realizzare, tra storia, autobiografia e immaginazione, il ritratto di un mondo e di un’epoca nel suo incessante fluire generazionale. “I giorni e gli anni” alterna tragedie immani e momenti sottilmente satirici (Uwe Johnson amava dire di sé: “Sono un umorista misconosciuto”), riflessioni esistenziali e ritratti umani indimenticabili, spirito saggistico e afflato lirico (i primi tre volumi, ad esempio, iniziano curiosamente con suggestivi incipit che hanno a che fare con l’acqua e con luoghi acquatici: il mare del New Jersey, la piscina di Manhattan e il lago artificiale nello Stato di New York), cronaca giornalistica e pagine di metaforica bellezza (come quando, nel capitolo dedicato ai rumori di New York, le caldaie che vengono accese all’inizio dell’autunno vengono paragonate a un vecchio tossicchiante e catarroso). Da tutto ciò nasce il fascino ambiguo ed obliquo di un’opera strana e spiazzante, che avvince e distanzia allo stesso tempo, che invita il lettore all’immedesimazione e contemporaneamente lo innalza ad altezze tali da renderlo osservatore distante e distaccato degli avvenimenti. Sebbene leggerlo nella sua interezza non sia una impresa da intraprendere alla leggera, “I giorni e gli anni” è uno dei capolavori imprescindibili della letteratura di tutti i tempi, che meriterebbe una fama ben maggiore di quella che la sua mole poco appetibile al lettore contemporaneo da una parte e le esigenze dell’industria editoriale dall’altra (in Italia il terzo e quarto volume, a lungo inediti, sono usciti solo nel 2014 e nel 2016, pubblicati da una piccola casa editrice, “L’Orma”) gli hanno potuto garantire.

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