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C’è un quartiere ad Amsterdam dove nevrotiche veneri in pelliccia camminano specchiandosi continuamente nelle vetrine dei negozi e uomini in completo, troppo grassi o troppo magri, si dedicano pure loro allo shopping come se non avessero niente di meglio da fare. È un quartiere perbene fatto per gente perbene, dove ci sono centocinquanta pasticcerie e gastronomie, e dove tutto è un lievito madre a grana grossa e panini al frumento insaturo contro il cancro, le vene varicose e i versamenti di sangue. È soprattutto il quartiere dove si erge il Liceo Montanelli. Una scuola dove sono fatti tutti della stessa pasta: tipi con genitori artistici, pittori e scultori, innanzi tutto; ragazzini con padri e madri che appartengono al cosiddetto «mondo del teatro»; pedantelli che durante la ricreazione se ne stanno a blaterare di argomenti ricercati con le loro vocine finte e modulate. Il metodo della scuola l’ha inventato una certa Maria Montanelli, cent’anni prima, per offrire qualche opportunità in più nella vita ai bambini poveri di Napoli. Ad Amsterdam, però, il liceo costa sedici volte di più rispetto a una scuola normale, e di poveri non vi è nemmeno l’ombra tra le sue mura. Come in ogni scuola che si rispetti, anche il Liceo Montanelli ospita, tuttavia, una voce fuori dal coro: un ragazzo la cui madre è venuta a mancare dopo una lunga malattia, e il cui padre ha trovato conforto con una vedova appena tre isolati più in là. Un allievo particolarmente discolo, il cui sogno ricorrente è che uno Spitfire arrivi in picchiata e apra il fuoco su tutto quel quartiere palloso e viziato. Un compagno di classe, che vorrebbe tanto darle di santa ragione a Jan Wildschut, il nuovo arrivato, quello con qualche rotella fuori posto che sia d’estate che d’inverno indossa sciarpa e muffole e durante la ricreazione se ne sta nel cortile della scuola a masticare lentamente i suoi panini, con la saliva che gli cola da un angolo delle labbra…



Recensione della Redazione QLibri

 
La scuola 2019-06-03 08:53:44 FrancoAntonio
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3.0
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3.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    03 Giugno, 2019
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La scuola del livore

Ad Amsterdam esisterebbe un istituto scolastico che si ispira, nei metodi di insegnamento, ai principi ideati da una grande educatrice italiana: Maria Montanelli. Tuttavia, mentre il sistema Montanelli sarebbe stato ideato per consentire l’accesso all'istruzione ai bambini poveri nei quartieri degradati di Napoli, in Olanda è divenuto base per la costruzione di un percorso scolastico modernista per i figli dell’élite cittadina: la scuola ha sede in uno dei quartieri più lussuosi, vi accedono solo i rampolli di ricchi e di artisti mentre il sistema educativo, buonista e volto alla crescita autonoma della consapevolezza, è sostanzialmente una quintessenza dello snobismo.
Frequentano la scuola, però, anche uno studente decisamente atipico, particolarmente riottoso a sottomettersi alle regole che gli vengono imposte, e un altro chiaramente affetto da handicap cognitivi che diviene, proprio perciò stesso, bersaglio dei compagni quanto più egli è oggetto di protezione da parte dei docenti.
La storia, che è, più che altro, una elencazione dei motivi di scontento dello studente ribelle, ci vuol spiegare perché, alla fine, lo studente “ritardato” troverà la morte durante una gita scolastica o, meglio, durante una di quelle che ufficialmente, nella scuola Montanelli, sono chiamate “settimane di lavoro”.
Trovo molta difficoltà a recensire il breve romanzo di Koch (pubblicato in lingua originale nel 1989, ma edito solo ora in italiano) che mi ha lasciato letteralmente sconcertato.
Le centoventotto pagine del libro sono un’unica ininterrotta invettiva dello studente ribelle (la voce narrante) contro la scuola, i suoi professori, il quartiere ove risiede, le persone che lo abitano e tutto il contesto in cui si trova a vivere. Palesemente autobiografico (ho scoperto solo in seguito che Koch ha studiato al Liceo Maria Montessori di Amsterdam e ne è stato espulso), pare quasi una seduta psicanalitica nella quale l’A. caccia fuori tutto il fiele che gli si è accumulato dentro per i torti che ritiene gli siano stati inflitti.
Raramente mi è capitato di leggere pagine più intrise di livore e odio di queste. Nulla gli aggrada, tutto è degno delle più feroci critiche e dei peggiori vituperi. La cronaca della morte annunciata dello studente è solo un pretesto coltivato marginalmente, mentre l’obiettivo principale è proprio lo sfogo del narratore, chiaramente disturbato e psicologicamente fragile, contro tutto ciò che gli rende l’esistenza insopportabile. Il protagonista (e di conseguenza forse anche l’A.) si trova a vivere un durissimo momento con l’improvvisa malattia dell’amata madre che lentamente scivola nella morte. Il comportamento anaffettivo del padre che, indifferente alle sorti della moglie, intrattiene alla luce del sole una relazione extraconiugale con una ricca vedova che abita nei paraggi, aggrava il suo stato d’animo. A questo punto, il metodo di insegnamento blandamente comprensivo, l’atteggiamento dei compagni (pochi esclusi) e, in genere, lo snobismo dilagante in cui si aggira, formano una miscela esplosiva che non risparmia nessuno.
Il romanzo, scritto con lo stile che potrebbe caratterizzare la prosa di un diciannovenne, pieno di voli pindarici, di incisi e di digressioni, non si comprende dove voglia condurre il lettore. È stato definito una feroce critica al sistema, al perbenismo e conformismo che ci caratterizza; una sferzata contro le ipocrisie. Io non ho percepito nulla di tutto ciò. Vi ho visto solo un disperato grido d’aiuto di un ragazzo che si dibatte disperatamente, oppresso dalle sue angosce e dai suoi dolori per i quali non riesce a trovare risposta da nessuno di coloro che potrebbero e dovrebbero dargli soccorso. Tutto sommato alla fine si ricava una sensazione di acuta mestizia.

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