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La confessione di una leonessa
 
La confessione di una leonessa 2016-05-23 08:40:51 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    23 Mag, 2016
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Il vero significato della leonessa

Mozambico. Un branco di leoni attacca a più riprese un villaggio, innumerevoli sono le morti. Quale altra scelta se non ricorrere ad un cacciatore? Quest’ultimo non si trova però a dover affrontare soltanto i predatori, egli dovrà fronteggiare anche gli uomini e le loro convinzioni, quelle popolazioni all’interno delle quali diffusa è la credenza per la quale i leoni siano inviati dal mondo dei morti o comunque evocati da astuti stregoni per compiere vendette e seminare il terrore. Ha inizio così la storia magistralmente narrata da Mia Couto, una storia che trae origine da una vicenda realmente accaduta (a Cabo Delgado, quindici giovani studiosi inviati sul luogo per svolgere attività di prospezione sismica si trovano coinvolti in continui assalti ed uccisioni da parte dei felini tanto che in pochi mesi le venti vittime sono superate) che si snoda su misteri che altro non sono i sintomi di quei conflitti sociali che vanno oltre la capacità di risposta, quei retaggi storici e quei soprusi che sono divenuti ad oggi parte integrante della cultura del luogo, avvenimenti, tra l’altro, a cui l’autore ha avuto modo di assistere in prima persona.
La scrittura per Mia è uno strumento di gran significato, è un mezzo con il quale porre in essere denuncia sociale e rinnovamento culturale. L’autore porta infatti con se i retaggi di quella che è la realtà del Mozambico, un luogo di guerre e contraddizioni, e dunque scenario ottimale per la sua penna poetica e visionaria al tempo stesso. In ogni figura descritta vi è ben oltre l’apparenza. L’opera presenta infatti molti caratteri metaforici in grado con la loro unicità di trasmettere messaggi e riflessioni diverse rispetto a quelle a cui il lettore occidentale è solito. Basti pensare al Leone che è al tempo stesso preda e predatore ma anche espressione dell’uomo. Egli è ribellione a quest’ultimo, è resistenza a quello stesso essere che si descrive quale superiore, quale geneticamente più sviluppato per poi rivelarsi bestia al primo accenno di una guerra. Ancora l’uomo è distruttore perché con la sua azione degrada quell’ambiente che non ha energia e tempo per rigenerarsi; tutto questo si manifesta con l’uccisione di piccoli animali, bestioline di cui i leoni soventemente si nutrono e che alla mancanza li obbligano a spostare la loro indole cacciatrice su una carne diversa, quella degli abitanti del villaggio. Eppure la bestialità umana non è solo circoscrivibile a questo, non risiede soltanto nell’intervenire sull’ordine naturale delle cose, si palesa altresì sui suoi simili: l’uomo manifesta la sua indole animale sulla sua specie di appartenenza, prime fra tutte sulle donne, le quali sono invisibili in una società incentrata sul sesso maschile e su una serie di tradizioni che le escludono prevedendo oltretutto punizioni indescrivibili per chi va contro il dogma sacro. Basti pensare a Tandi che a seguito del suo errore, della sua audacia è stata stuprata a turno da tutti gli individui presenti all’atto della stessa.
Kulumani è il nome del paesino in cui Couto traspone queste verità. Le voci narranti sono due, quella di Mariamar, fanciulla nera vittima delle angherie e dei soprusi fisici e mentali del padre perché colpevole di avere occhi color miele, un corpo magro e slanciato, una bellezza unica e Arcanjo, il cacciatore alto e mulatto che naturalmente si contrappone a Gustavo, lo scrittore che lo accompagna negli spostamenti, basso e bianco. Terza protagonista delle vicende è la scrittura stessa. Questa è un’ossessione. Scrive la giovane per raccontare la sua storia, scrive il cacciatore rivivendo il proprio dramma personale, giorni di dolore accompagnati dal susseguirsi di brani rubati allo scrittore.
Cos’è per Mariamar la scrittura? Ella è creatura morta alla nascita, rinata nei quattro elementi, uccisa di nuovo sino a diventar muta per le violenze subite da quel padre ubriaco che troppo spesso si è approfittato di lei, del suo corpo e della sua anima. La scrittura non è altro che l’unica veste che ha. E’ la sua maschera, il suo amuleto, la sua medicina. Non ha appoggio nemmeno da sua madre, la quale, scoperto il maltrattamento che le figlie hanno dovuto subire non ha fatto altro che accusare la ragazza dagli occhi color miele – unica sopravvissuta delle sorelle – di non aver desiderato altro che “rubarle l’uomo” – non il marito, non il padre, badate bene – che lei stessa odia, detesta, di cui brama la morte.
Gustavo, alterego di Couto, con le sue parole riferite allo scrivere non fa altro che confermare quanto pericolosa sia tale arte in una realtà quale quella del Mozambico, dove tutto quello che è innovazione, consuetudine o quotidianità nel mondo occidentale, sia pericolo, ostentazione di vanità, un elemento da temere. E come questo è il doppio di Arcanjo, Mariamar lo è da Rolando, fratello del cacciatore ed accomunato alla ragazza dalla follia presunta o concreta di cui entrambi sono stati investiti.
Quella descritta dalle voci narranti altro non è che la voce di quell’Africa umiliata, di quel potere che porta ad uccidere, di quel male che permea nell’animo umano. Il tutto attraverso una struttura evocativa, visionaria, palpabile, dove realtà e magia, scambi di ruoli, gemellaggi e metamorfosi, si alternano sino alla confessione finale della leonessa.
Un quadro allegorico di un’esistenza di angherie subite dagli abitanti che a loro volta sono colpevoli di invidie, razzismo interno (basti pensare alla condanna di emarginazione elargita al padre di Arcanjo, Henrique, reo di aver sposato una mulatta e dunque bandito dai neri ed escluso da mulatti e bianchi, e dunque ad alcuno appartenente) e rancori (“Non abbiamo bisogno di nemici. Bastiamo ampiamente a noi stessi per sconfiggerci”).
E seppur esistano leoni della foresta, leoni fabbricati dagli stregoni e uomini-leone, quel che terrorizza è la leonessa, sinonimo e premonizione di quella che sarà la vendetta femminile, principali vittime, insieme agli anziani, agli omosessuali, ai malati di mente, ai morti le cui tombe vengono profanate per rubarvi averi, della violenza in Africa. Il felino è sinonimo di una morte misteriosa, di un trapasso a cui è difficile dare una spiegazione, lo stesso del deperire e scomparire degli emarginati, dei poveri, dei dimenticati che non hanno alcun potere.
Tanti sono i rimproveri dell’autore alla sua gente, primo tra tutto grave errore è l’accettazione, quella passività, quell’assenza di sdegno, quell’incapacità a reagire che pone solide basi per regimi tirannici, dittatoriali. La storia del Mozambico ne è testimonianza: dopo l’indipendenza del 1974 altra data essenziale è quella del 1992 anno in cui è giunta al termine la guerra civile, conflitto che ha arrecato più di un milione di morti. E ad oggi, che dovrebbe regnare la pace, tanti altri fenomeni sociali invisibili si sono stanziati in questa terra di divisione, ostilità, di scomparse e disperazione. Questi hanno ad oggetto i più deboli – donne, anziani, bambini poveri –, coloro che non hanno per retaggio culturale, storico, fisico ed economico capacità di difendersi.
Uno scritto quindi di gran contenuto, narrato con uno stile onirico, in cui la verità emerge con l’alternarsi di immaginazione e verità.

«Viaggio contro il destino, ma a favore di corrente. Per tutto il tempo la canoa continua a simulare obbedienza. A guidarla non sono le mie braccia. Sono le forze che preferisco ignorare. Novembre è il mese in cui si prega perché la pioggia scenda. Io prego per una terra su cui mi possa stendere come pioggia, senza peso né corpo»

«Il nostro villaggio era un cimitero vivente, visitato solo dai suoi stessi residenti»

«Guardo la strada sabbiosa che si apre dinanzi a noi, con più curve che distanza, e penso: la vita è attesa di ciò che può essere vissuto»

« Era quello che agognavo: un’inondazione che spazzasse via questo mondo. Questo mondo che costringeva una donna come Hanifa ad avere figli, ma che non la lasciava essere madre; che la costringeva ad avere un marito, ma non le consentiva di conoscere l’amore »

«La pazzia è l’unica assenza perfetta. Nell’insanità mentale io ero visibile, ma chiusa; malata, ma senza ferite; mortificata, ma senza dolore »

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Ciao Maria.
Molto interessante la tua recensione (come pare, anche il libro).
In risposta ad un precedente commento
Mian88
24 Mag, 2016
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Grazie Emilio, è un libro molto interessante che consente al lettore di interrogarsi sotto molteplici punti di vista. L'ho scoperto grazie ad una delle mie tredici libraie di fiducia e devo dire che è stato un ottimo consiglio. Un testo che merita e che lascia il segno, pagina dopo pagina :-)
Maria, puoi contare su ben 13 libraie di fiducia ?!
Bella proposta, lo segno !

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