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L'incanto del lotto 49
 
L'incanto del lotto 49 2023-02-23 16:22:01 kafka62
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
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Piacevolezza 
 
4.0
kafka62 Opinione inserita da kafka62    23 Febbraio, 2023
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PARANOIA ED ENTROPIA

“Comunque vada, la chiamano paranoia. Loro, la chiamano così. O senza l’aiuto dell’LSD e altri alcaloidi sei inciampata per caso nella ricchezza segreta e la densità nascosta di un sogno. […] O contro di te è stato montato un complotto, talmente caro e elaborato, […] una maniera così labirintica che deve superare i limiti dello scherzo. O tutta questa congiura te la immagini, nel qual caso, Oedipa, tu sei pazza da legare.”

Pare che Howard Hawks, dopo aver girato “Il grande sonno”, avesse candidamente confessato di averci capito poco o nulla, pur essendo il regista, dell’intricatissima storia tratta dal romanzo di Raymond Chandler. Il lettore de “L’incanto del lotto 49”, di fronte alla sua trama ingarbugliata e labirintica, si trova in una situazione del tutto analoga a quella del famoso regista, in quanto Pynchon sembra divertirsi a confondergli continuamente le idee, disseminando il romanzo di false piste (si pensi al mistero delle ossa trafugate per farne filtri per sigarette, il quale sembra fondamentale nel terzo capitolo, ed invece scompare del tutto nel prosieguo del libro) e di svolte narrative azzardate e inopinabili. Allo scrittore di Glen Clove infatti non interessa affatto la coerenza diegetica, quanto piuttosto portare avanti quello che, con lo scorrere delle pagine, diventa un vero e proprio leitmotiv, ovverossia l’inconoscibilità della realtà. L’universo pynchoniano è distorto, deformato come in un trip allucinogeno, è come una versione anamorfica del mondo che noi tutti conosciamo, e il lettore si trova disorientato di fronte a questa opera survoltata e psichedelica, in maniera non dissimile da come si sente la protagonista Oedipa quando riceve la lettera che la nomina esecutrice testamentaria del defunto Pierce Inverarity, un facoltoso uomo d’affari con cui aveva avuto una relazione anni prima, e non capisce come comportarsi, da che parte iniziare a guardare la faccenda. I tanti, imprevedibili avvenimenti che Oedipa si trova a fronteggiare nel corso del pur breve romanzo rimangono incomprensibili e non riescono mai ad apportare alcuna rivelazione, alcun incremento nella conoscenza della realtà, la quale resta oscura, indecifrabile, impossibile a vedersi nella sua nudità, così come il corpo che Oedipa cela sotto numerosissimi strati di indumenti quando decide di giocare a una sorta di gara di striptease con Metzger. Al centro della trama, dopo che altri potenziali motivi di interesse (come l’eredità di Inverarity) vengono senza alcuna motivazione accantonati da Pynchon, c’è l’enigma del Tristero, una sorta di presunta cospirazione, che attraversa secoli e continenti (dai tempi dei Thurn und Taxis in Europa fino ai più moderni Pony Express e Wells Fargo dall’altra parte dell’Oceano), legata a un servizio postale segreto, dissidente e alternativo rispetto a quello statale. Non è un caso che abbia citato in apertura “Il grande sonno”, perché Oedipa, come un detective privato, si mette a inseguire le labili tracce del complotto (alcuni strani versi in una commedia teatrale elisabettiana, il simbolo di un corno da caccia con la sordina disegnato in un bagno pubblico, un francobollo falsificato), fino a farsi completamente coinvolgere dalla cosa e dedicarle tutto il suo tempo e le sue energie. Oedipa, con il suo bizzarro ed emblematico nome, sembra essere la versione femminile del personaggio di Sofocle, ma mentre Edipo, messo di fronte all’enigma della Sfinge, riusciva brillantemente a risolverlo, la nostra protagonista fallisce clamorosamente la sua impresa. Le rivelazioni e gli indizi che si accumulano sempre più numerosi, infatti, anziché consentire di risolvere il mistero, lo infittiscono sempre di più. Non importa quante intuizioni Oedipa possa avere, quante epifanie le si possano manifestare, vi saranno sempre ulteriori strati, ulteriori livelli a coprire la verità ultima, e ogni mistero risolto aprirà solo altri sotto-misteri inesplicabili, in una frustrante catena di ermeneutica impossibilità. “L’incanto del lotto 49” diventa così una sottile satira dei romanzi gialli: mentre in questi ultimi gli indizi concorrono a svelare progressivamente il busillis, a sciogliere l’arcano, fino a un finale più o meno catartico, ne “L’incanto” ogni successivo indizio non fa che ispessire il mistero, anziché avvicinare la soluzione riporta solo al punto di partenza (come nel capitolo in cui, dopo una lunga serie di incontri rivelatori, premonizioni, congetture e pedinamenti, Oedipa si ritrova, in una sorta di loop temporale, davanti alla casa di Nefastis da cui si era accomiatata il giorno prima, come se le ultime ventiquattro ore vissute non fossero state davvero realtà, ma un’allucinazione frutto di una immaginazione psicotica). Con beffarda e preveggente lucidità Pynchon è così in grado di portare alla luce quelli che saranno, nei decenni a venire, i problemi legati agli strumenti di una comunicazione sempre più onnipresente e pervasiva, soprattutto nell’attuale era di Internet, Google e Wikipedia: ossia che a maggiori informazioni non corrisponde affatto una maggiore conoscenza.
Il mondo di Pynchon appare disgregato, frammentato, completamente in balia dell’entropia. Ad un certo punto del romanzo Oedipa si trova di fronte a una bizzarra invenzione, la macchina Nefastis, la quale permette, tramite una minuscola intelligenza nota come il “diavoletto di Maxwell”, di produrre energia dal nulla, violando così la seconda legge della termodinamica. L’invenzione si propone di mettere ordine, separando le molecole fredde da quelle calde, nel caos della realtà, ma ha bisogno, per funzionare, di un “sensitivo” capace di collegarsi telepaticamente al diavoletto. Oedipa si sottopone volontariamente a un test in grado di rivelare se lei possa essere una tale sensitiva, ma fallisce miseramente. Tale fallimento però può essere interpretato in due modi: o Oedipa non è una sensitiva o, più probabilmente, è la macchina stessa a essere niente di più che una ciarlataneria. Tutto il libro risponde in fondo proprio a questo dilemma: è Oedipa incapace di risolvere il mistero Tristero, oppure, più semplicemente, il mistero Tristero non esiste? In questa domanda si cela l’essenza stessa del romanzo e, più in generale, dell’intera letteratura postmoderna. L’eroina de “L’incanto” infatti, così come tutti gli altri anti-eroi di Pynchon, si sforza faticosamente di interpretare e dare un senso a un universo sconnesso e caotico (ad un certo punto si dice significativamente che Oedipa “voleva creare costellazioni”), senza capire, o capendolo troppo tardi, che un senso ormai non esiste più. L’entropia fatalmente prevale, come la vegetazione di una foresta vergine che invade e si impossessa delle rovine abbandonate di una civiltà estinta da tempo. Posto di fronte a questo infausto destino, l’individuo inevitabilmente si sfalda, si disintegra e diventa preda della paranoia. La paranoia circola un po’ dappertutto nelle pagine de “L’incanto”. Manny Di Presso si lamenta “Sempre qualcuno che ascolta, che spia; ti nascondono i microfoni in camera, ti intercettano le telefonate…”; il dottor Hilarius impazzisce e crede che emissari del governo israeliano vogliano ucciderlo a causa del suo passato nazista; il complesso di Miles e dei suoi amici si chiama addirittura “I paranoici”. Tutto ciò suggella in chiave parossistica e grottesca quella che, negli anni ’50 e ’60, era l’atmosfera tossica che si respirava in America, con la guerra fredda, la caccia alle streghe del senatore McCarthy e l’assassinio del presidente Kennedy. Anche Oedipa si trova a riconoscere “la logica con cui tutto si articolava perfettamente, quasi che (…) le rivelazioni si susseguissero a catena”, e si fa catturare dalla psicosi del complotto: le piste da lei seguite si intrecciano, gli indizi si ammassano esponenzialmente e ogni cosa sembra rimandare sempre e comunque (come tutti i corni da postiglione con la sordina che vede dappertutto, sotto forma di tatuaggi, spille, polsini da camicia o scarabocchi) al Tristero. Alla fine del romanzo Oedipa arriva persino a pensare di essere vittima di un gigantesco scherzo da parte di Inverarity, temendo che questi, lungi dall’essere morto, abbia assoldato attori, spiato i suoi movimenti, falsificato libri e documenti, per farle credere nell’esistenza di una cospirazione su vasta scala e prendersi in tal modo gioco di lei. Il finale de “L’incanto del lotto 49” è non a caso un finale aperto: c’è un uomo misterioso interessato all’acquisto della collezione di francobolli di Inverarity, ma non sapremo mai di chi si tratta perché il romanzo si interrompe prima, lasciando il lettore nell’amletico dubbio se Oedipa risolverà finalmente il rompicapo o, più probabilmente, si troverà di fronte a un enigma ancora più grande. In un romanzo stravagante e satirico, caratterizzato dalle consuete canzoncine pynchoniane, da imprevedibili giochi di parole e bizzarrie linguistiche (ad esempio, il nome della radio presso cui lavora Mucho, KCUF, assume, letto al contrario, un significato comicamente scurrile), dalla implausibile stramberia dei nomi dei suoi personaggi (il filatelico Genghis Cohen, lo psichiatra Hilarius, lo scienziato John Nefastis, il regista Randy Driblette), da curiose autocitazioni (il fantomatico concerto di Vivaldi per kazoo, ossessivamente cercato in “V.” dal musicologo Petard e che qui viene suonato del “Fort Wayne Settecento Ensemble”), da anacronistici episodi pseudo-storici (come quello della Guerra Civile americana in cui lo zar di Russia interviene a favore dell’Unione per sventare un attacco via mare a San Francisco da parte dei confederati, oppure quello che coinvolge la setta degli scurvamiti sotto il regno di Carlo I) e dalla feroce presa in giro delle sottoculture americane dell’epoca (dalla droga alla musica rock, dalla liberazione sessuale alle associazioni di sostegno contro le dipendenze più svariate), in un romanzo di questo tipo – dicevo – il tono del finale è paradossalmente di un pessimismo atroce. Al termine della storia infatti una Oedipa sconfortata e disillusa è costretta a riconoscere la propria sconfitta, timorosa persino di veder apparire suo malgrado davanti agli occhi nuove piste e inedite rivelazioni che possano ulteriormente disorientarla e ingolfarla. Il mistero del Tristero, irrisolto e irrisolvibile, la abbandona, come la risacca del mare con il relitto di un’imbarcazione naufragata, a una solitudine desolata e dolorosa, senza più nessuno dei suoi punti di riferimento (il marito Mucho rovinato dall’LSD, il dottor Hilarius impazzito, il regista teatrale Driblette morto suicida, l’amante Metzger scappato con una quindicenne lasciva) e con la propria vita completamente distrutta e senza scopo, in un cul-de-sac da cui, inesorabilmente, non è ormai più possibile riuscire a liberarsi per sperare di tornare alla tranquillità della routine iniziale.

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siti
24 Febbraio, 2023
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Ciao Giulio, per me è un mistero come riesca a destreggiarti con tanta disinvoltura in questi testi così complessi e criptici. Penso che siano letture inavvicinabili per me.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
27 Febbraio, 2023
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Grazie, Laura. I complimenti ricevuti da una lettrice del tuo valore hanno per me un'importanza incommensurabile. Per quanto riguarda Pynchon, non è poi così complesso come si può pensare (spiazzante sì, ma questo è un altro paio di maniche): alla fine si sorride anche molto, così come anche in altri libri di autori fondamentali della letteratura postmoderna (quali De Lillo, Gaddis, Wallace, Barth, per citare quelli che per primi mi vengono in mente). Buone letture!
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