Pastorale americana Pastorale americana

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    15 Aprile, 2022
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La caduta del Sogno americano

Mi sono avvicinato a questo testo, dopo aver visto la trasposizione cinematografica, con la bellissima e bravissima Jennifer Connelly (attrice che i più cinefili ricorderanno leggiadra ragazzina protagonista nel capolavoro di Sergio Leone "C'era una volta in America", in "Phenomena" di Dario Argento e nel grandissimo e allucinato film sui tossici di New York "Requiem for a Dream).
Il titolo è molto affascinante perchè porta in se il dramma che si consumerà nel corso della vicenda.
Il protagonista è questo "Svedese" essere perfetto come quelli delle sue latitudini (alto, prestante, biondo, intelligente, coraggioso) che per una serie di vicende si ritroverà proiettato in un inquietante ricerca della figlia, autrice di un terribile gesto.
Lo scrittore sfrutta un soggetto già visto in molte occasioni e cioè il marcio che si annida dietro la facciata perbenista dell'America puritana, che si rispecchia in quelle bellissime ville a schiera con i giardini tutti curati, i cagnolini, le grandi auto parcheggiate nei vialetti. Ma cosa si cela in quelle case? quali sono i veri sentimenti che albeggiano nei loro abitanti?
Lo Svedese è l'emblema di una perfezione imperfetta, del doppio inganno che si cela laddove ci sembra di scorgere una vita perfetta: il primo inganno è ai nostri occhi, non sappiamo veramente mai chi abbiamo di fronte e il secondo inganno si cela dietro la bellezza che tanto fascinosa ci sembra, ma che nasconde delle zone d'ombra imperscrutabili.
Lo Svedese si apparecchia minuziosamente la propria esistenza, sposando un aspirante Miss America (nel film interpretato appunto dalla mora Connelly dagli occhi verdi ci tira su una bella famigliola classica americana, con i mazzolini di fiore posizionati sulle finestrelle della camera da letto e con il revolver nascosto in cantina.
Il destino del biondo Svedese a un tratto prende strade del tutto inesplorate a causa della figlia che decide che è giunto il momento di far crollare tutto il castello di ipocrisie su cui si erge la sua esistenza e quella della famiglia.
Il pretesto è come sempre la Guerra del Vietnam (soggetto usato ed abusato come quello della Seconda Guerra Mondiale).
Purtroppo il libro intervalla dei momenti molto interessanti, come quando il protagonista va a cercare la figlia tra le fogne sociale della grande città a momenti di terribile noia con descrizioni minuziose e fuori luogo di personaggi ed eventi che poco hanno a che fare con il nocciolo del racconto.
E' come se lo scrittore non sappia più in certi casi che pesci prendere e quindi allunga il brodo con aneddoti e soggetti che appaiono all'improvviso e poi spariscono senza possibilità di ritorno.

Se volte avete un vero e grandioso manifesto della vita americana e della sua ipocrisia e violenza non perdetevi il meraviglioso film con il grande Kevin Spacey "American Beauty", che ha nella scena finale uno dei momenti più struggenti di tutta la pellicola:


"Potrei essere piuttosto incazzato per quello che mi è successo, ma è difficile restare arrabbiati quando c'è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida, piccola, vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l'avrete!"

Mi sembra di rivedere lo Svedese piegato su se stesso e sconfitto, che prima dell'inesorabile finale, riesce ad afferrare l'ultimo spicchio di gioia con cui dare un senso a una vita da sconfitto.

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anna rosa di giovanni Opinione inserita da anna rosa di giovanni    26 Luglio, 2021
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Giobbe americano

PASTORALE AMERICANA (1997)
di PHILIP ROTH (1933-2018)

GIOBBE AMERICANO

1. IL TITOLO.
Il titolo ha chiaramente una coloritura religiosa così come il titolo delle tre parti in cui il libro è diviso (ognuna suddivisa in tre capitoli): Paradiso ricordato, La caduta, Paradiso perduto. Non ho conoscenze sufficienti per addentrarmi in questo aspetto, al di là di quello che si desume chiaramente dalla trama: la caduta di un uomo angelico, tendenzialmente perfetto, in seguito all’implosione di quello che credeva essere il paradiso: la sua famiglia, il suo paese. Un altro elemento è legato al racconto biblico: tra le letture d’infanzia del protagonista c’è “Il ragazzo di Tomkinsville”, “Libro di Giobbe per ragazzi” (p. 11), che insegna come la virtù non sia necessariamente ricompensata con la felicità. Che è in estrema sintesi quel che il libro racconta.

2. TEMA.
Questo libro straripante di intelligenza e di sentimento si affaccia su due versanti: 1. da un lato quello della vita intima e familiare di un uomo, Seymour Levov detto “lo Svedese”, quarta generazione di ebrei trapiantati negli Stati Uniti, che tra la fine degli anni ‘40 e i ’50 faceva “sognare” tutta la comunità ebraica di Prince Street coi suoi successi sportivi e la sua bellezza assolutamente yankee (e non se la tirava!); 2. dall’altro lato quello politico dei cambiamenti sociali, politici e culturali negli USA dalla fine della Seconda guerra mondiale fino agli anni ‘90, e cioè dai mitici anni dell’infanzia del personaggio narratore, quelli dell’America gigante forte e buono, a una ventina di anni fa: ad oggi, si può dire. In questo arco di tempo il “sogno americano” si è disgregato. Nell’America (o nell’Occidente?) raccontata da Roth, l’amore per la propria famiglia e l’amore per il proprio lavoro, anzi, più precisamente, per il prodotto del proprio lavoro, vengono soppiantati da egoismo lassismo pirateria morale, portando al degrado tutta una società che si considerava (che il protagonista considerava) felice.

3. TRAMA E STRUTTURA.
Il romanzo comincia così: “Lo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark”: è lo scrittore Nathan Zuckerman, alter ego di Roth anche in altri romanzi - ho letto - che racconta la storia di Seymour Levov, l’idolo della sua infanzia e della sua giovinezza, tanto da pesare sulla formazione del suo sistema valoriale. La racconta dopo che nel 1995 apprende, in occasione della 45a riunione degli ex allievi della sua scuola, che il suo vecchio idolo Seymour Levov è morto di cancro pochi giorni prima. In realtà dopo averlo perso di vista per trentasei anni, nel 1985 Zuckermann aveva già incontrato Seymour casualmente e lo aveva rivisto poco dopo in un incontro sollecitato da Seymour stesso per parlargli - gli aveva scritto - di suo padre Lou, morto l’anno prima, perché scrivesse qualcosa su di lui. Ora, per tutto il loro incontro Seymour non aveva fatto che parlargli entusiasticamente dei suoi tre figli Kent, Steve e Chris, senza dirgli nulla di significativo: di autentico, e Zuckermann aveva trovato straordinariamente insulso quell’uomo che pure era stato un mito per lui e per tanti altri: “Mi sbagliavo. Non mi ero mai sbagliato di più sul conto di nessuno in vita mia” (p.41). Capisce infatti, in quella riunione di ex -allievi, che Seymour gli aveva taciuto proprio ciò che era stato un dramma per lui, uomo innamorato del proprio lavoro della propria famiglia dell’America: un primo matrimonio da cui gli era nata una figlia, Meredith, detta Merry cioè “lieta”, che nel ‘68 aveva ucciso una persona in un attentato terroristico, rinnegando proprio tutto ciò in cui tutta la sua famiglia credeva. Così, intanto che balla con una vecchia ex allieva con cui in gioventù ha amoreggiato, a Zuckermann accade una cosa:

“Sognai - dice - una cronaca realistica. Cominciai a studiare la sua vita (…) e inspiegabilmente, zacchete! lo trovai a Deal, New Jersey, nella casa al mare (...)” (p. 92).

Zuckermann comincia così a immaginare, con una ricchezza una finezza una profondità veramente geniali, tutte le situazioni e i possibili scenari della vita di Seymour, di sua moglie Dawn e di Merry, la quale crescendo era diventata uno dei tanti “ferali difensori degli oppressi della terra” (p. 416) e poi una seguace del giainismo, che in nome di una non violenza spinta agli estremi aspira alla morte.

Una scelta singolare di Roth è di raccontare, attraverso lo scrittore Zuckermann, non tutta la vita dello “Svedese”, ma quello che gli era accaduto (poteva essergli accaduto) fino a circa 15 anni prima della sua morte e della riunione degli ex allievi in cui Zuckermann apprende la sua morte. Immagina cioè la sua storia fino alle ore immediatamente successive al momento in cui Seymour ha ritrovato la figlia ex-terrorista e ora giaina in un sottopassaggio ferroviario dove vive senza neanche più lavarsi nè quasi mangiare e, sconvolto, torna a casa, dove sono riunite per cena alcuni amici di famiglia, compresa l’amatissima moglie Dawn, Miss New Jersey da giovane benchè figlia di un immigrato irlandese, che sorprende in un atteggiamento inequivocabile con un ospite. E che succede poco dopo, cioè nell’ultima pagina? Succede una scenata grandguignolesca degna di Grosz o di Canetti: la vecchia amica di famiglia Jessie, ubriaca, colpisce al viso con una forchetta il padre di Seymour che vuole convincerla a non bere più. Al che, Marcia Umanoff (quindi altra figlia di immigrati), “professoressa di lettere a New York, (…) una nonconformista militante estremamente sicura di sé, molto portata al sarcasmo e a dichiarazioni calcolatamente apocalittiche destinate a mettere a disagio i signori della terra” (p. 339), vedendo il vecchio Levov con la faccia insanguinata e incredulo di fronte alla follia della vecchia amica Jessie, “Cominciò a ridere (…) a ridere e ridere e ridere di tutti loro, colonne di una società che, con sua grande gioia, stava rapidamente colando a picco; a ridere e a mostrare il proprio godimento (…) per l’ampiezza che aveva preso il disordine galoppante, apprezzando enormemente l’attaccabilità, la fragilità, l’indebolimento di cose che avrebbero dovuto essere robuste. Sì, si era aperta una breccia nel loro fortilizio (…) e ora che era aperta non si sarebbe più chiusa. (…) Tutto è contro di loro, tutto ciò e tutti coloro che non apprezzano la loro vita (…) MA COS’HA LA LORO VITA CHE NON VA? COSA DIAVOLO C’È DI MENO RIPROVEVOLE DELLA VITA DEI LEVOV?”

Su ciò che è accaduto allo Svedese dopo questo momento drammatico, ossia nei quindici anni antecedenti la sua morte, noi apprendiamo nel cap. 3 della prima parte quel poco che ne dice a Zuckermann il fratello Jerry in occasione della riunione degli ex allievi: lo Svedese aveva avuto un’altra moglie e altri figli, quei tre di cui Seymour gli aveva raccontato quando si erano rivisti nell’85, e ha rivisto più volte sua figlia che intanto è morta o forse no (cenno a p. 85): nient’altro. Evidentemente questa seconda vita di Seymour era un’altra storia oppure semplicemente ci volevano altre 500 pagine per raccontarla e Roth non se la sentiva :)

4. COSA HA DISTRUTTO “IL SOGNO AMERICANO” E QUELLI CHE CI CREDEVANO ?
Nel mondo rappresentato e amato da Seymour Levov l’economia e il lavoro erano basati su un’industria manifatturiera in cui determinante era il saper fare, ben diverso dal semplice eseguire gesti meccanici, e leggendo il libro non si finirà di stupirsi di quanta conoscenza c’è in certa manualità: non per caso il prodotto che ha fatto la ricchezza e l’orgoglio dei Levov sono i guanti (non ricordo in che capitolo Lou Levov spiega al figlio come la struttura della mano abbia determinato lo sviluppo dell’intelligenza della specie umana). Certo Roth piange la scomparsa di quel modello economico in cui il padrone e l’operaio (parola che non compare mai nel libro, mi sembra) erano accomunati dall’amore per ciò che fabbricavano. In effetti, attraverso i suoi personaggi, Roth parla in termini molto critici degli imprenditori che hanno delocalizzato la produzione accontentandosi di una più scarsa qualità del lavoro e dei prodotti in nome di un maggior profitto, così come esprime la più netta disapprovazione per la guerra nel Vietnam, per la classe politica coinvolta nel Watergate, i simpatizzanti del Ku Klux Klan. Però anche e forse soprattutto Roth denuncia il progressivo svilimento della morale puritana dell’America dura ma aperta al merito di tanti emigrati di diverse religioni e culture, svilimento favorito dai partigiani del “politically correct”, in primis l’intelligentsia di sinistra, che per esempio ha “sdoganato” un film quale “Gola profonda” o dato un appoggio incondizionato alle idee di Angela Davis (mi sembra che ci sia qualche analogia tra le idee di Roth e quelle della Fallaci).

5. STILE.
Roth ha un talento veramente insuperabile nell’immaginare delle scene alla stregua di un regista, e certe pagine potrebbero essere pagine di una sceneggiatura. Però lui vuol render conto non solo e non tanto di quello che si dice e si fa, ma soprattutto di quei milioni di cose che si pensano intanto che si parla o si agisce altrimenti, cose appartenenti ai momenti più diversi della vita, e quindi ... come montare su una pellicola sia le parole che si dicono sia i contenuti così vari del vissuto interiore dei personaggi che sono … in scena? E poi Roth vuole raccontare nientedimeno che … una vita! E non basta. Vuole raccontare anche almeno l’essenziale delle vite che si intrecciano con quella vita: perché c’è sì il protagonista, Seymour “lo Svedese”, personaggio indimenticabile, ma poi ci sono suo padre, sua madre, il fratello, la moglie Dawn, la figlia Merry, quella che mette la bomba, ci sono i vecchi compagni di scuola ... Quindi il teatro no, ma neanche il cinema. La scrittura invece supera qualunque limitazione perché il lettore può rileggere, sospendere la lettura, riprendere ...

È chiaro che una scrittura che renda conto della continua invasione del campo visibile da parte delle parole che pronunciamo interiormente è una scrittura che richiede attenzione da parte del lettore. Se per esempio la narrazione di una cena o di un incontro fra ex-allievi si dipana lungo decine e decine di pagine, il lettore non apprende soltanto ciò che i personaggi fanno e dicono, ma anche ciò che il personaggio principale pensa (spesso su ciò che gli altri pensano). Per cui tra la battuta “Butto giù la pasta?” e “Scolò la pasta” - sto inventando -, abbiamo letto decine di pagine che con quella pasta non c’entrano niente o c’entrano molto indirettamente. Si dirà: come Proust! Sì, ma fino a un certo punto, soprattutto perché mai in Roth le frasi sono lunghe e complesse, anzi la sua lingua è estremamente “naturale”: i suoi personaggi parlano agli altri e a se stessi come chiunque di noi. Inoltre, almeno per me, le gioie e le sofferenze di Seymour, gli interrogativi che si pone, gli sforzi che fa per salvaguardare la felicità dei propri cari è troppo coinvolgente per non conquistare il cuore del lettore. Per cui, al bisogno, si rilegge volentieri :). Anzi, devo dire che intanto che scrivo queste righe, sentendo le voci di giovani padri e madri che parlano coi loro bambini piccoli che giocano e ridono, penso allo Svedese e a Dawn, e mi auguro che mai questi genitori e questi bambini vedano la distruzione del loro paradiso.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    07 Giugno, 2021
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Cosa chiedere di più da questo libro?

Non mi capaciterò mai del fatto che a Philip Roth non gli sia mai stato assegnato il premio Nobel. Mi consola il fatto che la sua opera è superiore a tutti i premi di questo mondo e li calpesterà continuando a sopravvivere nel tempo anche senza di loro. Secondo Thomas Bernhard i premi artistici e tutto quello che ci gira intorno sono un atto di "prostituzione artistica", quindi lasciamo i premi agli scrittori più deboli, probabilmente ne hanno più bisogno.

Tornando a noi "Pastorale americana" è un libro di rara bellezza e profondità, scritto in modo ineccepibile. Dal sapore della prosa classica ma nello stesso tempo arricchita di stili moderni come il flusso di coscienza, questo libro è un viaggio nella storia e nelle vite sia dei personaggi ma anche la propria in quanto ha valenza di generalità sulla condizione umana che non è mai mutata nel tempo. Nello specifico ho trovato toccante il discorso sull'impossibilità di conoscerci a vicenda, ancor più difficile di capirci e proteggerci l'un l'altro  quando spesso si fa fatica a conoscere e a proteggere se stessi. Pagine davvero intense scritte quasi con dolore e con l'urgenza di comunicare qualcosa di importante al lettore. Riserva invece uno sguardo nostalgico e disilluso sull'America, patria da lui molto amata e idealizzata ma che si dimostra una culla piena di violenza, depravazione e comportamenti estremisti per le nuove generazioni. Non solo la società ne subisce cambiamenti ma anche l'economia che a seguito della globalizzazione le industrie devono adeguarsi ai nuovi costi e spostare in altri paesi la produzione. Tuttavia, nel suo sogno americano lo Svedese trionfa, riesce ad avere la vita perfetta che ha sognato sin da piccolo, attraverso un secondo matrimonio e tre figli esemplari ma avrà sempre uno scheletro nell'armadio e un peso sulla propria anima.

Ho trovato la figura dello Svedese a tratti adombrata di alcuni comportamenti equivoci che tutt'ora non ho compreso come per esempio il bacio sulla bocca a Marry. Bellissime invece le pagine finali in cui si mescola il profondo flusso di coscienza dello Svedese, ormai distrutto e sul fondo del baratro, con le chiacchiere futili e false della moglie Dawn, la combinazione di ciò che lo Svedese crede che sta succedendo (l'arrivo della figlia a casa e la confessione dei crimini) e ciò che realmente succede (il padre Lou infilzato con la forchetta nella guancia da parte di una ospite ubriaca): il tutto concluso con la isterica risata di Marcia che fa da sipario su questa commedia umana. Un libro da leggere, rileggere e rileggere. Grandissimo scrittore che ho imparato ad apprezzare e ad affezionarmici.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    09 Dicembre, 2020
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Pastorale americana

Adesso che la 444 pagina è stata letta mi chiedo, a distanza di ventiquattro ore, come sia stato possibile che non avessi ancora letto questo libro, eppure è del 1997, avevo vent'anni in quell'anno; cosa stavo leggendo di così strabiliante da far andare in secondo piano Pastorale americana?

E gli anni successivi? Dov'era la mia curiosità, la mia intelligenza?
Non riuscivo a capire che quel titolo era fondamentale? Che in qualche modo mi avrebbe aiutata a meglio leggere quello che poi sarebbe capitato nella mia vita?

Forse sono davvero i libri a decidere quando è il momento di essere letti e noi crediamo invece di avere potere decisionale, solo loro che ad un certo punto capiscono di avere una possibilità di cambiarti la vita.

Così è successo a me, la settimana scorsa, Pastorale americana era in lista da più di due mesi, ma altri libri l'avevano barbaramente sorpassato e giunti alla mia coscienza prima; quello che lo ha fatto in modo più doloroso, preponente, devastante è stato La Storia della Morante, ma sarà forse materiale di un'altra riflessione.

L'edizione che mi ha scelta è quella che veniva allegata a Repubblica, la copertina è di un grigio anonimo, non invoglia, non emana quel bisogno di essere letta, non illude con promesse illusorie che in qualche modo verranno disattese: no non lo fa, infatti la sovracopertina è finita sotto la coperta dei gatti posata sul divano.

Così ho iniziato Pastorale Americana, mi ha avvolto in uno scialle di sogno, mi ha portato nell'America del secolo scorso, mi ha sventrato la coscienza ricostruendola più solida.

Subito dopo aver finito il libro ho deciso di noleggaire il film di Ewan Mc Gregor, ma non ha saputo neppure scalfire la grandezza del libro, incredibile come tutto intorno a me fosse tridimensionale mentre leggevo e sia diventato piatto mentre osservavo le scene del film, che avrebbero dovuto rappresentare lo Svedese, Jerry, Nathan, Merry, Dawn, Lou, Sylvia, Shila, ma che non era che pezzi di cartone che si muovevano su un binario.

Sono state scritte migliaia di parole sui personaggi, è stato spiegato il piano narrativo, quello sociale, quello economico, psicologico e anche forse finanziario; difficilmente potrò aggiungere qualcosa di più, che non si possa trovare su un qualunque sito di lettura.

Allora cosa mi trovo a cercare di tramettere con queste mie parole?
L'empatia che ogni personaggio ti obbliga a provare, quel vissuto maniacale di ognuno che continua e continua incessante come gli ingranaggi di una catena di montaggio, quel voler capire, incolpare, spiegare, aggiustare, ricostruire, ridipingere, ridisegnare... tutto fuorché ascoltare, accogliere, cullare il disagio, la sofferenza, la frustrazione di qualcosa che poteva essere e non sarà, che avrebbe dovuto essere e non sarà, di una felicità promessa, di un potere illimitato e aleatorio che non basta se non si evolve, che non basta non si plasma sul tempo, sullo spazio, sull'altro.

Un capolavoro paragonabile solo ai grandi classici del passato, in cui una storia si fa universale, in cui i personaggi divengono paradigmi, in cui quella che viene raccontata è l'umanità e non una storia.

Inutile dire che lo consiglio perché al pari dei gradi classici del passato non può lasciare indifferenti e Roth questo lo sa, sa di scrivere con inchiostro indelebile.

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LuigiF Opinione inserita da LuigiF    05 Dicembre, 2020
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Il lato oscuro del sogno Americano

Poco più di due anni fa, un mio collega americano, brillante "professional" giunto all'apice della sua carriera,  fu barbaramente ucciso dal figlio minore nella villa di famiglia poco distante da Boston, Massachusetts. Emerse in seguito che il ragazzo soffriva da anni di gravi disturbi psichici. Sottoposto a continue cure psichiatriche, il suo stato mentale si era deteriorato al punto da condurre il ragazzo ad aderire a non so quale setta satanica.  Nessuno, neppure tra i più stretti amici della vittima, era al corrente dell'esistenza di questo povero figlio problematico che deve certamente avere sconvolto l'esistenza di quella altrimenti perfetta famiglia americana.
Mi si perdonerà il riferimento personale, ma la lettura di questo meraviglioso libro di Philip Roth, mi ha riportato alla mente questa atroce storia che allora mi sconvolse. Ricordo che, appresa la notizia, all'inevitabile reazione di sgomento ed incredulità, subentrò presto un'amara riflessione sulla sconfinata solitudine che quel padre doveva aver sofferto in quei lunghi anni in cui il segreto inconfessabile restava celato dietro le spesse cortine di una esibita felicità giustificata da successo, benessere economico e prestigio professionale.

Il romanzo di Roth ha struttura e profondità che appartengono solo ai grandi classici. Due temi ne guidano lo sviluppo: da un lato la critica al modello americano e all'etica del successo, dall’altro, la spaventosa responsabilità insita nell’educazione dei figli. 

Il primo tema potrebbe apparire inflazionato, ma Roth lo tratta con tale equilibrio ed efficacia da non risultare mai banale. "Critica" non è forse la parola giusta. Lo scrittore riserva uno sguardo malinconico nel tratteggiare personaggi, lo Svedese ed il padre, che dedicano la loro vita alla realizzazione nel lavoro guidati da senso del dovere e da una incrollabile tensione verso l'emancipazione sociale. Attorno a loro una serie di personaggi si muovono come burattini dai comportamenti prevedibili. La lunga e memorabile cena che conduce all'epilogo finale, è una piece teatrale di straordinaria efficacia in cui pare sfaldarsi quel mondo borghese in cui lo Svedese aveva creduto ed investito le sue energie migliori. Ogni commensale rappresenta una faccia di quel modello sociale: il padre testardamente aggrappato a valori ormai superati, l'artista-architetto archetipo di una annoiata alta borghesia che tradisce la moglie alcolizzata ed emarginata, la frigida psicologa incapace di empatia alcuna, la moglie del giurista, cosi' sprezzantemente anticonformista da diventare il simbolo di un conformismo "altro", la moglie dello Svedese pateticamente rinata grazie alla relazione adulterina.

Ma è il secondo tema a rendere il romanzo indimenticabile. Merry, figlia dello Svedese, rompe gli schemi di quell'equilibrio ipocrita. Incapace di gestire la propria rabbia verso quella società conformista, Merry si avvicina a movimenti antagonisti (sono gli anni della contestazione contro la guerra del Vietnam) fino a diventare terrorista ed a macchiarsi di attentati sanguinari. La sua fuga tra gli Stati dell'Unione si conclude col ritorno alla città natale. Li' la ritrova il padre, ormai irriconoscibile e ridotta in miserabili condizioni fisiche e mentali dopo la conversione al giainismo estremo. L'originalità del romanzo sta nel raccontare la parabola di questa povera ragazza attraverso gli occhi di un padre che ne segue il disperato cammino verso l'autodistruzione senza poter far nulla per arrestarne il percorso. Gli interrogativi che si pone, qui in forma drammaticamente estremizzata, sono quelli di un padre nel constatare l'alterità del figlio e l'effettiva impotenza in quel ruolo di guida che si era prefigurato.

Il  "doppio" epilogo è, anch'esso memorabile. Ad un primo finale che pare configurarsi a tinte da tragedia greca, ne subentra un secondo grottesco che ci lascia smarriti a contemplare profonde miserie umane.
Pastorale Americana e' un grandioso affresco della società Americana moderna, delle sue contraddizioni, dei sui punti di forza e di debolezza, ma è anche e soprattutto un raffinato racconto psicologico che tocca profondamente aspetti intimi ed inesplorati dell'esistenza. A mio parere uno dei migliori romanzi del 900 americano.

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siti Opinione inserita da siti    15 Marzo, 2020
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Che paese, l'America

Un atto di coraggio, ecco, così potrei definire questo romanzo. Un atto coraggioso per una serie di ragioni, bastanti - le prime due che elencherò - ad argomentare l’asserzione: l’opera è una denuncia del falso mito americano, in primo luogo, ed è, in seconda battuta , una critica fatta da una parte debole del melting pot che compone il popolo America. La parte ebrea, una tra le tante molecole di un composto chimico non ancora ben amalgamato nonostante si sia, ai tempi di Roth - coincidenti con quelli della narrazione – alla seconda generazione, quelle di figli dei migranti che si sentono pienamente americani. È americano lo Svedese? È americano lo stesso Roth? Perché lo chiedo, perché ve lo chiedo? Partiamo dall’assoluto protagonista della narrazione, Seymour Levov, nomen omen verrebbe da dire, di facile tracciabilità: ebreo al cento per cento; e no, che fa il nostro Roth? gli appioppa una alterità, una diversità tale che già a livello visivo fa di lui un originale, un diverso, un unicum , ha i tratti somatici di uno svedese e tale è , per tutta l’opera, un caso eccezionale: un uomo retto, eccellente, infallibile, equilibrato, un puro, un giusto verrebbe da pensare. Lo Svedese. E no! Calma: si va in direzione opposta; è semplicemente il riflesso negli occhi altrui di un modello vincente e rampante che incarna appieno il mito americano, dell’uomo di successo, della società di successo, quella competitiva e infallibile anche quando sguazza nel fango nero della guerra inutile o , per tornare alla dimensione del singolo, quando vive un vero e proprio dramma familiare che, all’insegna della violenza, della mina vagante, della casualità, dell’idealismo, dell’ingenuità, della pazzia se vogliamo, frantuma un’identità, fragile e contraddittoria come quelle di tanti, di tutti. Arriviamo ora al narratore, un vero e proprio alter ego dell’autore, Nathan Zuckerman, nomen omen nuovamente, di chiara matrice ebraica, uno scrittore con alle spalle anche lui un mondo di migranti americanizzati. Ennesima identità celata, ennesimo tratto originale perché la sua narrazione sarà solo frutto di una mera supposizione, una possibile ricostruzione dei fatti che potrebbe avere vissuto lo Svedese a partire da un’unica certezza: era un giovane brillante, lo incontra a distanza di anni, gli vorrebbe consegnare brevi manu la sua vita; la consegna è solo rimandata e non avverrà perché il narratore apprenderà poco dopo del decesso dello Svedese dal fratello.
Originale cornice a incastonare una narrazione secca, asciutta, a tratti ripetitiva, martellante direi, quando tocca gli aspetti più ideologici, l’ etica. Una visione laica e dissacrante di un falso mito creato da cantori precedenti che lo hanno voluto generare con intento puramente autoreferenziale. Una voce scomoda e stridente che non necessita di autocompiacimento e che quindi non cerca plauso alcuno, neanche in termini di piacevolezza. Sì, non mi è piaciuto, fatico a dirlo, perché è davvero un grande romanzo, è innegabile. Sono forse nostalgica della prima generazione di migranti e delle loro difficoltà? Qui l’omologazione necessaria e il desiderio di conformismo dei loro figli annienta ogni beltà e fornisce un quadro ancor più triste e desolante di quanto non fosse quello, per esempio, del triste commesso malamudiano. Viva l ‘America? Anche no.

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Malmud
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Opinione inserita da Patrizia franchina    06 Luglio, 2019

Il mito americano...caduto

Con scrittura tagliente e occhio critico, l’autore descrive il mito americano appartenuto a intere generazioni di uomini che hanno creduto nella possibilità dall’affermazione individuale, del raggiungimento del benessere, del successo sociale e familiare attraverso il lavoro e l’impegno, nella convinzione di vivere nel Paese dell’accoglienza e delle opportunità per tutti; più nello specifico descrive la vita lunga tre generazioni di ebrei immigrati che hanno creduto in quel mito fino in fondo facendone motivo di soddisfazione e di orgoglio, felici di essere parte della grande America dei diritti, ricca e moralmente ineccepibile. Lo Svedese e la sua famiglia incarnano questo mito e conducono una vita senza scossoni, con tanto lavoro e tanta fiducia nel futuro. Lo svedese, un giovane uomo che incarna alla perfezione il mito del giovane di successo: è bello, bellissimo, di ottima famiglia, ricco, intraprendente, ammirato da tutti ( come ci aspetta da una giovane di buona famiglia ); giovanissimo si sposa con un bellissima donna( come da manuale) , rileva la ditta di famiglia e si dedica anima e corpo alla costruzione del suo futuro, prototipo della vita perfetta. Eppure qualche cosa alla fine si inceppa, il sogno si trasforma in un incubo a causa della figlia adolescente ribelle, inquieta e controcorrente, animata da spirito pacifista che si impegna contro la guerra del Vietnam e finisce in un tunnel senza uscita. Lo Svedese non si rassegna a perderla e ad assistere al fallimento del suo mito ma è costretto, attraverso una lunga e penosa indagine introspettiva, a rivedere il suo sogno e le sue certezze, a svelare un’America ricca di contraddizioni e ingiustizie: la guerra del Vietnam che divide il Paese, la contestazione giovanile, la rivolta delle comunità nera che chiede integrazione e diritti. In questo romanzo l’autore ci propone una acuta e spietata analisi sociologica dell’America evidenziandone I lati oscuri, fatti di perbenismo, ipocrisia…

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A chi ama la narrativa che invita alla riflessione sui grandi temi sociali, a chi conosce la letteratura americana.
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    26 Giugno, 2019
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IL FALLIMENTO DEL SOGNO AMERICANO

“Così vivono gli uomini di successo. Sono buoni cittadini. Sono fortunati. Sono riconoscenti. Dio sorride loro. Se ci sono dei problemi, si adattano. E poi tutto cambia e diventa impossibile. Più nulla e nessuno che sorrida loro. E allora chi riesce ad adattarsi? Ecco un uomo che non è stato programmato per avere sfortuna, e ancora meno per l’impossibile. Ma chi è pronto ad affrontare l’impossibile che sta per verificarsi? Chi è pronto ad affrontare la tragedia e l’incomprensibilità del dolore? Nessuno. La tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti.”

Seymour Levov, detto lo Svedese, è stato durante la Seconda Guerra Mondiale un idolo per la popolazione ebraica di Newark: bello, intelligente, benestante, perfettamente integrato – nonostante le sue origini giudaiche - nella società americana, e in più un autentico fuoriclasse nel baseball e nel football. Nathan Zuckerman, il narratore, lo incontra quasi cinquant’anni dopo i tempi della propria adolescenza, nel corso della quale aveva avuto, come molti suoi coetanei, un’adorante infatuazione per il mitico Svedese, e – a sorpresa – lo trova una persona che, dietro la sua maschera di bonaria affabilità, rivela una superficialità e una banalità che, sbrigativamente, attribuisce alle conseguenze di una vita di agi e di successo, facile, viziata e senza intoppi. Ma quando, poche settimane dopo, nel corso di una riunione di ex compagni del liceo, Nathan incontra il fratello di Seymour e viene a sapere da lui non solo che lo Svedese è nel frattempo morto di cancro, ma che la sua vita apparentemente serena ed equilibrata è stata in realtà distrutta da un’immane tragedia familiare, egli capisce quanto sia stato erroneo il suo giudizio, e quanto poco siamo in grado di comprendere le esistenze degli altri. “Pastorale americana” diventa così una sorta di risarcimento postumo, il commosso e meditato tentativo di ricostruire la vita dello Svedese andando al di là delle apparenze e dei luoghi comuni, scavando nei meandri di una mente che è sempre rimasta un segreto per tutti, una cassaforte di pensieri, di dubbi, di emozioni e di rimorsi di cui Nathan, naturale alter ego di Roth in virtù del comune mestiere di scrittore, cerca pazientemente di trovare la combinazione. E siccome lo Svedese, per il suo ottimismo, la sua intraprendenza, la sua razionalità, la sua tolleranza e il suo autocontrollo ben rappresenta le virtù dell’uomo americano medio, la sua storia ben si presta ad essere letta come una metafora dell’America la quale, nel periodo intercorso tra la Guerra Mondiale e il Vietnam, ha perso progressivamente la propria innocenza e la propria fiducia nel futuro, precipitando in un circolo vizioso di dubbi sul proprio ruolo e di sensi di colpa per i propri misfatti, per quanto perpetrati in buona fede. Come è possibile che dal buono, altruista e pacifico Seymour sia potuta venir fuori, nonostante l’incrollabile dedizione paterna, una astiosa e violenta terrorista come la figlia Merry? In questo incredibile salto generazionale sta tutta l’irrazionale brutalità di un crollo di valori e di ideali che trasforma in pochi anni la “pastorale americana” del titolo nel suo inquietante contrario. Il romanzo è così diviso tra la lacerante nostalgia di una perduta età dell’oro e il tormento di un presente in cui il rimpianto scava voragini di angoscia come un silenzioso ma inguaribile tumore maligno.
La bellezza del romanzo di Roth non risiede solo nella sua valenza metaforica. Anzi, il suo aspetto forse più originale è il ruolo che esso attribuisce all’arte, e alla letteratura in particolare, di riuscire là dove la vita fallisce: nella comprensione degli altri. Se la pretesa di capire il prossimo è (come il narratore intuisce dopo la deludente cena con lo Svedese) “una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci”, allora forse solo la penna di uno scrittore, con la sua fertile sensibilità da rabdomante delle emozioni, può penetrare nei reconditi angoli dell’interiorità di un individuo ed esprimere quel groviglio indecifrabile di pulsioni contraddittorie che è la sua anima. E quella di Roth, il quale sa cogliere benissimo quegli attimi capaci di generare una catena di reazioni incontrollabili, tali da cambiare per sempre un’esistenza, è una penna cui si può affidare con la massima fiducia l’ambiziosa missione di metterci in condizione di vedere gli altri con la stessa, e forse (questo è il miracolo dell’arte) ancora maggiore, nitidezza di quanto siamo in grado di vedere noi stessi.

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Philip Roth: "Ho sposato un comunista" e "La macchia umana"
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pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    25 Agosto, 2018
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Il diritto negato all'innocenza

La mia prima esperienza di lettura del Roth americano si è indirizzata a questo romanzo complesso, abbastanza faticoso ma piacevole da leggere. La struttura fitta e circolare dell’opera incentiva un secondo giro o almeno la rilettura di alcune parti, per rivedere i personaggi sotto una nuova luce e per riassaporare con maggiore consapevolezza i minuziosi dettagli e le numerose digressioni che inizialmente possono spazientire o rallentare il ritmo.

Introdotti dalla quarantacinquesima riunione degli ex allievi di un liceo (con l’inevitabile bilancio di vite finite, sprecate, realizzate ed elenchi di acciacchi, malattie, successi, fallimenti, vicissitudini, mogli, figli e nipoti) percorriamo cinquant’anni di storia americana, dagli anni quaranta agli anni novanta del ventesimo secolo in compagnia principalmente di Seymour Levov, un ebreo dai tratti somatici così poco corrispondenti alla sua origine da guadagnarsi il soprannome di “Svedese”.

Suo nonno “era arrivato a Newark dalla madrepatria dopo il 1890 e aveva trovato lavoro come scarnatore di pelli di montone…un ebreo solitario mescolato ai più rozzi immigrati slavi, irlandesi e italiani”. Il padre dello Svedese, Lou Levov, era “un padre per il quale ogni cosa è un incrollabile dovere, per il quale c’è la ragione e il torto e, in mezzo, nulla” ed era di quel tipo di uomini “limitati provvisti di un’energia illimitata…uomini per i quali la cosa più seria della vita è andare avanti malgrado tutto”.

Lui, lo Svedese, immigrato ebreo di terza generazione, in grado di eccellere in ogni disciplina sportiva, aveva “il talento di essere se stesso, la capacità di essere quella strana forza che t’inghiottiva e di avere, tuttavia, una voce e un sorriso non offuscato dal minimo barlume di superiorità: la naturale modestia di chi non conosceva ostacoli e sembrava non dover mai lottare per crearsi uno spazio tutto suo”.

Dopo i successi sportivi e una breve esperienza nei marines, Seymour sposa una Miss New Jersey, una cattolica irlandese la cui personalità non è inferiore alla sua bellezza, e dirige l’azienda di famiglia. Ci sono quindi tutti i presupposti per vivere un bellissimo “sogno americano”. Ma proprio qui si nasconde il dramma.

Il “sogno americano” è infatti un utile, tonificante e rinfrescante miraggio per chi vuole progredire, salire ancora di qualche piano sull’ascensore sociale, non fermarsi mai, combattere per farsi largo nella vita con la stessa durezza di cui furono capaci i padri e i nonni. Guai invece a fermarsi, a illudersi di essere arrivati, ad accontentarsi di una bella famiglia, un lavoro gratificante, una casa in pietra nella quiete bucolica della campagna. Dopo la cacciata dal paradiso terrestre, nessun uomo ha più diritto all’innocenza.

Levov lo Svedese, pur avendo tutte le caratteristiche di chi è predestinato al successo, di chi è kalòs kai agathòs, bello e moralmente retto, giusto, generoso, abile e valoroso, commette il peccato di ritenere di vivere nel migliore dei mondi possibili, come un novello Candide, o come Giovannino Semedimela, il personaggio di una favola che sparge i suoi semi nel bosco per far crescere gli alberi.

“Nessuno attraversa la vita senza restare segnato in qualche modo dal rimpianto, dal dolore, dalla confusione e dalla perdita. Anche a quelli che da piccoli hanno avuto tutto toccherà, prima o poi, la loro quota d’infelicità”. E infatti il destino colpisce lo Svedese nel momento in cui è più appagato dalla sua vita, mollemente adagiato sotto le fronde dei suoi possenti aceri, come il pastore Titiro delle bucoliche virgiliane.

Sono probabilmente la diagnosi di un cancro e soprattutto la morte del padre, spentosi serenamente a novantasei anni, a dare allo Svedese l’occasione per un bilancio e per un confronto tra esistenze e tempre completamente diverse. Prende contatti con uno scrittore affinché scriva della lunga e “bellissima vita” di Lou Levov. Ma è piuttosto di sé che vorrebbe parlare, non riuscendoci: “continuavo ad aspettare che dicesse qualcosa di più di queste ineccepibili banalità, ma tutte quelle che venivano a galla erano altre superficialità. Al posto dell’anima, pensavo, ha l’affabilità: quest’uomo la irradia da ogni poro. Per se stesso ha ideato un incognito, e l’incognito è diventato lui”.

Cosa gli è successo? Cosa ha inghiottito l’uomo, lasciandone unicamente la maschera? Cosa è andato storto nella sua vita?

Attorno ai Levov si muovono molti altri personaggi che nell’insieme forniscono un quadro interessante delle tensioni che attraversano la società americana, delle profonde differenze sociali, religiose, etniche e culturali e del disagio, del senso di inadeguatezza e del disperato bisogno di integrazione di chiunque non appartenga alla classe wasp, la classe di chi è lì da sempre.

La Festa del Ringraziamento, autentica pastorale americana, per sole ventiquattr’ore crea l’illusione di sopire le diffidenze reciproche e la voglia di rivalsa di ognuno.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    04 Novembre, 2017
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Un incubo americano

Una lettura che continuavo a rimandare, come se sentissi quanto sarebbe stato difficile portarla a termine.
Roth veste i panni del Tolstoj d'oltreoceano e in "Pastorale Americana" ci offre un affresco di quell'America del dopoguerra che prometteva tanto, che sembrava offrire soltanto successo e niente di peggio, ma che nei suoi angoli nascosti celava lati oscuri che avrebbero distrutto i cuori e le menti di chiunque.
Questa è letteratura vera e propria, con tutti i pro e i contro che ne derivano. Ciò che Roth descrive potremmo sentirlo lontano se consideriamo l'arco temporale che la storia raccontata comprende (almeno per chi è giovane come me) e per il luogo in cui si svolge, ma lo sentiamo nostro in quanto esseri umani, perché ciò che ci affligge va oltre le generazioni, il dolore ci insegue come se per lui il tempo non scorresse e ci raggiunge ugualmente; non importa quanto cambino gli scenari mondiali, il dolore si adatta. Le cause scatenanti potranno cambiare, ma lui è sempre lì, pronto ad assalirci.
Al centro della storia c'è proprio questo: una famiglia che si sforza di essere normale, composta da persone che avrebbero tutti i requisiti e anche più per essere felici, gettata nel baratro dal caos e da un'America che promette grandi cose ma non può garantirle a tutti; un'America che dietro a una facciata di onestà e gloria, cela mostruosità di cui la guerra in Vietnam era soltanto l'inizio.

Al centro di questa storia c'è Levov detto "Lo Svedese", leggenda del liceo di Weequahic ed eccellente giocatore di baseball, basket e football. Tutto, nella vita dello Svedese, sembrava essere proiettato verso il successo. Tutti avrebbero voluto essere Lo Svedese, o almeno essergli amico. In lui erano incanalate le speranze di una nazione, quando lo vedevi correre per un campo, prendere a spallate gli avversari o centrare perfettamente la palla con una mazza, potevi credere che tutto andasse bene, che quella Seconda guerra in realtà fosse solo un'invenzione e che l'unica cosa che contava era vedere quel prodigio umano sbriciolare record su record.
La vita dello Svedese era destinata ad essere indimenticabile, e l'America sarebbe stata il suo palcoscenico perfetto.
Ma lo Svedese non sceglie di calcare un qualsiasi tipo di campo sportivo, decide di prendere in mano l'azienda di guanti di suo padre e portarla avanti con successo. E' un uomo buono che va d'accordo con tutti, che riesce a superare alla grande alcuni dei periodi neri che la storia del suo paese gli pone davanti.
Poi sposa Miss New Jersey ed ha una meravigliosa figlia. Merry. Meravigliosa sì, ma fino all'adolescenza, fin quando l'America le sbatte in faccia quella che era la sua realtà di quel tempo. La guerra in Vietnam, i monaci che si danno fuoco per protesta, i bambini che muoiono di fame. Merry è una bimba nata nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Una bimba che intraprende una strada che potrebbe essere ammirevole ma decide di percorrerla nel modo sbagliato, portando distruzione nella propria vita, in quella dei suoi cari e in quella degli altri. Come può Meredith Levov, figlia del mitico Svedese, che vive in una specie di paradiso in cui nulla sembra poter andare storto, fare una fine simile?
Pastorale Americana è la cronaca di un sogno americano, quello di Seymour Levov Lo Svedese, che va in mille pezzi nel fragore di una bomba, una bomba tirata dalla sua stessa figlia.

"La vita di Levov lo Svedese, per quanto ne sapevo io, era stata molto semplice e molto comune, e perciò bellissima, perfettamente americana."

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GPC36 Opinione inserita da GPC36    21 Gennaio, 2017
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I sogni infranti

La bomba che esplode nella tranquilla località di Old Rimrock nel New Jersey uccide una persona e distrugge un piccolo edificio che richiama un quadro di Hopper: un bazar e ufficio postale con un pennone dove il titolare ogni mattina issa orgogliosamente la bandiera americana. Un attentato che non comporta solo la fine del sereno percorso di vita di Seymour Levov (lo “svedese”), ma che è anche un segnale della caduta del “sogno americano”, del modello di vita che era stato invidiato e desiderato nel mondo anche da chi diceva di detestarlo.
Il conflitto generazionale, degenerato in uno spietato antagonismo della figlia Meredith, responsabile dell’attentato, nei confronti del padre, trova l’innesco nella guerra nel Vietnam e nei contrasti sociali che iniziano ad incendiare gli Stati Uniti. Fino allora Seymour aveva vissuto un’esistenza invidiabile, gratificato dal successo economico come imprenditore, dalla prestanza fisica che ne aveva fatto un brillante atleta del liceo, dal matrimonio con la bellissima Dawn Dwyer, miss New Jersey 1949, che ha sposato superando le resistenze del padre per le differenze di religione (lui ebreo, lei cattolica). Persona di assoluta rettitudine, ai limiti del conformismo, con un totale senso del dovere, aveva potuto vivere un’esistenza perfetta, tanto da non doversi mai chiedere “perché le cose sono così come sono?”, ignorando persino che ci si potesse porre tale domanda, si è trovato impreparato ad affrontare l’improvviso cambiamento della figlia, attirata dai movimenti di contestazione e dalla loro degenerazione nel terrorismo, provocando la crisi in una famiglia che appariva un modello del benessere americano.
Un dramma familiare cui fa da sfondo l’infrangersi di altri sogni: entra in crisi il sogno di uno sviluppo economico che sembrava senza limiti, poiché il peso dei conflitti sociali e razziali determina la delocalizzazione di imprese che lasciano macerie e zone di degrado, facendo decadere la fiorente economia della città di Newark; il tragico conflitto nel Vietnam incrina l’immagine degli Stati Uniti come modello di stato democratico e liberale, critico nei confronti della politica coloniale e imperialista di alcuni stati europei.
Si riprenderà dal frantumarsi del suo modello familiare lo “svedese”, con la caparbietà e la forza con cui usciva dalle mischie nel football, correndo verso la meta, ma il segno della ferita resterà indelebile, anche se non avrà il coraggio di parlarne quando incontrerà lo scrittore Nathan Zuckerman (alter ego di Philip Roth), per il quale aveva rappresentato un idolo sportivo quando era ragazzino e che ora dovrà costatarne l’assoluta normalità. Così come si riprenderà l’economia di Newark e il ruolo mondiale degli Stati Uniti, ma l’american way of live non sarà più il modello sfolgorante a cui si guardò dal dopoguerra agli anni sessanta.
Il Seymour descritto da Zuckerman sulla base di articoli di giornale, non è una biografia essendo in gran parte frutto della sua immaginazione; se tra flash back e capitoli di avvio il romanzo si svolge dal dopoguerra al 1995, la parte focale è ristretta in cinque anni, a partire dal 1968.
È un romanzo complesso “Pastorale americana” che pone al centro il lacerante, drammatico rapporto fra Seymour Levov e la figlia Meredith, con un approfondimento del suo dramma interiore, che unisce all'analisi psicologica anche interessanti spaccati di sociologia urbana e immagini di una società benestante che non sapeva cogliere ed interpretare le tensioni sociali in atto. Tuttavia non posso dire che lo stile di Philip Roth mi abbia entusiasmato. Da una parte il romanzo appare troncato nelle pagine conclusive, che racchiudono il dramma dell’episodio finale in poche righe, sommergendolo in una descrizione dettagliata della flora del New Jersey o nella banalità delle disquisizioni del vecchio Lou Levov. Dall'altra la straripante capacità narrativa di Roth riempie pagine di minuziose descrizioni (spiccano quelle sulle modalità di produzione dei guanti, attività di famiglia dei Levov) che se omesse o ridotte non avrebbero tolto alcun valore al romanzo e ne avrebbero alleggerito la leggibilità.
Per semplice assonanza mi trovo a confrontare il suo stile con quello dell’altro Roth, Joseph, essenziale ma incisivo, e a rinnovare tutta la simpatia ed il piacere di lettura provato per quest’ultimo.

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mauriziocasamassima Opinione inserita da mauriziocasamassima    08 Gennaio, 2017
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Pastorale sgretolata

La pastorale idilliaca di un'America progressista e democratica svanisce nel contesto di una famiglia normale, una famiglia come tante, in cui però irrompe la storia con la deflagrazione di una bomba. Non vale lo splendore del protagonista Seymour Levov, la sua prestanza fisica, i suoi valori, la sua integrità....quando la storia irrompe nella vita gli schemi saltano, l'amore talvolta si sgretola e resta solo la domanda di fondo: perchè? E' una domanda a cui non è possibile dare una risposta nell'immediato, questa è la caratteristica della Storia, solo coloro che verranno dopo ne comprenderanno il senso. Lo svedese Seymour Levov morirà di crepacuore, le sue domande non riceveranno risposta, ma i posteri comprenderanno che la grandezza di una democrazia, lo spessore di una civiltà che è divenuto faro e punto di riferimento per il mondo passa attraverso il dolore, attraverso le scelte sbagliate o giuste che siano di chi questa storia, lentamente, progressivamente, inersorabilmente la costruisce. La guerra in Vietnam ha avuto un costo altissimo per gli Stati Uniti, per le famiglie, spezzando la normalità cui erano abituate. Ma la forza di quella democrazia sta nel coraggio di interrogarsi, nel tentativo mai abbandonato di comprendere limiti ed errori di ogni singola scelta. Seymour lo fa, ma non riuscirà a cambiare la storia. Quella storia però cambierà noi, che abbiamo ottenuto le risposte a quelle domande, che ne viviamo oggi la pesante ma consistente eredità.

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the boy who read Opinione inserita da the boy who read    06 Novembre, 2016
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pianificazione del caos

Oggi vado a recensire il libro che ha reso Roth uno dei maggiori autori contemporanei, infatti grazie a pastorale americana Roth vinse il pulitzer.
Non è facile parlare di pastorale americana perchè il libro è un intreccio di domande poste,di risposte date e non date, di salti nel passato e di salti nel futuro e tutto ciò attraversa la mente e l'anima di un unico uomo ovvero Seymour Levov. La trama si districa tra l'infanzia di Seymour fino ad arrivare in un'età in cui diviene consapevole del destino dell'uomo,del mondo e della storia. Uno penserebbe che questi pensieri colpiscano un uomo in età adolescenziale ma no, Seymour è diverso lui è lo "Svedese" (soprannome affibbiatogli nella gioventù) e questi pensieri lo colpiranno ben più in là ovvero verso la cinquantina. Qui sta il punto del libro, perchè così tardi(domanda a cui, per non cadere in spoiler risponderò solo in parte)? Per quale motivo?(dicasi lo stesso per questa di domanda; queste mie domande vogliono solo essere di incipit a voi futuri lettori per farvi capire a cosa si deve cercare di guardare in un libro di non semplice comprensione) E l'ambiente che lo circonda com'è che cambia?
Iniziamo con ordine, nelle prime pagine ci viene descritto lo svedese nell'ambiente di un quartiere ebraico di Newark dove ci viene mostrato tramite gli occhi del narratore delle primissime pagine del libro ovvero il ormai consueto Nathan Zuckerman. Tramite lui scopriamo di tutto sullo svedese, dalla sue abilità nel baseball( a dire il vero in qualsiasi sport) fino ad arrivare a ciò che legge e non meno importante ci viene mostrata la sua famiglia e l'ambiente in cui cresce.
Tutto agli occhi di Zuckerman sembra idilliaco nella vita dello svedese finchè 50 anni dopo scoprirà della sua morte e scoprirà di come questa celebrità ha vissuto una vita illusoriamente idilliaca e di come un uomo consapevole di avere tutto nella vita scopre che in verità non ha nulla.
Tutto ciò si svolge in una città,anzi un paese, in continuo mutamento. All'inizio ci troviamo in una città senza alcunchè di speciale ma alla fine ci troviamo nel degrado totale e tutto questo va di pari passo con il degrado, con la distruzione che lo svedese affronta nella propria vita. Di spoiler non ne faccio quindi analizzerò i temi che Roth va ad affrontare che sono i più disparati, dalla guerra del vietnam fino all'inconsapevolezza dell'uomo.
Dalla penna di Roth abbiamo una fugace visione della realtà, fugace perchè ogni volta che lo scrittore ci propone un tipo di realtà essa sguscia via, rendendo la realtà ed il mondo che la circonda mutevole, proprio come il destino del suo personaggio e più in generale dell'uomo stesso. Roth non ci dà nemmeno le coordinate per capire quali siano i perchè i motivi di tali cambiamenti, tutto sembra avvenire per volontà del dio del caos. Forse è proprio questo l'elemento che caratterizza il racconto di Roth, il caos sotto ogni forma;che si esplicita a noi in tutti i nostri momenti della giornata, in tutti i nostri momenti della vita, nonostante noi pianifichiamo e ri- pianifichiamo tutto(come lo svedese fà addirittura fin dalla primissima adolescenza) il caos è lì per farci uno sgambetto, per farci cadere nel baratro più profondo, per renderci incapaci di comprendere la realtà che si palesa attorno a noi insomma per preparare anche il più impreparato degli uomini a quella grottesca realtà che viene definita vita.
Tutto ciò Roth lo fa tramite una penna che forse da il suo meglio in questo romanzo, usando uno stile, sia nelle riflessioni sia nel raccontare gli eventi, pesante ma al contempo godibile. In fondo certi temi non possono essere trattati in modo leggero e difatti ci vuole anche un vero maestro per rendere tali temi di facile comprensione anche ai lettori meno accaniti..... Complimenti Roth

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libri che riflettono sulla futilità della vita o del suo significato tra cui citerei Stoner
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    15 Giugno, 2016
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Roth e il sogno americano infranto.



Cosa dire di questo romanzONE? Non è un libro facile...dentro c'è tanto, tantissimo, c'è tutto.
Fiumi di parole che mi hanno inghiottito nel loro flusso...che mi hanno ubriacato, incantato, mi hanno fatto pensare, innervosire, riflettere e comprendere...
Spesso mi hanno fatto perdere, per poi farmi ritrovare più smarrita di prima...perché questo libro ti pone tante domande, ma non ti dà nessuna risposta.
Un libro molto "americano" nella cornice storica, ma decisamente universale nei contenuti.
Parliamo del declino, della distruzione di un uomo (di un uomo icona del "bene", del "successo", della "rettitudine") per mano del suo stesso sangue, della deflagrazione di una bomba che segna l'inizio della fine.
Un po' come quelle malattie autoimmuni che generano il male dall'interno...così lo Svedese, dall'interno della sua vita perfetta, genera "il Mostro", il male che distruggerà tutto quello in cui lui ha sempre creduto e che ha amato.
Perché? Di chi è la colpa? Cosa si sarebbe potuto fare per evitarlo? Quando "qualcosa" si è rotto?
Roth non ha scritto solo un romanzo, ma un trattato socio - psicologico tanto complesso quanto avvincente e lo ha fatto attraverso una narrazione paricolare...discontinua, ricca di ricordi, evocazioni, disgressioni e dialoghi interiori scritti in modo magistrale...come solo "un grande" sa fare!!!
Di fronte a pagine e pagine di cotanto spessore io mi sento davvero piccola...e senza parole.

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Cristina72 Opinione inserita da Cristina72    11 Mag, 2016
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Sognare sogni impotenti

Romanzo strutturalmente complesso, che inizia in prima persona per cedere gradualmente la scena a Seymour Levov, meglio conosciuto come lo Svedese (“il più grande atleta nella storia del liceo di Weequahic”), incarnazione del sogno americano e mito dei ricordi giovanili dell'io narrante.
Le lunghe digressioni, che fanno luce sul periodo storico e sul background socio-culturale in cui si muovono i protagonisti, se da un lato appesantiscono un po' la narrazione dall'altro trasmettono tutta l'ispirazione dello scrittore per la storia che narra, nonché la sua capacità di districarsi mirabilmente negli intrecci narrativi.
Chiusa l'ultima pagina, viene spontaneo tornare alle prime e a un Seymour Levov imprenditore di successo e uomo tutto d'un pezzo, in apparenza soddisfatto da un'esistenza che scorre su binari impostati nel segno di uno splendido, rassicurante conformismo.
Rileggere quelle pagine quando si è conosciuta la profonda drammaticità del personaggio senza maschera fa tutt'altro effetto, e sta soprattutto qui l'originalità e la grandezza del romanzo.
Convinti, a torto o a ragione, della buona fede dello Svedese, si finisce per empatizzare con lui al punto da chiedersi dove sta l'inghippo, cos'è che non ha funzionato in una vita dove tutto sembrava dover filare per il verso giusto.
E invece no, perché ogni circostanza esteriore, oltre ad essere un opinabile punto di vista, è anche soggetta agli imprevisti del caso: “Aveva imparato la lezione peggiore che la vita possa insegnare: che non c'è un senso”.
Da antologia l'ultima parte, una cena fra parenti, amici e amanti dove sregolatezza e integrità, realtà e finzione sembrano battersi come pugili su un ring: prima l'abbraccio, poi l'affondo finale.
“Levov lo Svedese, sfuggito ai colpi dell'ariete che è questo mondo per galleggiare a mezz'aria e sognare, sognare, sognare sogni impotenti”.

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f.martinuz Opinione inserita da f.martinuz    28 Dicembre, 2015
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From the dawn to the disaster

Pastorale americana. Il titolo con cui Roth ha conseguito il Pulitzer nel 1997 e che racchiude in sé tutto e niente. La pastorale americana è il momento in cui, soprattutto nel Giorno del Ringraziamento, rancori, ideologie, insofferenze, piccoli dissidi, incongruenze vengono accantonate e taciute. Essa è “una moratoria sui cibi stravaganti e sulle curiose abitudini e sulle esclusività religiose”; con essa tutto tace come fosse una sottospecie di Natale laicizzato all’estremo. La pastorale americane è l’apice della convivialità, l’acme della fratellanza famigliare e quindi dell’amore parentale. In qualche modo è la vetta ideale della storia di Roth ma anche della contraddittoria Storia americana e, come è noto, dalla vetta si può solo cadere e rotolare a valle. Ed è questo il percorso che vede protagonista Seymour “lo Svedese” Levov.

La storia dello Svedese è narrata all’interno di una cornice narrativa che ha in Nathan Zuckerman, l’alter ego letterario di Roth, il suo fulcro. È Zuckerman infatti che, attraverso la sua seppur scarsa conoscenza personale dello Svedese, i ritagli di giornale relativi a lui ed alla sua famiglia, i due miseri incontri, peraltro praticamente insignificanti, con l’eroe universitario e le informazioni fornitegli da Jimmy, il fratello di Seymour, si cimenta nella stesura di un’anomala biografia dello stesso che si concretizza nella gran parte del romanzo e che, in modo anomalo, è composta da molteplici punti di vista. Sebbene le fila della narrazione siano tirate da un narratore in terza persona, esterno agli eventi, innumerevoli sono gli interventi dei personaggi, di Seymour Levov soprattutto i quali ci aiutano a farci strada nel disastro che, lentamente e inesorabilmente, si abbatte sulla sua vita. Roth ci presenta uno stile biografico tanto inconsueto da far dimenticare al lettore, a lungo andare, che tecnicamente dietro tutta la storia ci sarebbe il vecchio Zuckerman.

La storia di Roth è, come sempre nella sua prosa, l’intreccio inestricabile delle vicende umane, in qualche modo piccole, con la Storia vera e propria. Se ne “Il complotto contro l’America” gli eventi si muovono sullo sfondo della distopia che vede l’ascesa al potere dell’aviere filonazista Charles Lindbergh e se ne “La nostra gang” le vicende assumono i contorni di una critica politica esplicita in forma satirica, in questo romanzo la scenografia è rappresentata soprattutto dalle reazioni interne contro la politica militare americana nei confronti del Vietnam. È proprio questa vicenda che porta, per mezzo della strillante e folle figlia Merry, la guerra in casa. Per il ragionevole, razionale e tollerante Svedese, di famiglia ebrea ma non praticante, la bomba omicida messa dalla figlia all’interno dello spaccio del paese è l’inizio del declino. Da lì inizia la disgregazione lacerante della sua famiglia e quindi della sua vita. Merry fugge e si dà alla macchia mentre un’insolente ragazza lo umilia e lo tiene sotto scacco accusandolo senza ritegno di essere un cane capitalista in quanto proprietario di una fabbrica di guanti. La moglie, Dawn Dwyer, ex miss New Jersey cade in depressione e ricorre, come palliativo al suo dolore, alla chirurgia estetica. La vita dello Svedese viene sradicata e in un turbinio di pensieri, rimpianti, rabbie e contraddizioni si giunge ad uno splendido disastro.

La storia non corre su un unico binario ordinato e Roth gioca con il lettore trasportandolo, attraverso flashback, ricordi, reminiscenze, riflessioni, avanti e indietro nel tempo. Come se volesse punzecchiare la nostra rassicurante convinzione per cui la vita è qualcosa di ordinato, cronologicamente definito e da cui non si può scappare. Ma così non è perché nella nostra testa, con la facoltà del pensiero di cui l’uomo è dotato, noi possiamo muoverci tra passato, presente e futuro senza barriere e vincoli; tra ricordi gioiosi e rimembranze dolorose; tra il nostro io più profondo e la nostra superficialità. A conti fatti questo è lo Svedese che si dondola nella sua personalità tenace, controllata e fragile allo stesso tempo. Un uomo come tanti, un orgoglioso americano come tanti e un uomo come noi, come chiunque altro.

Da grande romanziere dell’America Roth lascia scorrere, forse leggermente sotto traccia ma comunque in evidenza, le sue considerazioni, i suoi apprezzamenti e le sue critiche al modello ed alla società americani. Esimendosi dall’affrontare questa sua prerogativa letteraria non sarebbe stato Philip Roth. L’autore traccia una panoramica ad ampio spettro dell’americanità, dei suoi pregi, dei suoi difetti e delle sue insanabili contraddizioni. Emerge la contestazione contro un sistema capitalistico spinto allo stremo che mangia forza lavoro e denaro senza guardare in faccia nessuno ma allo stesso modo la dote americana di affermarsi da solo, del self-made man che costruisce da zero viene esaltata dall’epopea famigliare dei Levov e non è un caso che Lou Levov, padre di Seymour, porti su un piedistallo Franklin Delano Roosevelt, colui che contribuì a sviluppare l’assioma a stelle e strisce dell’american dream. Il romanzo è ben più complesso rispetto a quanto ho scritto e ricco di miriadi di sfumature che una recensione non potrà mai esaurire; invito chiunque ami questo autore a cimentarsi con questo pezzo inarrivabile di bravura letteraria in cui lo stile di Roth non si discosta di molto dall’abilità del nostro Dante di misurare e adattare il linguaggio al contesto ed al passaggio letterario contingente.

“Perché non dovrei stare dove mi piace? Perché non dovrei stare con chi mi piace? Non è tutto qui, questo paese? Io voglio stare dove mi piace e non voglio stare dove non mi piace. Non è questo che significa essere americani?”

FM

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Dartagnan Opinione inserita da Dartagnan    12 Settembre, 2015
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La guerra dentro di noi

Uno dei più grandi romanzi sull'America.
Uno stile ampio, completo, che ci porta in una storia dove le bombe non sono solo esplosioni pirotecniche, ma uno stato dell'anima. Roth sembra dirci che la guerra è dentro di noi: a casa, per strada, con gli altri, perfino nella camera da letto.
Una vicenda di una famiglia come tante, dove il protagonista, lo Svedese, rappresenta l'America degli anni '60 - '90. Un uomo mite, attento a piacere a tutti, impostato, apparentemente perfetto, ma con gli stessi difetti dei cosiddetti "altri", solo mascherati.
Insomma, va letto, nonostante a tratti sia un po' noioso a causa delle eccessive descrizioni.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    09 Agosto, 2015
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"Bomba o non bomba, noi..."?

SPOILER
(Anche su "Ritratto di Signora" di H. James e su "L'Età dell'Innocenza" di E. Wharton).

In genere ce n’è uno per classe.
Di Svedese, intendo.
Quel compagno che riesce benissimo in tutte le materie, ma non si appassiona a nessuna. Che prende il massimo di fisica, come di latino, di chimica come di inglese, di filosofia come di matematica; ed eccelle pure in ginnastica, disegno e musica… ah, e fa anche dei temi tanto bellini.
E non è il solito “secchione” smunto, brufoloso, con il colorito verdino e un po’ stronzetto.
In genere è belloccio, generoso, pronto a dare una mano a tutti e a fare da “mediatore” con eventuali docenti furiosi.

Il protagonista di Pastorale Americana di Roth è proprio come GianMaria De Carolis della 3°B.
Poco importa che si chiami Seymour Levov, detto “Svedese”.
Uomo di mille talenti e di nessuna passione.
Vive, si impegna e riesce benissimo in quello che fa. Senza provarne piacere o soddisfazione alcuna. Fa quello che va fatto e che ci si aspetta da lui.
Sempre.
Si “comporta bene”, come avrebbe detto mia nonna.

Ho letto questo libro poco dopo “Stoner” e forse proprio per questo il contrasto fra i due protagonisti mi è parso tanto forte.
Un uomo con mille qualità e nessuna passione.
Un altro con poche qualità e una passione.

Fino circa alla metà del libro, ho pensato che Roth stesse facendo una critica storico/sociale a certa America attraverso il suo “campione” Seymour Levov. Ossia che il perfetto americano, modellato a tavolino con il DAS fosse, in realtà, insipido, vacuo, noioso e tendenzialmente insopportabile.
Pensavo che lo Svedese fosse percepito così da tutti e addirittura, “così” nelle intenzioni del suo autore.
Scambiando qualche impressione con altri lettori, ho capito che no. Non era così.
Ho scoperto, invece, che lo Svedese è un personaggio in genere amato, positivo, in cui il lettore tende ad identificarsi (il fatto che io lo abbia detestato, come personaggio, e non sia mai riuscita ad empatizzare con lui è il motivo del "3" in "piacevolezza").
Ciò mi ha portato a riflettere su altre figure letterarie.
E ad esempio a pensare che Seymour Levov sia il diretto discendente di Newland Archer, protagonista di “L’età dell’Innocenza” di Wharton e anche di Isabelle Archer, protagonista di “Ritratto di Signora” di Henry James.
Due personaggi i cui autori tendono a “dirci” spesso le qualità: oh sì, la cara Isabel è tanto intelligente, acuta e smaniosa di libertà, cultura, indipendenza, dice Henry James.
In realtà, dalle azioni di Isabel, emerge un’ochetta a cui aver ereditato qualche soldino dà alla testa, con un talento particolare per scansare potenziali mariti ben intenzionati e cadere nelle braccia del primo personaggio con un qualche neurone in capo, che ovviamente la sfrutta e la rende infelice (e che la mocciosa fosse figlia dell’ “amica del cuore” lo avevamo capito tutti. Dalla terza riga. Tutti. Tranne l’intelligentissima Isabel).
Invece Newland Archer è davvero pieno di qualità: Wharton lo descrive belloccio, intelligente, appassionato (a cosa?), ma soprattutto, oh sì, innamorato.
Innamorato, ma tanto, della povera Olenska. Tanto amore. Ma tanto tanto, da far impallidire, al confronto, la debole infatuazione per la piccola, scialba, convenzionale May.
Solo che, al momento di fare qualcosa, di prendere una decisione… la piccola May tira fuori un minimo di piglio e il buon Newland e tutto il suo amore si sciolgono come neve al sole.
(Tutta la mia simpatia alla povera May che ha pure lottato per accaparrarsi un simile catafalco, e che la buona Olenska vada ad accendere un cero per grazia ricevuta)

L’opposto del mio amatissimo William Stoner. Lui sì che la passione la conosce.
Una (la letteratura) che poi gliene fa scoprire un’altra (l’insegnamento).
Passioni “vere” che mettono in secondo piano tutto il resto, che fanno fare al nostro scelte difficili, impopolari, dolorose quasi senza che il lettore se ne accorga.
Non spiegoni, non grandi dichiarazioni di intenti.
Fatti. Discreti e minuti.

Comunque, dal dinamico duo Archer&Archer (con buona pace dei coniugi Levov) salta fuori lo Svedese.
L’orgoglio di una famiglia, di una comunità, di una nazione.
Campione sportivo, soldato, figlio perfetto. Partito dalla gavetta più dura (la famiglia ha una fabbrica di guanti da donna), diventa un “imprenditore” illuminato. Si innamora di Miss New Jersey (che è cattolica, mentre i Levov sono ebrei), supera qualche contrasto con il padre (anche se, in realtà, è Miss New Jersey a superarli, scopriremo dopo), la sposa, vanno a vivere nelle casa dei sogni e mettono al mondo una bambina, Meredith, detta Merry. Naturalmente lo Svedese è folgorato dalla beltade, vivacità, intelligenza della sua creatura.
Tale abbacinante perfezione, però, ha una pecca.
La piccola balbetta.
E nonostante il padre perfetto della famiglia perfetta, per la figlia (quasi) perfetta metta in campo le umane e le divine, il problema non si risolve.
Come sempre accade, con l’adolescenza, i problemi crescono in modo esponenziale.
E lo Svedese non sa come comportarsi.
Quello che ci si aspetta da lui è che sia un “buon padre”, ma le indicazioni non sono precise. Se è stato relativamente facile essere un buon figlio/studente/soldato/imprenditore/marito la casella “padre” non vede una votazione molto alta. Lui si impegna, va detto. Ci prova in ogni modo.
Prova a non essere come il fratello Jerry, collerico ed impulsivo, prova a non essere come suo padre, autoritario e rigido, prova a fare il padre/amico. Con risultati disastrosi.
Nei “dialoghi su New York” in cui si riportano i pacati, razionali e misurati discorsi dello Svedese a Merry quello che alla fine stupisce è che la ragazza non gli abbia dato fuoco.
È così noioso, banale e politically correct da irritare non solo un’adolescente arrabbiata, ma anche chi lo sia stato anche solo per un quarto d’ora nella vita, adolescente ed arrabbiato.
Priva di guida Merry involve nell’estremismo più violento e caotico e la situazione si trascina fino alla drammatica svolta.
Merry mette un bomba all’ufficio postale di Newark, causando la morte di un innocente per poi darsi alla macchia.
Per la famiglia Levov è per lo Svedese è un colpo mortale.
La famiglia, nel momento in cui si sente veramente americana dopo tre generazioni di dura gavetta, si vede ri-precipitata (o così si percepisce) nel novero dei “non graditi”.
E lo Svedese si vede servire il suo primo-unico-e-completo fallimento nell’unica cosa in cui aveva investito davvero sentimenti ed energie.
In cui non si era limitato a fare “quello che ci si aspettava da lui” ma aveva davvero cercato di mettersi in gioco.
E da qui in poi la scrittura di Roth, che in genere è sublime, diventa geniale. Perché attraverso la narrazione di episodi della vita dello Svedese – senza continuità cronologica – impariamo davvero a conoscerlo come personaggio. Capiamo che il suo principale problema è non comprendere la natura degli altri e, alla fine neppure la propria. In questa lunga narrazione abbiamo momenti di epifania – in cui in effetti lo Svedese sembra comprendere davvero – come quello in cui capisce che i ragazzi che vanno a mettere le bombe sono quelli normali, non gli altri, e momenti in cui, penosamente, ritorna sui sentieri già percorsi.
Il punto più drammatico è il momentaneo ritrovamento della figlia.
Merry vive miseramente in un sottopassaggio, a Newark, dopo aver abbracciato una qualche filosofia non violenta, che – fra l’altro – le impedisce di lavarsi per non fare male all’acqua, la costringe ad andare in giro con un collant intorno alla bocca per non fare del male agli organismi dell’aria e simili amenità. Apprendiamo che ha ucciso altre tre persone (credo prima della svolta non-violenta) e che nelle sue peregrinazioni è stata stuprata un paio di volte.
In questa situazione drammatica, orribile, tremenda in cui si trova, con una figlia traumatizzata, denutrita, francamente – secondo me – ad un passo dalla demenza… lo Svedese di mette a ragionare con Merry, sul perché stia seguendo questa filosofia di vita, su perché tale filosofia sia nata e prosperi solo in India etc etc.
Lei argomenta assurdamente, come sempre, e dice che non tornerà mai.
Affranto lo Svedese si allontana e preso dalla disperazione chiama l’unico fratello che ha, il sanguigno Jerry.
Questo dialogo, secondo me è il punto centrale di tutto il romanzo.
Jerry, nel suo modo brutale e spiccio, esorta Seymour all’azione e si offre di aiutarlo. Di fronte al “blocco” delle Svedese (che non può “costringere” Merry a tornare a casa, perché lei non vuole) Jerry dice quelle che sembrano le prime parole di buon senso sulla questione:
«Al diavolo quello che vuole lei. Rimonta su quella cazzo di macchina, va’ là e tirala fuori per i capelli da quella stanza del cazzo. Dalle dei sedativi. Legala. Ma portala via. Ascoltami. Tu sei paralizzato. Non sono io quello che crede che avere una famiglia unita sia la cosa più importante di questo mondo… Sei tu. Rimonta su quella macchina e valla a prendere.»
Ma lo Svedese è paralizzato davvero.
E l’irascibile Jerry trova il modo superare il complesso di “essere il fratello minore” – sfigato – di Seymour Levov, fornendo un ritratto impietoso e sostanzialmente veritiero di tale (supposta) perfezione.
Lo Svedese ama le persone (moglie e figlia) come oggetti, perché diversamente dovrebbe ammettere di poter perdere il controllo. Cerca sempre di minimizzare, accontentare, fare quello che gli altri si aspettano da lui. Politically correct. Non sceglie mai. Sono sempre gli altri a farlo per lui e a lasciare correre.
E lo Svedese ci prova ad abbozzare una difesa.
Che c’è di male a fare quello che è giusto? Ad essere un uomo per bene? Un buon cittadino americano?
E sempre Jerry risponde.
«Credi di sapere cos’è un uomo? Tu non hai idea di cos’è un uomo. Credi di sapere cos’è una figlia? Tu non hai idea di cos’è una figlia. Credi di sapere cos’è questo paese? Tu non hai idea di che cos’è questo paese. Hai un’immagine falsa di ogni cosa.
Sai cos’è un guanto, cazzo. Ecco l’unica cosa che sai. (…) Una famiglia tiranneggiata dai guanti, bastonata dai guanti, l’unica cosa che conti nella vita, guanti da donna.»
E il povero Seymour, distrutto dall’aver ottenuto una tale dichiarazione di odio, nel momento in cui aveva più bisogno di aiuto, ritorna mestamente a casa. Da solo. E non condivide neppure con la moglie e i genitori quanto ha appreso su Merry, per non ferirli.
Ma dopo il “discorso” di Jerry, le “epifanie” si moltiplicano. Dawn (la moglie) non ha mai amato la loro “casa dei sogni” e non vede l’ora di andarsene, dopo un lifting che l’ha – di fatto – riconciliata con l’universo mondo, alla faccia del dolore per la figlia bombarola.
Di più. Dawn ha un amante. L’architetto che sta progettando la nuova casa e che è un vero americano WASP.
E lo Svedese ci prova ad avere una reazione di rabbia, ma poi si rende conto che tutto l’amore per la moglie, il motivo per cui si era innamorato di sua moglie era che lei era bella. Non altro. Era Miss Newjersey e lui era lo Svedese. Era quello che doveva essere.
Era quello che ci si aspettava da lui.
E sotto l’apparenza perfetta ci sono le ipocrisie, le meschinità, i non detti.
Perché in questa America così variegata, stratificata, in bilico, l’unico momento di concordia razziale, religiosa e politica è il giorno del Ringraziamento.
L’unica – falsa – “Pastorale Americana”.
Falsa.
Come lo Svedese.

Da leggere.
Assolutamente.

(PS il titolo è una citazione dell'omonima canzone di Venditti).

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Ritratto di Signora - H. James
La Bestia nella Jungla - H. James
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Mauro67 Opinione inserita da Mauro67    13 Luglio, 2015
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le maschere della vita...

Di questo autore ho letto solo questo suo lavoro, ispirato dal fatto che si è aggiudicato il Pulitzer nel 1997.
L'argomento di questo romanzo è la vita di un ragazzo, ebreo, che grazie alle sue eccezionali doti fisiche e ad un carattere mite ed altruista diviene una specie di icona per l'intera cittadina in cui nasce, studia e lavora.
Intorno a lui tutta una serie di personaggi, dalla moglie alla figlia, fino ai genitori ed agli amici che servono per creare la tipica famiglia americana.
E questa potrebbe essere la prima chiave di lettura di un romanzo che dovrebbe essere letto più volte per capirne la profondità.
Quindi una prima lettura è quella della descrizione e della condanna in maniera dissacrante della vita americana con il suo sogno di libertà, di benessere fondato su una forte concezione capitalista di società dove spicca chi ha e chi sa fare. Tutto espode con il Vietnam che porta la guerra nelle famiglie americane provocando lo scontro sociale tra i pro e i contro, ma anche tra padre e figlio. La perfetta famiglia dello Svedese, e quindi la perfetta famiglia americana, va in pezzi quando la figlia Merry decide di diventare una terrorista per protesta contro la guerra fino alle estremo gesto dell'omicidio.
Ma per me c'è anche un'altro piano di lettura che scende ai livelli dei singoli personaggi tutti visti con gli occhi dello Svedese, compreso lo stesso Svedese.
Cito Pirandello " imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti""
Ecco, lo Svedese, alla fine del libro, durante il giorno che meglio rappresenta lo stile di vita dell'americano medio, e cioè quello del Ringraziamento scopre la propria e l'altrui maschera. Si chiede chi sia lui e se abbia mai capito chi sono gli altri, se la figlia sia diventata una bombarola per poi finire relitta in uno scantinato per colpa sua. Si chiede chi sia sua moglie che scopre proprio adesso traditrice con un uomo che lui vede brutto e banale e si chiede perchè allora? e dell'amica Sheila che dopo essere stata il medico della figlia diviene la sua amante ( e qui profonda riflessione anche sulle doti morali dello Svedese) ma che gli nasconde di aver aiutato la figlia a fuggire e probabilmente a divenire quello che è e che non nasconde l'odio per Dawn e la sua corona di reginetta di un concorso di bellezza.E poi l'alcolizzata di turno che in una famiglia americana che si rispetti non manca mai, il fratello invidioso e geloso che proprio quel giorno, alla sua richiesta di aiuto, non si farà sfuggire l'occasione per riversargli contro tutto il rancore possibile. E il padre legato in maniera viscerale alle sue origini ebree e alle sue convinzioni patriarcali sulla famiglia e sulla società e che scrive lettere di protesta ai politici convinto che le leggano. Ed infine la figlia, Merry, balbuziente, irrequieta, rancorosa e ribelle tanto da diventare una grassa terrorista che con le sue bombe semina morte fino a convertirsi ad una religione che gli impedisce di far del male a qualsiasi essere vivente tanto da non mangiare più e a ridursi ad un relitto maleodorante che vive in uno squallido scantinato dove diviene oggetto di abusi sessuali.
Il libro termina con la frase " ma cos'ha la loro vita che non va? c'è da rispondere tutto, ma forse niente... siamo tutti delle maschere in fondo.

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bluenote76 Opinione inserita da bluenote76    28 Febbraio, 2015
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Sogno americano

ED ALLA FINE
AMERICA NON SIGNIFICO' PIU': OCCASIONE, SPERANZA, GIOVENTU' America, America, America.
Per quanto si possa essere più o meno perplessi nei confronti dei nostri dirimpettai
d'oltreoceano, sarebbe per lo meno superficiale PRESCINDERE da essi. Volenti
o nolenti, spesso siamo costretti a farci i conti e, se la tattica migliore
è quella di conoscere i nostri antagonisti, allora Pastorale Americana è
una asso nella manica poiché sprigiona America alla quint'essenza. Quattrocento
pagine che attraverso la parabola del protagonista raccontano la storia, le
promesse, i sogni e le contraddizioni dell'ultimo secolo di questo paese ingenuo
ma anche estremamente rabbioso. Infatti un uomo come Seymour Levov, biondo e
atletico ragazzone ebreo detto lo Svedese, non si era mai posto domande sul
perché delle cose ma, ad un certo punto, anche lui sarà costretto a fare i conti
con la realtà: e lo farà quando la sua amatissima figlia, in lotta contro la
guerra americana in Viet Nam ma anche contro tutto e contro tutti, si perderà
defintivamente. Sarà allora che Levov lo Svedese si risveglierà da quel sogno
americano a cui aveva creduto ciecamente. Pensa infatti lo Svedese: "Tre
generazioni. Tutte avevano fatto dei passi avanti. Quella che aveva lavorato.
Quella che aveva risparmiato. Quella che aveva sfondato. Tre generazioni innamorate
dell'America. Tre generazioni che volevano integrarsi con la gente che vi avevano
trovato. E ora, con la quarta, tutto era finito in niente. La completa vandalizzazione
del loro mondo". Pastorale americana è come un canto -tutt'altro
che bucolico- suddiviso in tre gironi: il Paradiso Ricordato, la Caduta, e il
Paradiso Perduto ed è una storia che ha molto a che fare con le radici, la memoria
e, talvolta, l'intollerabilità della memoria. Si tratta di un romanzo non semplicissimo,
che richiede una certa dose di attenzione al lettore ma che, in cambio, restituisce
anche molto in termini di consapevolezza e riflessioni che, a volte, si tramutano
in vere e proprie rivelazioni. Come quelle che muteranno per sempre l'atteggiamento
ingenuo dello Svedese quando, in maniera improvvisa, smarrirà la propria innata
innocenza. "Aveva imparato la lezione peggiore che la vita possa insegnare:
che non c'è un senso. E quando capita una cosa simile, la felicità non è più
spontanea. E' artificiale e, anche allora, comprata al prezzo di un ostinato
estraniamento da se stessi e dalla propria storia." D'altra parte lui non
era preparato a tutto questo: "Come avrebbe potuto sapere, con tutta la
sua bontà, che il prezzo per una vita obbediente era tanto alto? Ci si rassegna
all'obbedienza per abbassare il prezzo ... L'aveva realizzata per davvero la
sua versione del paradiso.... E poi tutto cambia e diventa impossibile. Ma chi
è pronto ad affrontare l'impossibile?" Non lo Svedese, e nemmeno chiunque
altro perché "non bastiamo. Nessuno di noi basta" di fronte al trionfo
della rabbia, del caos e dell'irrazionalità dell'adolescente America.

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Giovannino Opinione inserita da Giovannino    25 Novembre, 2014
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Addio sogni di gloria.

Ho sempre pensato che alcuni libri siano dei capolavori a prescindere da chi li legge, siano oggettivamente dei capolavori. Questo non significa che debbano piacere per forza, perché poi ognuno ha i suoi gusti, ma l'opera di per sè, vuoi per i contenuti, vuoi per lo stile, vuoi per la prosa o per quello che racconta, non possono essere ridotti ad un semplice "niente di speciale".
Ma questa forse è solo una mia particolare considerazione, però è da qui che voglio partire: "Pastorale Americana" è un capolavoro. Oggettivamente un capolavoro. È il primo romanzo di Roth che leggo e se li ha scritti tutti così (o simile) capisco perché ha vinto un Pulitzer e ha avuto l'onore di aver visto pubblicato tutta la sua opera omnia dalla Library of America (solo altri due scrittori hanno avuto questo onore in vita). La storia che ci racconta Roth inizia nel secondo dopoguerra a Old Rimrock, New Jersey. Qui, Lou Levov, guantaio ebreo conservatore e super moralista, inizia a creare quello che poi diventerà un impero e che verrà lasciato in eredità al figlio Seymour, per tutti "Lo Svedese". Lo Svedese incarna il sogno americano, non solo è ricco e bello ma eccelle in ogni sport (ne pratica ad ottimi livelli addirittura tre), è praticamente l'uomo che ogni ragazzo invida (il primo è il narratore, Nat Zuckerman, alter ego dell'autore) e che ogni ragazza vorrebbe sposare. E, come in ogni favola che si rispetti, si sposa con una miss, Miss New Jersey, Dawn Dawyer, ragazza bellissima ed intelligente. È un quadro perfetto, a questa famiglia non manca nulla, belli, ricchi e famosi. E invece... Arriva l'imprevisto, se così possiamo chiamarlo, visto che non si tratta di un evento fine a se stesso, ma di una nascita, la figlia Merry. Merry, fin da piccola, dimostra di essere una bambina curiosa e intelligente e dotata di una sua personalità. È balbuziente, ma lo psicologo dice che lo fa apposta, non vuole essere perfetta come la madre. Merry cresce si appassiona a mille cose "le consuma in un anno e poi si appassiona ad altro", finché, poco prima di diventare maggiorenne, fa una cosa che cambierà per sempre la famiglia Levov. Infatti Merry, che nel frattempo era diventata una militante per i movimenti contro la guerra del Vietnam, decide di fare un attentato allo spaccio del paese e un uomo rimane ucciso. Poi Merry scappa, è latitante, ma la sua vita e quella dei Levov sono distrutte per sempre.

Ed è qui che inizia il cuore del romanzo, quando lo Svedese decide di cercare la figlia e nello stesso tempo decide di capire dove c'è stato (se c'è stato) l'errore. Perché Merry si è comportata così? Perché Merry è cresciuta così? Perché Merry è nata così? Loro erano una famiglia perfetta, dove stava l'errore? C'era? Forse no, ed è questo il punto del romanzo, forse in alcune situazioni non c'è una causa scatenante, alcune situazioni non si controllano e basta, vanno così perché devono andare così.

"Capire bene la gente non è vivere, vivere è capirla male e male e poi male, e dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di avere ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite...beh, siete fortunati!"

È un romanzo sull'american dream e sulle sue contraddizioni, un raccontarci l'America come ha fatto anche de Lillo con "Underworld" (anche se là mancava l'elemento famiglia) o se volete come ha fatto in precedenza Faulkner con "L'urlo e il furore", là c'è l'elemento famiglia, ci sono le tragedie e le contraddizioni interne, e la protagonista Caddy, con la sua devozione e il suo amore per la famiglia, assomiglia molto allo Svedese. Però, aldilà dell'America, è un romanzo che riguarda un pò tutte le famiglie che cercando la perfezione perdono loro stesse. Lo stile è elevato, vengono spesso usati termini ebraici (spiegati a piè di pagina), e i periodi sono lunghi, i dialoghi invece sono spesso brevi. Prolisso? Si, forse, ma anche io sono stato prolisso in questa recensione e penso che se uno abbia da dire qualcosa rischia sempre di essere prolisso, se lo leggete (come voi state facendo ora con me) è perché magari quello che ha da dire vi interessa o vi intriga, e credo che in questo romanzo Roth abbia molto da dire. Un peccato mortale non averlo in libreria.

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Opinione inserita da mirko gamberini    31 Agosto, 2013

Verbosi sfaceli.

Appena finito di leggerlo. E il primo commento a caldo che viene da fare è che un libro eccessivamente lungo, troppo prolisso e a tratti troppo superfluo e descrittivo. Il tema trattato forse quando uscì il libro era più originale di quanto lo sia oggi, soprattutto dopo che il cinema recentemente ci ha descritto così bene e in varie forme, lo sfascio della società a stelle e strisce, e la "distruzione" di certe famiglie americane tutto splendore e lustrini, ma in realtà disastrate. Anche per quanto riguarda il "metodo" di analisi, preferisco altri autori meno verbosi ma forse più sottili e acuminati (tipo Cheever o Yates). Detto questo Roth riesce comunque a regalare spunti di riflessione non male: la ragionevolezza con cui il protagonista affronta ogni circostanza della vita, anche quelle in cui questa è totalmente fuori luogo; il suo costruirsi una figura che per quanto per bene e progressista, non è scevra da critiche ed errori; il confronto col duro e provocatorio fratello, esattamente il suo opposto caratterialmente. E ancora: sulla profonda e ineluttabile solitudine della condizione umana; sulla logica perversa e inspiegabile che seguono non solo gli eventi, ma anche gli esseri umani stessi. In conclusione, un libro che inizialmente e poi solo a tratti, si legge con un buono slancio, e che avrebbe potuto essere altrettanto esaustivo, anche con la metà delle pagine scritte.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    23 Agosto, 2013
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Pastorale americana di Philip Roth

Definirlo un capolavoro sarebbe semplicistico. “Pastorale americana” è un romanzo complesso che si addentra in un’analisi spietata di quello che potrebbe definirsi il fallimento del grande sogno americano.
Levov, lo svedese, è il protagonista di questa drammatica storia, raccontata dallo scrittore Zuckerman che ripercorre la vita del prestante atleta che eccelleva tanto nel football quanto nel basket, divenuto imprenditore di successo dopo essere subentrato al padre nella conduzione dell’impresa familiare e sposato con una donna bellissima ex Miss New Jersey. Lo svedese è il simbolo dell’americano integrato, ebreo, diventato ricco grazie a un impegno costante e assiduo: diverso dal fratello Jerry, che non condivide i suoi stessi ideali. La tragedia dello svedese ha come perno centrale il dissidio con la figlia Merry, adolescente balbuziente che accentua i suoi problemi psicologici nel confronto con la perfezione dei genitori. Il dramma d’una famiglia in seno alla quale la contestazione ideologica e politica si fa aspra e violenta, diventa metafora della duplice anima di una nazione: da una parte un mondo chiuso nell’ingannevole certezza della bontà dei valori perseguiti e realizzati, dall’altra un mondo insoddisfatto costituito dalle classi più emarginate, a volte anche disonestamente e facilmente manipolate. La famiglia, dunque, il nucleo su cui si basa la società civile, mostra le sue debolezze e le sue fragilità. Ed è la politica americana sotto accusa, nelle parole di Merry: l’assurdità della guerra del Vietnam e l’ambiguità della presidenza Johnson. E sarà lo stesso vecchio Levov a sottolineare la vergogna dello scandalo Watergate e a fare accenno al razzismo mai superato. Né si può ignorare la difficile convivenza tra individui di religioni diverse: Levov e Dawn, lui ebreo, lei cattolica, hanno trovato un certo equilibrio che viene però spesso messo in discussione dai genitori.
La drammatica scelta di Merry, la cui verità coincide con il dolore, mette i genitori di fronte a una realtà inaccettabile. La sua ribellione non è diversa da quella denunciata nel monologo di Ulisse nel Troilo e Cressida di Shakespeare, in cui si pone l’accento sulla ribellione dei figli all’ordine costituito e alla gerarchia, una sorta di “rivoluzione copernicana” familiare.
Il significato del titolo si rivela dunque in tutta la sua sottile ironia. La tradizione della pastorale risale a Teocrito e passa per Virgilio, per giungere a Spenser e indica quel genere letterario che esalta una vita bucolica e perfetta in armonia con la natura: la stessa vita che Levov e Dawn avevano creduto di realizzare nella loro casa di campagna. La perfezione, un sogno irraggiungibile. Essa è esaltata nelle pagine che si dilungano sulla confezione dei guanti, pagine che nella loro specificità ci riportano alle lunghe descrizioni di Melville in Moby Dick sui diversi prodotti che si possono estrarre dalla cattura del capodoglio.
L’unico momento in cui sembra potersi felicemente realizzare l’ideale della pastorale americana è quello del giorno del Ringraziamento, quando anche le controversie religiose sembrano trovare una tregua: è il momento della rievocazione dell’arrivo dei Pilgrim Fathers, la vera nascita del popolo americano.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    19 Agosto, 2013
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Nessuno è perfetto

Seymour Levov è un ragazzo perfetto: bello, biondo e atletico, educato e affidabile. Il figlio che tutte le mamme americane vorrebbero avere. E’ l’idolo giovanile di Nathan Zuckerman, e quando molti anni dopo Nathan, diventato ormai un affermato scrittore, riceve una lettera da Levov “Lo Svedese” che gli chiede un incontro per parlargli di suo padre, Lou Levov, accetta con entusiasmo, immaginando che “Lo Svedese” voglia rendere onore alla memoria del suo vecchio attraverso i suoi scritti.
Ma niente di tutto questo gli viene alfine richiesto e, dopo esser venuto a conoscenza della morte di Seymour e di altri terribili segreti di famiglia dal fratello Jerry, durante la quarantacinquesima riunione dei compagni di liceo, Nathan Zuckerman, alter ego di Philip Roth (Newark, 1933), decide di scrivere un libro che lo vedrà protagonista.
Pastorale Americana (premio Pulitzer 1998) è un libro che non ti lascia nessuna illusione sul limitato potere dell’uomo di influenzare il proprio destino. Seymour ha tutte le doti necessarie per essere un vincente nella vita, anzi ha anche un piccolo handicap rispetto alla classe media WASP: la sua origine ebrea è uno stimolo in più per emergere ed essere ammesso nel gotha della piccola borghesia della sua città. Lo svedese è un uomo che non si è risparmiato, impegnandosi nelle discipline sportive in cui eccelle, abbandonando poi l’agonismo per diventare il perfetto uomo d’affari, imprenditore nella produzione di guanti, nella carriera che il padre Lou ha già tracciato per lui. I guanti sono il feticcio attorno a cui si è sviluppata tutta la loro vita e non ho trovato affatto fuori luogo le lunghe pagine dedicate alla descrizione di guanti e pellami, perché è una metafora dell’assoluta ricerca di perfezione a cui i Levov, escluso Jerry, tendono, curando ogni più piccolo particolare per la riuscita finale.
Lo Svedese è marito innamorato e fedele della bellissima moglie e padre felice e tollerante, tutto sembra davvero perfetto nonostante un piccolo difetto della figlia Merry, la balbuzie, e un sottile sospetto di desiderio d’incesto che Roth è abilissimo a insinuare nel racconto.
Eppure tutto ciò non basta a impedire che la figlia diventi una spietata terrorista. Dopo l’attentato che la vede protagonista e la successiva fuga, tutto cambierà, fino alla cena finale, dove Seymour scoprirà le falsità e i tradimenti della moglie e degli amici, e sarà dolorosamente consapevole anche dei suoi errori.
Non gli basterà cambiare moglie e avere altri figli “perfetti” per dimenticare la sua vecchia vita. L’inadeguatezza agli standard da “pastorale americana” di cui sua figlia è stata la prima portatrice lo avrà già minato così profondamente da fargli desiderare la morte.
Scritto magistralmente, con lunghi e complicati periodi di cui riesce tuttavia a tirare sempre le fila, è un libro duro da digerire per l’analisi spietata dei comportamenti dei vari personaggi in cui chiunque può facilmente identificarsi, fortemente inquadrato nel periodo che vide gli USA partecipare alla guerra in Vietnam, ma la dinamica genitori adeguati-figli degeneri è uno spunto di riflessione applicabile a tutti i periodi storici, con relative riflessioni sule interazioni inprevedibili che dna, ambiente, carenze affettive e sessualità hanno su uno sviluppo armonico della personalità e l’inserimento sociale.

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Cambè Opinione inserita da Cambè    13 Agosto, 2013
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Cenere alla cenere

Parto con i complimenti a Todaoda. Un'analisi superba del romanzo di Roth a cui con calma e in altra occasione risponderò punto per punto. Qui mi limiterò a dire che Pastorale Americana è stato il secondo romanzo di Roth che ho letto e mi sono accostata a questo romanzo un po' scettica per chi me l'aveva consigliato (meglio dimenticarlo... non mi riferisco al romanzo). Sulle prime la storia dello svedese giovane promettente del basket collegiale mi ha lasciato piuttosto basita e fredda, ma con lo scorrere delle pagine è emersa la potenza del romanzo, della lingua di Roth, di personaggi che non stanno fermi sulla pagina e raccontano la "fine di un sogno" sia esso familiare, americano, personale... Non ho trovato noioso il procedere del romanzo, anzi, l'ho trovato maturo e complesso, a tratti fortemente psicanalitico come in altri romanzi di Roth, i personaggi delineati a tutto tondo e spesso le ambientazioni mi hanno ricordato certi luoghi dei romanzi di De Lillo (visualizzo ancora i mattoni della fabbrica e altre cose come la cassetta delle lettere dell'ufficio postale). Ho trovato geniale la descrizione della famiglia dello Svedese. Franzen sfiora appena questo livello nelle sue Correzioni. Spesso mi pareva di sentire la voce del narratore Zuckerman che ha vissuto all'ombra dell'immagine impressa nella sua memoria, l'immagine effimera e "falsa" di un'uomo che sta via via sgretolando ogni sicurezza nella sua esistenza e in tempo reale. La scena al ristorante è un capolavoro. Merry un personaggio sublime. Non lo so, così su due piedi vorrei dire di più, ma ho paura di non riuscirci. Pastorale Americana è un romanzo che è rimasto con me, mio malgrado e solo pochi romanzi hanno avuto questa forza. Lo immagino come il fuoco sulla copertina che brucia lento. Ti accorgi della fiamma e forse non riesci a trovare le parole ma di certo bruci insieme a quella carta. E'inutile cercare le cause dell'incendio, stai bruciando, è questo che conta e sarai cenere perchè questo è ciò a cui siamo destinati.

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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    12 Agosto, 2013
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Genio e Finzione

PREMESSA:
Mi rendo conto (e per questo mi scuso) che la seguente recensione per dimensioni e ripetitività è demenzialmente lunga, ingombrante e non necessaria, tuttavia, criticando (anche aspramente) il lavoro di colui che considero tra i più grandi scrittori viventi, non mi è stato assolutamente possibile accorciarla in alcuna maniera poichè ovunque tentassi di operare un taglio, la cosequenzialità e la correttezza (o presunta tale) di quanto affermavo parevano perdere di logica o coerenza. Certo avrei potuto limitarmi a dire: sì è bello perchè... o no è brutto perchè, ma posto quanto sopra nove pagine di confuse, complesse, cervellotiche analisi e scuse mi sembrano quanto meno il minimo indispensabile per poter anche solo pensare di mettere in dubbio quella che è considerata una delle più importanti opere contemporanee. Per quei pochi quindi (e credono che questa volta saranno molto pochi) che siano interessati a questa recensione ne consiglio una lettura suddivisa in più giorni. Dato il suddetto consiglio, non mi riterrò responsabile per ogni danno cerebrale derivante da una lettura consecutiva. Al contrario prometto che mi impegnerò a leggere, con estrema attenzione e piacere ogni commento e critica (insulti e minacce compresi) che si dovesse e volesse muovere alle mie osservazioni o alla mia persona. :-)

PASTORALE AMERICANA:
La fine del sogno americano, i conflitti esterni ed interni alla nazione tra gli anni cinquanta e gli anni settanta che sconvolgono la società, che ridimensionano, trasformano, i valori del periodo d’oro, e la conseguente crisi d’identità della middle class, del singolo individuo, del privilegiato che vede sotto i proprio occhi disfarsi tutti gli ideali in cui credeva, la crisi dell’uomo medio, piccolo borghese, che a cavallo tra due epoche non sa in che piede tenere le scarpe, che a modo suo cerca di fare quello che in fin dei conti han sempre fatto i suoi simili: barcamenarsi tra i due estremi guardando più a se stesso, al proprio interesse, che alle rivoluzioni sociali. Ma la trasformazione è troppo profonda per tentare di soprassedere, per far finta che non esista, per chiudersi gli occhi, tapparsi le orecchie e continuare per la propria strada. E neppure la fuga in campagna, lontano dalla città, dal luogo dove è più viva la spinta rivoluzionaria, è sufficiente per sfuggirle, per sfuggire a quella realtà assurda, inspiegabile, estremista, eppure così equa, concreta, plausibile tanto quanto la precedente.
Gli americani sono i buoni, i vietnamiti sono i cattivi, e se fosse il contrario? Il capitalismo e bene, il comunismo è male, e se fosse il contrario? All’uomo della middle class non interessa, non è estremista, non è socialmente impegnato fino al punto da rendere proprie delle regole di vita che non sono altro che un insieme di valori utopici e astratti; all’uomo medio basta lavorare, avere i soldi, qualche aspirazione, una casa nuova, una nuova auto, la figlia che va nel miglior college possibile ecc. ecc. Questo basta, e allora cos’è quella trasformazione, quel movimento a cui non riesce opporsi, quell’ imponderabile bisogno di ribellione che dilaga per le strade, prima delle grandi città, New York, Washinghton e poi nelle cittadine e nei paesi, Newark, Weequahic, Old Rimrock.? Che cos’è quella, anzi questa, questa insaziabile sete di giustizia universale che pervade dapprima solo i movimenti giovanili, ma che poi si insedia in ogni classe (poiché l’America rappresentata dall’autore è una società fortemente suddivisa in classi, a seconda che si appartenga o meno a un credo politico, a seconda che si appartenga o meno a un credo religioso, a una categoria lavorativa, o semplicemente a seconda del conto in banca) dunque che cos’è questo movimento che si insidia nel tessuto sociale dell’America del dopo guerra e in questo si incarna fino a diventare esso stesso un tessuto sociale, fino a diventare un estremo di un ideologia, fino a diventare l’altro lato della medaglia? E se è così giusto ed equilibrato, (no alla guerra in Vietnam, no a tutte le guerre, parità di diritti per tutti gli uomini!) perché se è così perfetto, vero, ancora più sacro di quanto possa essere la religione, perché sfocia in gesti di pura violenza? Perché prima esecra gli estremismi ideologici (opposti ma simili) degli altri movimenti e poi per combatterli si macchia proprio di quelle colpe contro cui si ribellava? E perché viene appoggiato da così tanta gente? È forse impazzita l’America? Non può essere solo una moda passeggera, solo il bisogno di cambiare, di fare un passo avanti nel cammino dell’evoluzione umana lasciandosi alle spalle un conflitto mondiale. Non può esserlo perché manca di logica, se si è pacifisti come si può combattere contro i propri simili, contro i propri fratelli, compatrioti, ritenendoli responsabili, più responsabili, di un nuovo conflitto così lontano dalla civiltà occidentale, dalla placida routine della provincia americana? Non si vuole la guerra a migliaia di chilometri di distanza e allora la si porta in casa propria, nella tranquilla vita di un paese che, sì d’accordo, forse è più fossilizzato di altri, delle grandi città, nel proprio disarmante benessere, forse è più bigotto di altri, forse con la sua società ben nettamente divisa più di altri non lascia via di scampo al libero pensiero, alla libera espressione di sé (un paese dove la figlia dell’ex miss New Jersey non può e non deve avere la balbuzie, non può e non deve essere brutta, non può e non deve essere anticapitalista), si forse…, ma è pur sempre un luogo tranquillo, calmo, parodisticamente pacifico. E allora perché portare la guerra nel proprio paese, nel proprio luogo di nascita? E perché deve interessare l’individuo, il singolo, pacifico, uomo il cui unico male è aver sempre e soltanto desiderato il meglio per sé e per la sua famiglia? Di che colpe si può macchiare tale individuo, di quali peccati? Di mancanza di consapevolezza sociale? E allora è socialmente più consapevole una ragazzina fuori di testa che per rivendicare i diritti di gente lontana, piazza una bomba in uno spaccio della cittadina dove vive, uccidendo persone, distruggendo vite, famiglie (a cominciare dalla propria) e negando, col suo gesto, proprio quel principio di evoluzione – giustizia sociale e ribellione pacifica per il quale combatte?
“Combattere per la pace.” Forse è proprio questo il controsenso, il nonsenso di fondo, che scuote la gioventù ribelle dell’epoca, l’appartenere ad una società che non ti vuole se non sei perfetto, fuggire per crearne un'altra migliore e scoprire di non essere neppure perfetti per quella nuova società, di non appartenere più neppure a questa, di non appartenere più e basta. E allora cosa rimane, qual è la soluzione? Tornare nella prima società? Quella dura, autarchica, quella contro cui all’inizio si era combattuto, ritornare nel nido familiare, chiedere scusa e tutto come prima? No, se ci si è spinti troppo oltre, no se si è commesso, nell’emblema dell’assurdità ideologica, quell’atto contro il quale per anni si è combattuto, quell’atto che così evolutivamente giustificato nel corso della storia dell’uomo eppure, preso singolarmente, così abominevole da catapultare chi la commesso fuori da ogni possibile società che voglia dirsi evoluta, no se si è ucciso qualcuno. Se poi si ha ammazzato non una ma quattro persone…
E allora cosa rimane? Qual è il posto di un individuo simile? Per qualcuno la galera, per qualcun altro il manicomio, per il padre disperato la famiglia, ma per se stessi? Se sei stato tu ad aver compiuto il massacro, come puoi avere ancora un’identità, una definizione di te stesso, darti uno scopo, un luogo, un posto dove vivere se hai privato proprio di tutte queste cose (identità, scopi, luoghi e affetti) non una ma quattro persone? Semplice non è possibile, a meno di non esser pazzi, non è possibile a meno di rinunciare totalmente a qualunque cosa, autodefinirsi abominevoli, immeritevoli, ridursi alla fame, all’estremo dell’immonda natura che ci spinge a comportarci così. No, non è possibile tranne che rinunciando completamente a vivere.
Ma cosa ha a che vedere tutto questo con la società? Con un piccolo paesino di provincia? E’ questa società, con le sue ottuse, retrograde ideologie che hanno creato il mostro-bambina (poiché è della figlia del protagonista che si parla) o viceversa è lei che con indole innata ha partorito un abominio sotto le mentite spoglie di una nuova società? E’ lei la condanna totale di un mondo oppure è l’artefice di uno step evolutivo umano che prima o poi sarebbe stato inevitabile, la scintilla primordiale di una nuova civiltà, antitetica alla precedente, la cui commistione con questa, non può che generare un mondo più evoluto, più cosciente, più comprensivo, ma non necessariamente migliore? Martire o carnefice?
E come può il singolo individuo, l’uomo medio della classe media, colui che aveva sempre mirato al raggiungimento dei primi ideali, quelli che un tempo erano considerati inequivocabilmente il Bene con la B maiuscola, quelli con cui aveva vissuto per anni, con cui era stato educato, cresciuto, quelli per i quali aveva combattuto, aveva portato la guerra nel mondo, aveva sostenuto la guerra nel mondo, come può uniformarsi a questo nuovo mondo? E se questo individuo poi è il padre del mostro?
Come può, sopportare, adeguarsi, superare tutto ciò?
No, non è possibile come non è possibile sfuggirgli, come non è possibile sfuggire alla violenza implicita dell’atto, come non è possibile sfuggire dalla realtà, neppure se si è una personalità, neppure se si è un mito locale, l’asso del college o miss New Jersey, neppure circondandosi di cose, di ricchezze, di vita, neppure cambiando casa, cambiando donna, trovandosi un amante, neppure cambiando vita, no, la realtà è sempre in agguato dietro l’angolo pronta a risucchiarti nelle sue spirali, pronta a rinfacciarti cosa sei stato, cosa hai generato, di che colpe ti sei macchiato.
Ma che peccati ha commesso questo individuo? Lo Svedese, il protagonista, la sua famiglia, la società a cui appartiene? Come può accadere che qualcuno sia colpevole di aver vissuto perfettamente, incarnando quei valori a cui tutti tendono, che tutti stimano?
Che quelli non siano i veri valori, be di certo non sono neanche gli altri, quelli opposti, quelli della rivoluzione, guardate la Russia, e tutti i regimi comunisti, guardate a cosa hanno portato gli altri valori: a una bomba, ad un omicidio, all’accattonaggio, ad un suicidio per “inappetenza alla vita”, alla rovina. E allora cosa rimane, dell’uomo perfetto, nella società perfetta, della pastorale americana? Di quella comunione di individui che in barba alle differenze si ritrovano assieme per condividere qualcosa di più del semplice appartenere ad una realtà agiata, qualcosa di più della partitella a football tra amici la domenica? Cosa rimane se questa stessa società a cui hai dato tutto ti volta le spalle e ti concede la “pastorale” più come un illusione, più come un pretesto solo una volta all’anno, perché si deve, perché si fa, perché è così? Quale valore rimane?
Forse l’unico vero valore è non avere valori, forse è questa la via, fuggire, illudersi, fingere che le guerra in Vietnam non esista, fingere che i conflitti religiosi non esistano, fingere di non avere una figlia dinamitarda e fuggire, fuggire in campagna per persistere nel sogno, fuggire nella casa da sogno, rifugiarsi nella finzione, dove per una sparuta comunità sei ancora un mito, sei ancora “lo Svedese”, oppure fuggire dietro le mani di un chirurgo plastico, dietro le apparenze di una nuova faccia sorridente, non a caso Dawn, la moglie dello svedese, sembra riacquistare lucidità e sanità mentale solo quando torna a casa dopo il lifting, solo quando si toglie le bende e può di nuovo ammirare il volto di quando era miss New Jersey, può ancora ammirare la persona che era quando esistevano dei valori condivisibili o almeno comprensibili, forse è questo l’unico modo…
Ma tutte quelle, il redivivo Svedese e la rediviva miss New Jersey sono solo apparenze, e dietro a queste è in agguato il loro vero aspetto, dietro a queste è in agguato la realtà di una figlia terrorista, di una famiglia distrutta, di una società malata, e a nulla valgono i tentativi di rimettersi in carreggiata.
E allora dunque come si può sopravvivere a questo sconvolgimento sociale, umano, nazionale, ideologico e psicologico?
Forse non si può, forse, va affrontato di petto, forse bisogna calarsi completamente nel ruolo e adattarsi, viverlo in pieno o, forse, turarsi il naso e aspettare stoicamente che il tempo bilanci la sorte, ridimensioni l’ottica sballata, riequilibri la morale.
Qualunque metodo è valido, se sei l’uomo medio, ma se l’uomo medio nel suo piccolo è un punto di riferimento? Un esempio? Se incarna per tutti, tranne che per se stesso, uno dei due estremi, uno dei due ideali?
Il tempo sana tutto, sconfigge le cause all’origine, ma se sei parte dell’origine allora non avrai mai scampo. Vuoi la società, vuoi, la realtà, vuoi la figlia, vuoi la tetra ironia di un tumore dopo essere sopravvissuto a tutto quanto, ma non avrai mai scampo.
Eppure cosa c’è di sbagliato in credere in qualcosa? Cosa diavolo c’è di sbagliato nell’essere qualcuno? (Qualcuno con la q minuscola).
Questo, tutto questo, è Pastorale Americana, un libro dai contenuti profondi, un libro dall’importante risvolto sociale, che fa del singolo la vicenda di tutti e riassume la storia di una nazione in un sol uomo, una drammatica e pessimisticamente disarmante disamina della storia americana degli ultimi cinquant’anni; questo è il pluripremiato capolavoro di quello che è considerato uno dei migliori scrittori del nostro tempo, un libro elevato, importante, consapevolmente archetipico di un’umanità che sente la necessità di evolversi denunciando un ventennio di involuzione, un libro profondo, importante e… ahimè un libro tremendamente finto!
Che cos’è la scrittura? E’ osservazione, riflessione, interpretazione, ma soprattutto sincerità, così, parafrasando, diceva Hemingway: “Se cominciavo a scrivere in modo complicato (…) scoprivo di poter tagliare quella voluta o quel fronzolo e gettarlo via e cominciare con la prima frase semplice e sincera che avevo scritto” (cit. Fiesta Mobile). In pastorale c’è tanto di riflessione e troppo poco di osservazione, c’è tanto di interpretazione e troppa poca sincerità, realismo: un padre che perde la figlia, dove sono le reazioni, istintive, impulsive, illogiche, sanguigne, subitanee di ogni essere umano? Un marito che si scopre tradito dalla moglie dopo che lui aveva fatto tutto per lei, dov’è la rabbia, l’istante di follia che solo l’educazione, il senso di appartenenza ad un mondo civile riescono a mediare? Una famiglia distrutta, una società distrutta, un mondo che ti schernisce, dov’è la viva forza della disperazione, le urla, le lacrime, dove sono?
Vero tutto quanto si dice, condivisibile l’interpretazione della vicenda, ma è sufficiente?
E’ tutta psicologia, elaborazione, autocommiserazione, ma dove sono le reazioni spontanee, primitive, primigenie? Forse proprio quell’unica cosa quella costante che accomuna gli esseri umani tra loro? Dov’è l’istinto?
E ma quello è sottinteso, va intuito…
No, perché come ci viene presentata la vicenda è completamente assente, forse addirittura si vuole far pensare che la società di quel tempo inglobi, fagociti, ogni istinto. Ma l’amor proprio, l’orgoglio, la rabbia, la ribellione, la cieca forza della disperazione oltre un certo limite, superata una certa misura sorgono inesorabili, comunque, a prescindere dall’ambiente in cui si è immersi, poiché sono lo sfogo dell’istinto primario che è alla base della specie umana e di ogni altra: l’istinto di sopravvivenza. Dov’è tutto ciò?
Semplice non c’è, al suo posto ci sono le elucubrazioni, le sortite mentali di uno spettatore distaccato, la cronaca del possibile e l’omissione del certo, la ricerca della possibile interpretazione, della possibile causa, e l’alienazione dalla concreta realtà, dalla illogica, subitanea, ma sincera, risposta di un uomo ingiustamente condannato a soffrire.
Ma perché è una vicenda metaforica, un esempio campione che estrapolandolo dal contesto rappresenta la realtà dell’America di quegli anni…
No, poiché se l’obbiettivo era quello non è’ sufficiente una simile storia, troppo particolare, esclusiva, rappresentativa, (proprio perché è troppo emblematica non può essere presa come campione, occorre qualcosa di più normale), non è sufficiente una singola vicenda per denunciare un’intera epoca storica. E le elucubrazioni mentali del protagonista, giustificate a posteriori, sono ingiustificabili di fronte all’incalzare dei fatti.
Tante cose accaddero in quel periodo eppure se ne vive una sola in Pastorale, una esemplare per carità, una approfondita fino al micrometro, ma è così importante alla fine? E’così significativa da dimostrare, ribadire, rafforzare il legame con quanto accaduto in quegli anni, è così imprescindibile da assumere un valore storico-sociale indiscutibile, tanto da far vincere il Pulitzer all’autore?
Lo è se è sincera, onesta, ma di sincero nello Svedese c’è ben poco, di onesto nel soggetto non c’è quasi nulla. Sono sinceri i suoi pensieri, ma le sue azioni, il come avrebbe agito, il responso naturale ai fatti? Eddai un “bestione di uno e novanta” asso del football, del basket e di ogni altra cosa, forte come un toro, mr. Perfezione, manager di una fabbrica avviata, sta li a pensare come sarebbe meglio interpretare il fatto che sua figlia non si lava da mesi, non mangia da altrettanto tempo ed è una bombarola incallita? Dov’è la sincerità? Forse se sei uno scrittore – eremita completamente distaccato dalla vicenda puoi metterti a pensare alle concatenazioni psicologiche di una simile situazione, ma se sei coinvolto in prima persona, fai come gli suggerisce il fratello: cacchio, vai lì in due e con la forza la trascini via da quella pazzia auto inflitta e la ricoveri in manicomio! Ma quali pensieri! Quali “viaggi” (per non dir di peggio) mentali! Quali? L’onestà in certi casi coincide con la forza, con l’azione, con la sensazione, magari erronea, ma pur sempre istintiva non con l’intellettualismo.
Forse allora non era meglio togliere qualche anacoluto cerebrale ed aggiungere qualcosa in più ad una vicenda che, a osservare strettamente i fatti, è alquanto scarna?
I riferimenti storici sono sicuramente presenti, e importanti, ma la vicenda, estrapolata dal contesto è quanto mai assurda, banale, piatta, fine a se stessa. Tanto che ad un certo punto, stanchi di leggere di tutte le paturnie mentali dello Svedese, è impossibile non parteggiare per il fratello, il chirurgo stronzo, e con la sua proposta, parafraso: “va bene, hai una figlia terrorista e rimbambita? Tirale due ceffoni, trascinala a casa e falle assumere la responsabilità di quello che a fatto, oppure lasciala marcire nei suoi stessi escrementi, ma smettila di farti ammazzare per colpa sua, e per carità smettila di pensare!” E’ impossibile non parteggiare per lui dopo l’ininterrotto stream of conunciousness dello svedese/autore. D’accordo anche questo passaggio è collegato alla storia, poiché è la trasformazione della società, e le trasformazioni da questa imposte per adeguarvisi, che hanno reso la figlia una bombarola, e che hanno reso il padre e lo zio, rispettivamente un mollaccione e un rispettato chirurgo stronzo, ma il collegamento tra individuo e società è assai lasso, almeno fino alla fine, fino all’ultimo convivio della borghesia dove tutti i nodi dovrebbero venire al pettine ed in realtà non accade praticamente nulla.
Questo è il problema di Pastorale: il collegamento, parlando della singola vicenda, focalizzandosi solo su quella si rischia di estrapolarla troppo e di farle perdere quella dimensione storica, politica e sociale che in origine l’autore si era proposto di darle. Forse sarebbe stata utile qualche altra vicenda, qualche altro fatto in più…
Quest’opera per certi aspetti è l’antitesi, l’opposto, di Underworld di DeLillo: entrambi si propongono di spiegare, criticare, denunciare e meglio comprendere, così da accettare, la storia recente dell’America e dell’occidente, ma il primo parte dal singolo per illustrare il tutto, il secondo parte dal tutto per arrivare al singolo, e se il primo dopo un po’ fa perdere la pazienza, se non addirittura il filo del discorso, il secondo, pur non avendo un filo logico consequenziale (si veda per esempio la disposizione dei capitoli) riesce ad approfondire, sviluppare, indagare nella psicologia dell’uomo molto più che le quattrocentocinquanta pagine di autolesionistica introspezione del protagonista di Pastorale Americana.
Anche stilisticamente il “capolavoro” di Roth non regge il confronto con quello di DeLillo, se il primo fa della confusione, della non scorrevolezza un arma impropria, il secondo (non da meno a livello di aggrovigliamento cerebrale), riesce a catalizzare l’attenzione su ogni singolo dettaglio che permea la vicenda, le vicende, e in tal modo a focalizzare l’attenzione sulla storia stessa.
E se nel secondo il realismo in un processo di catarsi assume la connotazione di iper – realismo, valorizzando la percezione stessa della realtà, in Pastorale semplicemente il realismo latita, sconfitto dall’assurdo e pedante immobilismo del protagonista, dalla inverosimiglianza del suo comportamento alla luce di quanto gli è accaduto e di quanto gli accade.
Ma non limitiamoci a questo, tiriamo ancora una volta in ballo Underworld di DeLillo: in Underworld c’è il ragionamento, il pensiero, la discussione, e sono legate indissolubilmente all’osservazione, alle impressioni, al contesto. In Pastorale invece sono sì legate al contesto, ci mancherebbe!, e sono sì giuste, pertinenti e condivisibili ma sembrano quasi ribaltare lo schema mentale dell’essere umano lo schema osservazione-pensiero. Input – ragionamento – output, nell’opera di Roth l’osservazione, la reazione nascono dal ragionamento, e il ragionamento è aprioristico rispetto alle contingenze, rispetto all’evoluzione degli eventi, come se lo Svedese si comportasse così, a prescindere da quello che accade, e la figlia idem, perché è così che si comporterebbe in un caso o nell’altro Roth.
No, non è onestà questa, non è realtà, non è il ragionamento che crea l’input.
La premessa stessa dell’autore, (parafraso) “…stavo danzando con… e di colpo.”, lo frega, è una confessione del suo errore, un ammissione di colpa: tutto il libro è finto poiché alla base parte da un viaggio mentale interiore e da esso non riesce separarsi.
E’ giusto pensare, ragionare, ma talvolta la vita è fatta anche di sensazioni, di stimoli inspiegabili, di istanti contradditori, di errori marginali e di visioni offuscate, è questo che ci rende umani, il fatto di pensare prima di agire e talvolta di non farlo. La realtà è giusto interpretarla, ma talvolta va presa per così com’è, accettarla e basta o non accettarla e basta, senza starci a riflettere su troppo; è il piano dell’infinitesimo di secondo che ci sfugge pur essendo fondamentale, è il vasto ritmo del mondo, di tutti gli esseri agenti sulla terra, che, impossibile da comprendere, possiamo soltanto intuire. Talvolta la quotidianità è fatta di pensieri, scelte, ma molte altre volte sono le azioni, le sensazioni; se così non è, se c’è solo il ragionamento, il pensiero profondo, ci si perde in se stessi, nelle proprie elucubrazioni, si perde il filo del discorso o il significato del libro. Bene, certo, sempre riflettere e pensare, ma talvolta occorre spegnere il cervello altrimenti ci si chiude in se stessi dimenticandosi del mondo esterno, delle sensazioni che questo ci offre, ci si dimentica di vivere. Talvolta una sensazione, l’istante in cui romanticamente abbagliati dalla bellezza di un paesaggio, un’ opera d’arte, una donna, si mette a tacere la propria voce interiore e si rimane inerti, incantati, totalmente ricettivi e istintivamente coinvolti, quell’istante vale più di mille riflessioni, vale più di cento pensieri! DeLillo questo lo sa bene, Underworld, il titolo stesso volendo rimanda a quel “mondo sotterraneo”, sotto la soglia del percettibile, che è la genuina comprensione istintiva, Roth invece apparentemente non lo capisce, lui è perso nei suoi elaborati pensieri, è smarrito nelle sue arzigogolate riflessioni ed è sconfitto dalla realtà quotidiana.
Tutto vero, quel che dice, quel che racconta, ma il mondo non è così, nella vita non c’è tempo per queste cose: se sei il padre che ha smarrito una figlia al diavolo l’America, il comunismo e il capitalismo, lo scambio generazionale, il bene e il male, i vecchi tempi, i valori della patria e il socialismo e la borghesia, al diavolo tutte queste idiozie da tea pomeridiano, al diavolo tutto e tutti e corri a riprenderla! Sì, ci puoi pensare, ne puoi parlare, ogni tanto, così per amore del dialogo, ma non puoi impostare la tua condotta di vita sul dualismo tra antico e moderno, tra occidente e oriente, tra bene individuale e bene delle masse, tra cattolicesimo ed ebraismo. Lo puoi fare se sei un politico, un prete, un rabbino, uno scrittore che vive da eremita e passa tutto il tempo a vagheggiare pontificando sulle giuste scelte morali della società moderna, ma non se sei un uomo comune, che vive dentro la vita, che non ha tempo per queste cose, non se sei una persona come lo Svedese.
Per tirare in ballo ancora una volta DeLillo, e prometto che questa è l’ultima, Punto Omega (e con questo ammetto che lo sto rivalutando) è la migliore risposta a Pastorle Americana: in questo caso non è la guerra del Vietnam ma quella del golfo, non è la società “antica” dei genitori, contro quella moderna e ribelle dei figli, ma un giovane e un anziano, non sono gli anni settanta ma il novanta, forse il duemila, ma la storia è simile, i temi sono simili, (guerra giusta o sbagliata? Società americana - occidentale che incarna i veri valori o è solo uno stereotipo che cela una realtà ben più amara e arrivista?) e le due generazioni a confronto si trovano a discutere, a riflettere; ad un certo punto DeLillo però si riscuote e compie il balzo che lo ri- trascina nel reale: quando accade qualcosa alla figlia del protagonista anziano, chi se ne frega di queste “cavolate dialettiche”, chi se ne frega di chi ha ragione, chi se ne frega dell’ America, dell’ Iraq, del capitalismo e del comunismo e corriamo a vedere cosa è successo, e affrontiamo il vero problema!
Questo è l’istinto, la risposta dell’uomo reale alle difficoltà della vita, l’istante sensazionale in cui si smette di ragionare e si agisce, l’istante che vale di più delle eremitche elucubrazioni artificiose di un emarginato sociale, poiché questo pare lo Svedese, un emarginato pur circondato da una società, chi se ne frega di tutto, questa è l’unica risposta al dilemma del “ma cosa è accaduto?”, “ma dove siamo andati a finire?” DeLillo ci mette un centinaio di pagine a trovarla, Roth ce ne mette più di quattrocento e non la trova, e il dubbio gli rimane. “Ma cos’ha la loro vita che non va? Cosa c’è di meno riprovevole…”
E dire che la risposta è molto semplice, facile, ci arriva chiunque al momento buono. Ma dove siamo andati a finire? Cosa c’è che non va nello Svedese, in me Svedese, nella mia vita?
La risposta è solo una: “ma chi se ne frega!”
Non è realtà quella di Pastorale è irrealtà, mascherata da intellettualismo, è mancanza di obbiettività, non storica e sociale, quella per carità l’autore ne ha fin troppa, ma mancanza di obbiettività individuale.
Date (sempre e comunque) a Cesare quel che è di Cesare, a essere obbiettivi, non ci si può limitare a condannare questo libro, non si può giudicarlo un libro mal riuscito e basta, non con quelle premesse, non se si parla di Philip Roth. Credo che l’unica parola che non contempli il suo vasto vocabolario di grande scrittore sia la parola “non riuscito.” Questo infatti non è un libro non riuscito, tuttavia, date le aspettative, le premesse, dato il riconoscimento internazionale, se per Pastorale non si può parlare di fallimento almeno di grande delusione forse è lecito. Delusione alla luce dell’ancora fatidica domanda: che cos’è la letteratura, che cos’è scrivere, ma soprattutto leggere?
In buona sostanza come dice Bloom la letteratura è catarsi, ma da cosa nasce la catarsi in un libro? Dal perfetto equilibrio di ogni sua parte e da uno stile irreprensibile in ogni sua variazione, da uno stile propedeutico all’evoluzione della trama, propedeutico all’evoluzione del concetto di realtà dell’autore e propedeutico all’evoluzione del lettore. Ma se la trama, come nel caso di quest’opera, è deficitaria e il soggetto è poco credibile allora lo stile deve essere ancora più che irreprensibile, deve essere assoluto, totale, o, in una parola molto più elegante, e già fin troppo usata, semplicemente, onesto.
Pastorale americana è scritta in uno stile onesto?
No, e in parte abbiamo già visto perché, ma c’è qualcos’altro di scorretto nel suo stile, di vizioso, di accennato eppure così palese, qualcosa che trascende l’indiscutibilità dei fatti.
Quello che lo Svedese accenna di aver iniziato, provato a compiere, con la figlia, ancora bambina e come la descrive Roth subito prima della telefonata al fratello (il fratello dello Svedese): è qualcosa di deviato, e si ripercuote lungo tutto il libro, nel modo come è scritto, nello stile, qualcosa di sottinteso, ellisso, eppure profondamente, moralmente, sbagliato. Sempre un passo al di là della soglia del tangibile eppure percettibile, eppure fin troppo palese.
E’ la repressione sessuale: è la pura, naturale pulsione di ogni uomo che in qualche modo viene repressa nelle parole di Roth. Ma questa repressione sarà volontaria o involontaria? Sarà un effetto voluto per stressare i problemi di una società perfetta solo in facciata oppure è una delle tante conseguenze dell’eccessivo cerebralismo dell’autore? E’ difficile capirlo come è difficile notarla, realizzarne in un singolo punto, paragrafo, la presenza; ciò non di meno è li, tra le pagine, una costante, raccapricciante e inammissibile per qualunque uomo onesto che voglia credersi tale. Dunque è lo Svedese disonesto o è lo stile dell’autore? L’uno esclude l’altro poiché se fatto apposta ne guadagna lo stile se invece è involontario ne perde l’autore.
Roth in Pastorale Americana, per quello che dice, per come lo dice non solo è l’antitesi di DeLillo ma lo è anche di Murakami, anzi di quest’ultimo parrebbe addirittura essere la nemesi: entrambi realisti, (a onor del vero il secondo più surrealista che realista) uno sembra diventare il nemico giurato dell’altro. Per l’autore Giapponese il sesso, la sessualità, l’erotismo, sono una costante ma sono normali, naturali, giusti, puri, in Roth invece no, ogni pulsione diventa morbosa, sporadica, ma avidamente particolareggiata, quasi volgare, quasi depravata. Non c’è nulla di oggettivo, concreto, sono solo impressioni, sensazioni che si spengono sempre un attimo prima di arrivare alla cosa definita, ma sono li, le si evincono dalla narrazione, tra le righe, di pagina in pagina, in un crescendo di presunta trivialità che culmina con il resoconto di quanto è stato fatto alla figlia dello svedese, culminano con il paragone, con l’immagine che ha il padre della figlia, di lei neonata da bambina e di lei sporca adepta ad un culto autolesionistico.
La domanda che occorre farsi ancora una volta è: questa appestante sensazione di irriverente maniacalità è volontaria?
Se è così, come per esempio ne “Il Teatro di Sabbath”, se è fatta apposta per evidenziare, sottolineare, stressare i problemi dell’uomo moderno, le sue falsità, le irrisorie apparenze a cui tiene tanto la società, be… tanto di cappello, è un'altra prova della grandezza di questo autore, ma se invece è soltanto frutto del caso, o meglio della innata indole repressa dalla cerebralità di un anziano che vive appartato tra i boschi, be… sarebbe quanto mai auto degradante.
No, non scherziamo, non facciamo della stupida faciloneria, affermare una cosa del genere sarebbe assurdo, sarebbe come mettere in discussione l’intelletto di un’ uomo il cui equilibrio e la cui acuità mentale sono riconosciute a livello planetario, anzi peggio, affermare una cosa del genere sarebbe come denigrare qualcuno per le sue scelte personali, sarebbe come accusare qualcuno, una persona riconosciuta come esemplare, di avere una mente corrotta dal proprio intelletto in un gioco di autodistruzione progressivo e totale, sarebbe psicologia da quattro soldi, psicologia da risentimento… ma Pastorale è un libro che suscita queste pulsioni, queste reazioni: lo si ama, ma lo si odia anche, piace e non piace, intrattiene e per certi aspetti disgusta. Forse perché in realtà mette a nudo ciò che noi, lettori, uomini moderni, occidentali, in realtà siamo; forse perché in realtà è uno specchio della nostra anima e non tanto di quella dell’autore, forse… ma l’odio, il malessere persistono, rimangono e si autoalimentano di pagina in pagina. Fino a ritenere che l’unico personaggio con un minimo di buon senso sia non tanto lo Svedese, eroe buono e sfortunato del romanzo ma suo fratello, ovvero colui che rappresenta lo stereotipo del occidentale, del capitalista possessivo e violento (cerebralmente, mentalmente, violento), del emancipato che una volta raggiunta una degna condizione sociale non guarda più in faccia nessuno pur di vendicarsi di quello che ha subito, di quello che la società gli ha fatto subire. Si arriva a questo, a stimare questo personaggio estremista, come unica voce della ragione in un delirio di pazzi.
Ma ancora una volta è indispensabile porsi la domanda, sarà un effetto cercato dall’autore o un collateralismo involontario? A differenza della sfera sessuale qui viene da pensare che sia stato fatto, studiato ed elaborato con intenzione, per poter rimarcare il concetto della totale e normale assurdità in cui si ritrova la società contemporanea, un assurdità così globale e onnicomprensiva che è impossibile sfuggirle e si è solo vittime, come lo Svedese da un lato, con la sua perfezione la sua bonarietà progressista; la figlia ribelle dall’altro, antisociale, anticonformista e antiumana e il fratello dal terzo, estremista totale che per repulsione nei confronti del mondo vive di troppo facili assoluti inopinabili ed inespugnabili.
Tutte vittime della società moderna, viene da chiedersi però, chi ha creato questa società? Se l’uomo presentato da Roth è vittima della società, vuol dire che è anche vittima di se stesso, poiché chi altri è l’artefice di questa condannata società se non l’uomo stesso? Magari, non lo Svedese nello specifico, magari non Merry, la figlia, o il fratello, ma anche loro sono comunque colpevoli, anche loro sono comunque esecutori materiali poiché parte del genere umano, poiché partecipi dell’ordine naturale delle cose. E allora cosa vuole dirci Roth, che ognuno è una vittima a prescindere, che non c’è soluzione di continuità alla nostra natura, che siamo condannati a soffrire della nostra stessa esistenza?
Apparentemente parrebbe di sì. Ma anche qui si torna al discorso di prima: troppo cerebrale, squilibrato, masochistico: la vita non è sempre e soltanto riflessione, e lo stesso la realtà, la società, se si incomincia a riflettere su qualcosa si troveranno sempre dei lati negativi, se ci si concentra su quelli parranno sempre più grandi, fino a diventare insormontabili, è sempre così, e l’autore se ne rende conto, ma sembra dirci: “vero, ma non c’è soluzione, è nella natura dello Svedese e nella nostra di esseri umani, riflettere e ingigantire i problemi.”
Eppure in qualche modo, si sopravvive, lo Svedese sopravvive, si legge all’inizio che è un tumore a stroncarlo e l’autore, l’alter ego cartaceo di Roth che crea tutta la storia mentre danza con la sua ex fiamma del college, è sopravvissuto, probabilmente in quanto essere umano avrà avuto gli stessi problemi dello svedese eppure ce l’ha fatta anche lui, come? Perdendo ogni valore? Ogni sicurezza, ogni scopo, rassegnandosi alla piatta realtà delle cose che accadono senza motivo? Forse per Roth è così ma di nuovo questa è una visione estrema che pecca di equilibrio, è un assolutismo non giustificabile da una mente illuminata come la sua.
E allora come venir meno al male di vivere che ci si auto infligge riflettendo, non potendo fare a meno di riflettere sulle cose che accadono? Quale filosofia, quale pensiero illuminato ci può permettere di ribaltare questa situazione, quale può sconfiggere l’indole innata della miserabile natura dell’essere umano di Roth?
Pare che l’autore nei suoi sessant’anni di carriera letteraria non sia riuscito a capirlo. Qualcuno meno sveglio, più istintivo, più giovane invece c’è arrivato, (e come lui ne sono sicuro, molti altri) era un semplice cantante di qualche anno fa, aveva fatto una canzone che conteneva un verso che recitava così: “ in every life we have some trouble, but if you worry you make it double, don’t worry, be happy!” Sono sicuro che tutti avete capito di chi parlo…
Facile, banale, scontato, palese, eppure più vero, genuino e concreto di ogni insulsa peregrinazione mentale di un povero pensatore chiuso in se stesso.
Questo, il verso di quella canzone, pare allora essere l’unica, risposta migliore, alle quattrocento e più pagine di Pastorale, parafrasando: Roth ci spiega i problemi della vita, dell’uomo, della società, dell’America attuale, ce li fa vivere, sentire, perdendosi nelle angosce, nella sofferenza e non vi trova soluzione, ma solo domande e domande alle ulteriori domande, fino ad arrivare a quella finale: come è possibile tutto questo? Cosa c’è di sbagliato? Come sopportare tutto questo?
La risposta è un semplice verso (le cose semplici sono sempre le migliori, anche in letteratura) di una semplice canzone: if you worry you make it double, don’t worry be happy, che guarda caso suona proprio come “si va be ma in fondo chi se ne frega!” Chi se ne frega se il mondo va così, chi se ne frega se non è una vita perfetta, chi se ne frega se hai dei problemi, se ti preoccupi ti sembreranno grossi il doppio, vivi sereno e affrontali da uomo!
Da qui il giudizio negativo al libro, forse un giudizio dovrebbe trascendere se si è d’accordo o meno su quanto affermato nel libro, e dovrebbe incentrarsi su come viene esposto l’argomento, sull’onestà degli elementi che vengono portati a supporto della propria teoria e non tanto delle conclusioni che si traggono da questi. Ma se queste conclusioni, influenzano tutto lo stile della narrazione, e la vicenda stessa, se l’ottica pessimistica di Roth influenza totalmente un libro, un romanzo, e se si riscontra che quest’ottica coinvolge i lettori e ogni membro, civile, pensante del genere umano, e se si nota che quest’ottica è sbagliata, falsa, stupida e limitata, be allora non si può prescindere dallo screditare il romanzo, per quanto il romanzo sia considerato il capolavoro dell’autore, per quanto la critica gli provenga da un insulso lettore come tanti, poiché se si è disposti a concedere il punto di vista all’autore, bisogna essere disposti a concedere anche il punto di vista opposto al critico e se si è dotati di logica, e chiunque legga Roth immagino lo sia, non si può ammettere che traendo da delle premesse corrette si possa giungere a delle conclusioni sbagliate; non se in ballo c’è il destino di un uomo, anche se fittizio, poiché nei disegni dell’autore è esemplare del genere umano, poiché anche se è uno stereotipo, nei suoi disegni è anche l’ archetipo di una società, poiché anche se irreale nella logica dello scrittore è quanto di più vero e attinente alla realtà possa esserci. No, non si può proprio ammettere una cosa del genere se c’è in ballo una critica alla società, la nostra società, non se in ballo c’è una dissertazione su quello che siamo stati e cosa siamo diventati negli ultimi cinquant’anni, non se in ballo c’è una critica personale fin troppo facile dei vizi di noi altri poveri esseri umani che ci mettiamo costantemente in gioco e il più delle volte non abbiamo tempo di riflettere sulla nostra illogica vita, no, non se in ballo c’è cosi tanto.
Date a Cesare quel che è di Cesare, ancora, d’accordo non sarà tutto perfetto, consequenziale, realistico e logico, ma come non considerare l’emozione che suscitano certi passaggi, l’angoscia di certi pensieri, il tormento di certe frasi taciute? E come non prendere in considerazione la catarsi inversa, per repulsione, che il libro suscita?
Pastorale Americana non è un libro sbagliato, scorretto, cattivo è un libro all’opposto, che fa ragionare per assurdo: “non vuoi una simile interpretazione della realtà e allora createla da solo”, sembra dirci, “ti va bene questa? Be è logico è così che va il mondo, che ti aspettavi?” e il ragionamento scatta, sia che ci si trovi d’accordo oppure no, sia che si condivida o meno la visione di Roth. Un libro simile, che suscita tale ragionamento e tali passioni, non può essere considerato alla stregua degli altri, ma questo vale sia per gli aspetti negativi che per quelli positivi, e allora vale il metro di giudizio non più assoluto ma del singolo, a seconda della propria morale, della propria verità personale, della propria maniera di interpretare il Mondo.
Ognuno legge Pastorale a suo modo e ognuno lo interpreta a suo modo, un libro del genere non può essere considerato oggettivamente ma solo soggettivamente, poiché non è uno di quei testi che o lo si odia o lo si ama, ma entrambe le cose: Pastorale la si odia e la si ama, ci attrae e ci repelle e nessuno può arrogarsi l’onniscienza imparziale necessaria per giudicarlo senza anteporre il soggetto giudicante alla frase: “io lo considero”, “io penso”, “a me è…”, e un libro che riesce a eleggersi sopra alla mischia a tal punto non può non essere annoverato tra le più grandi opere del nostro tempo.
Tuttavia, proprio per il fatto che nessuno può possedere la distaccata imparzialità necessaria per giudicarlo, anche il sottoscritto non può esimersi dal dire la sua e ribadire il concetto che Pastorale Americana non è un libro comune che si può odiare od amare, ma un libro che si odia e si ama contemporaneamente e purtroppo, per quel che mi riguarda, dal basso della mia riacquisita soggettività, devo ammettere che, vuoi per il punto di vista dell’autore, vuoi per la mancanza di concretezza, o di onestà, vuoi per l’eccessivo cerebralismo, purtroppo devo ammettere di averlo odiato molto più di quanto l’ho amato.

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chicca Opinione inserita da chicca    21 Giugno, 2013
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Il miglior Roth di sempre

Con questo libro Roth vinse il Premio Pulitzer per la narrativa del 1998, e si vede, è un romanzo non solo scritto in modo esemplare ma che ti entra dentro, ti travolge fin dalle prime pagine, togliendo il fiato e sprofondando il lettore nel vortice di disperazione che attanaglia il protagonista.
Seymour Levov è un giovane promettente , eccelle in parecchi sport e nella scuola di appartenenza è un piccolo mito, qui tutti lo chiamano " lo svedese" per via dei capelli biondi e dell'aspetto nordico .
Il padre è di origini ebraiche e possiede una piccola fabbrica di guanti in rapida espansione, la quale passerà nelle mani di Seymour, quando il padre non sarà piu' in grado di occuparsene.
Ben presto sposa Dawn Dwyer, una cattolica di origini irlandesi, ex Miss New Jersey.
La vita è apparentemente perfetta, con una famiglia armoniosa, affari soddisfacenti ed una bella casa immersa nella natura , l' unico problema sembra essere la balbuzie della figlia Merry .
Mentre infuria la Guerra del Vietnam ed i disordini razziali degli anni sessanta distruggono il centro di Newark, Merry, ormai sedicenne, diventa sempre più ribelle , la situazione piano piano sfugge di mano ai genitori . Merry si lascia plagiare da un gruppo di terroristi di estrema sinistra fino al punto di compiere un attentato dinamitardo contro un ufficio postale, uccidendo una persona e dandosi poi alla fuga.
Nei successivi 5 anni Levov cerca in tutti i modi di tenere assieme quel che resta della propria famiglia e persino di riportare Merry a casa.
Il finale non è affatto scontato , il migliore Roth di sempre, imperdibile!

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antares8710 Opinione inserita da antares8710    15 Gennaio, 2013
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Il sogno americano si sbriciola...

Il sogno americano va in bricioli tra storia familiare e Storia del Novecento. Questa potrebbe essere l'estrema sintesi del più riuscito libro di Philip Roth, vincitore meritato del Premio Pulitzer del 1997, che racconta la vita, il trionfo, le delusioni e alla fine il crollo di Seymour Levov da tutti conosciuti come "lo Svedese" per i suoi capelli biondissimi, gli occhi celesti e un'avvenenza da attore. E' il simbolo del sogno americano: ebreo di buona famiglia, bello, ricco, sportivo acclamato al liceo, imprenditore di successo e sposato con una Miss di grande bellezza.

Ma questo quadro idilliaco è destinato a frantumarsi con la guerra del Vietnam quando la figlia adolescente, per protesta contro il conflitto, decide di piazzare una bomba in un emporio causando la morte di una persona.
Da lì inizierà una lenta e inarrestabile spirale di depressione per i due genitori della ragazza, fino alla totale distruzione dei loro personaggi.

E' un libro sicuramente non facile da leggere, con una scrittura che riproduce il linguaggio parlato e si concentra con particolare insistenza su alcuni dettagli e aspetti della vita dei personaggi, rendendo inevitabilmente il testo pesante. Angoscianti le pagine in cui l'autore cerca di scavare il rapporto tra il padre e la figlia. Così come altrettanto difficili sono le pagine in cui descrive dettagliatamente fino alla nausea il processo di produzione dei guanti (il business di cui si occupa il protagonista).

Il libro si conclude con un interrogativo ambiguo che meglio di tutti ne spiega la trama: "Ma cos'ha la loro vita che non va?Cosa diavolo c'è di meno riprovevole nella vita dei Levov?"

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    27 Novembre, 2012
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il più bel libro di Roth

E' un libro bellissimo, così denso che richiede almeno una seconda lettura. Un Roth sorprendente per lo stile molto diverso dal suo solito. Molto meno ironico ma non meno penetrante. Racconta l'incubo della società americana, la pazzia che s'insinua nella vita apparentemente perfetta della persona più vicina alla perfezione, e anche all'innocenza, che il narratore conosca. Questo tema ricorre in molti romanzi americani. Penso per fare un esempio all'inizio del turista involontario (bellissimo) con la famiglia disgregata dalla morte del figlio cui un pazzo ha sparato a bruciapelo e naturalmente senza motivo mentre era in campeggio (al suo primo campeggio).
E' l'incubo della violenza (follia) che esplode improvvisa e senza motivo. O forse a cercare bene un motivo lo si potrebbe anche trovare. In ogni caso il veleno pervade anche la parte più sana del tessuto sociale annientandola. La morte dello svedese-ragazzo perfetto non è che la sua seconda morte che consegue come prevedibile al taglio delle radici più profonde della sua esistenza: la figlia, la moglie, la casa.
E' una storia triste perché la bontà del protagonista non lo mette al riparo dalla follia ma fa sì che non riesca a trovare gli anticorpi, a reagire alla malattia che si trasforma per lui anche in male fisico dopo aver pervaso l'anima e avergli tolto la voglia di vivere.

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La versione di Barney; una nuova vita; il commesso;
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    22 Luglio, 2012
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Duro colpo al sogno americano

Uno scontro generazionale e ideologico che va al di là del tormentato rapporto padre-figlia, coinvolgendo un intero paese, gli Stati Uniti, in un momento storico di grande difficoltà come sono stati gli anni della guerra in Vietnam. Un duro colpo al sogno americano, che riporta il protagonista ma anche il lettore con i piedi per terra mettendoli davanti ad una realtà ben diversa da quella sognata. Seymour Levov, detto Lo Svedese, vive una vita apparentemente perfetta: grande atleta, affermato imprenditore, impeccabile marito della bellissima Miss New Jersey e padre felice di Merry. Una persona ammirata e presa a modello da chiunque la conosca. Ma il suo mondo ideale si sgretolerà quando la figlia Merry, crescendo, dimostrerà un carattere difficile e ribelle che la porterà a mettersi in grossi guai inseguendo i suoi ideali. A questo punto per lo Svedese comincerà un’ineluttabile discesa verticale che lo precipiterà brutalmente giù dal suo piedistallo e lo costringerà ad un crudo faccia a faccia con un se stesso e con l’ambiente che lo circonda. Roth punta su uno stile semplice ed asciutto, concentrandosi invece su un’ottima analisi introspettiva dei personaggi e su pungenti riflessioni riguardo il mondo politico e religioso, tirando fuori un bel libro, leggermente sporcato però da eccessive dosi di retorica e da qualche fastidiosa ripetizione di concetti espressi più volte.

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Fabiana83 Opinione inserita da Fabiana83    14 Aprile, 2012
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La bomba che dà l'addio all'ottimismo di facciata

Il racconto presenta una trama semplice che si srotola in tre diverse ripartizioni di richiamo "Miltiano" (Paradiso Ricordato, la Caduta, Paradiso Perduto).
In effetti, Roth avrebbe potuto, sensibilmente, ridurre la durata narrativa di descrizioni prive di interesse (per es.le varie fasi di produzione dei guanti in pelle) ed accellerare così il ritmo della narrazione, ma è anche, attraverso queste analisi minuziose, che lo scrittore consegna al lettore l'immagine insuperabile di una Newark in rovina (" un tempo la città in cui si fabbricava tutto, ora la capitale mondiale dei furti d'auto"), un intera città distrutta da tasse,corruzione e razzismo, che diventa una proiezione simbolica, una metafora essa stessa della caduta che travolgerà il protagonista: Seymour Irving Levov, meglio noto come "Lo Svedese",uno studente ebreo, il migliore atleta del Liceo di Weequahic, insomma una leggenda.
Il vero antagonista di Seymour è Jerry, suo fratello, in cui ritroviamo rovesciati i tratti caratterizzanti l'aspetto fisico e la personalità dello Svedese. Difatti,Seymour, da ragazzo, era uno sportivo, alto, snello, con la pelle chiara e la sua "inespressiva maschera vichinga", Jerry invece un mago della matematica, magrissimo e flessibile come una stecca di liquirizia.
Seymour e Jerry: figli di Lou Levov, il classico "self made man",l'uomo che partendo dal nulla si è fatto da solo. Prima di lui, suo padre era arrivato a Newark dopo il 1890 e aveva trovato lavoro nella conceria Howell&Co, mescolato "ai più rozzi immigrati slavi, irlandesi e italiani". In quella stessa conceria andrà a lavorare anche un giovanissimo Lou Levov che solo dopo 20 anni, maturerà l'idea ambiziosa di mettere in piedi una fabbrica di sua proprietà: nasce così la Newark Maid. Ben presto, lo Svedese sarebbe diventato il giovane Presidente della Società.
A questo punto, spiccano le differenze caratteriali tra i due giovani Levov: Seymour dimostra di essere totalmente subordinato all'autorità paterna. Dovrà ereditare l'impresa di famiglia e viene dunque allevato,educato, istruito in vista del suo compito futuro: costretto a rifiutare contratti importanti, che con i suoi successi sportivi, inevitabilmente arrivarono, per poter entrare nell'azienda del padre, imparando il mestiere in una conceria prima, e davanti ad una macchina da cucire poi. Un ragazzo semplice, STOICO (aggettivo spesso ripetuto), attratto dalle responsabilità, votato al conformismo, ad un ideale di vita ordinaria e decorosa, con una buona scorta di sopportazione e la voglia di accontentare tutti. Lo Svedese rimane fedele a quell'imperativo sociale che obbligava i figli degli immigrati ad una corsa sfrenata per migliorare la propria posizione sociale, perchè è l'America il Paese che garantisce a tutti, indistintamente, "eguali possibilità di riuscita".
Jerry invece si ribella al padre e SCEGLIE di diventare un cardiochirurgo, preferisce Miami a Newark e colleziona mogli, ben 4, e tutte infermiere. Viene ricordato come un adolescente "eccentrico", e come un uomo arrogante e presuntuoso," ferocemente sicuro di sè".
L'avvenimento principale che aziona il racconto è un incontro casuale tra due vecchi conoscenti: lo Svedese e lo scrittore Nathan Zuckerman, a cui seguirà un invito a pranzo in un ristorante italiano di New York. Spietata è la critica di Zuckerman, che paragona il suo ex idolo (lo Svedese) a Ivan Il'i?, un personaggio tolstoiano, che come Seymour aveva condotto una vita decorosa, "approvata dalla società" e che in letto di morte, rimpiange di "non aver vissuto, come avrebbe dovuto".
In realtà, lo Svedese aveva realizzato la sua VERSIONE DEL PARADISO, una vita semplice e comune, ma bellissima, "perfettamente" americana: Sposa Dawn Dwyer, una "shiksa" (ragazza non ebrea), ex Miss New Jersey; vive in una casa in pietra indistruttibile, inespugnabile nella ricca e rurale Old Rimrock, un vero fortilizio con le persiane nere e l'altalena appesa al ramo di un albero su cui aveva visto dondolare sua figlia Merry (" la ragazza più in gamba di tutte", nonostante il problema della balbuzie e i vani tentativi di curarla) e non in ultimo un azienda gestita magistralmente.
Bellissima questa contrapposizione tra la "casa in campagna" (nido domestico, l'ambiente amico in cui ritrovarsi, l'illusione della perfetta stabilità) e la "città industriale"(il luogo dove si esasperano tutte le più vistose contraddizioni della società moderna,come la guerra, l'immigrazione di massa, le discriminazioni razziali, la criminalità).
Dopo il famoso pranzo con lo Svedese, Roth parla di una riunione degli ex allievi del Liceo dove Zuckerman avrà modo di rivedere Jerry,il suo ex compagno di classe e soprattutto di avere notizie del fratello. Da quella breve e intensa chiacchierata,lo scrittore scopre non solo che Seymour era morto recentemente (l'eroe indistruttibile della Weequachic aveva perso la sua partita con il cancro) ma anche che la bellezza,la gloria non lo avevano esentato dall'incomprensibilità del dolore,dalla tragedia umana.
La vita dello Svedese non si era srotolata come un morbido gomitolo di lana. Anzi ne esce fuori
- l'immagine di un padre autoritario, impossibile da soddisfare, un "insopportabile bastardo" che Seymour sopportava con estrema tolleranza.
- Una moglie altrettanto insopportabile. "A Dwyer nessuna casa andava bene, nessun conto in banca era abbastanza grosso". Lo Svedese le aveva messo in piedi un allevamento di bestiame ma non aveva funzionato, e la stessa sorte era toccata al vivaio. La portò in Svizzera per un lifting, e non aveva neanche 50 anni, fu operata dal chirurgo di Grace.
- Una figlia assassina. Meredith Levov era la terrorista di Rimrock, la studentessa liceale che per protestare contro la Guerra in Vietnam, pensò bene di far esplodere l'ufficio postale di Hamlin, uccidendo il medico che era uscito all'alba per imbucare una lettera. Questo fu solo il primo di una serie di attentati che la vedranno coinvolta.
Da qui l'idea dello scrittore Zuckerman di raccontare la vita di una leggenda, seguendone non i successi,ma il crollo e la caduta. Si reca a Newark, a Old Rimrock e cerca di reperire informazioni utili per rendere il racconto "verosimigliante". Quella che segue è dunque una CRONACA REALISTICA che certamente non si ripropone di essere la fedele biografia di un uomo (lo Svedese), perchè il dramma dei Levov diventa lo spunto che permette allo scrittore (anche allo stesso Roth) di raccontare la storia delle tante famiglie americane, progressiste e tolleranti, che con la Guerra in Vietnam, si ritrovarono i figli in galera o in fuga verso la Svezia o il Canada.
La vita di Seymour fu sconvolta da una bomba, quella piazzata da sua figlia, che diede l'addio all'America pittoresca e il benvenuto al mondo reale. Qualcosa si inceppa nella quotidianità della vita borghese, i cui riti sono guidati da un destino senza sorprese. I valori che sembravano ormai consolidati vengono rifiutati dalla nuova generazione, quella di Merry.
Seymour si era conformato automaticamente, INCONSAPEVOLMENTE a regole che si presentavano naturali, necessarie, le uniche possibili. Aveva rispettato quell'imperativo sociale che lo obbligava ad essere un buon marito, un buon padre, un ottimo uomo d'affari. Era così diventato l'immagine perfezionata di suo padre.
Merry non aveva accettato quelle regole, si era interrogata circa la validità di queste, e CONSAPEVOLMENTE aveva deciso di non adeguarvisi. L'atto terroristico è un esempio emblematico di devianza dai valori normalmente riconosciuti. Il '68 aveva tradito il passato e la storia si è incaricata di vanificare brutalmente le illusioni, le aspettative dei genitori. Merry non è l'immagine perfezionata di suo padre, è una figlia scheletrica, vestita come uno spaventapasseri, che vive in mezzo ai rifiuti e ai derelitti, una giaina che aspira a morire per inedia e che confessa allo Svedese di aver ucciso 4 persone "con la stessa innocenza con cui un tempo avrebbe potuto dirgli : papà, oggi pomeriggio ho cotto al forno dei biscotti al cioccolato".
La storia americana aveva raggiunto anche le strade tranquille e senza traffico di Old Rimrock, fatto irruzione nella casa ordinata e sicura dello Svedese e aperto una voragine che non si sarebbe mai più richiusa: "Non si riprenderanno mai".
La cena a casa di Seymour con cui si chiude il romanzo, appaga la volontà caricaturale di Roth nel rappresentare una realtà vuota, banale, ai limiti del grottesco, dimostrando, ancora una volta, che l'ottimismo di facciata spesso coincide con un atteggiamento superficiale nei confronti della vita:
-Lo Svedese scopre che sua moglie ha un relazione con un vicino, Bill Orcutt, l'architetto che stava progettando la loro nuova casa, e ancor peggio che ormai era riuscita a gettatarsi alle spalle quel passato scomodo. Dawn ricominciava da capo con un viso, una casa, un marito, tutti nuovi. Lo Svedese invece era rimasto sempre lì, a quel 1968.
- Orcutt: Tutta apparenza e simulazione: sopra il gentleman sotto il verme.
-Lou Levov dirotta le sue attenzioni di "buon padre premuroso" verso Jessy, moglie di Orcutt, alcolizzata: un altra vita spezzata in due. Nella sua crociata contro il "disordine" Levov-padre ne esce ferito (nel vero senso della parola). La devianza (ora incarnata dall'alcolismo ) aveva avuto la meglio.
-Barry Umanoff, l'uomo ragionevole, professore di Giurisprudenza alla Columbia, figlio di un sarto immigrato e quindi l'esempio emblematico di "colui che ce l'aveva fatta",si accompagnava stranamente a Marcia, una professoressa di Lettratura, non conformista, una donna sciatta, molto più portata al sarcasmo che all'igiene personale.
-Sheila Salzman,la foniatra di Merry, l'amante di Seymour,la "ragazza carina, gentile e soave" con cui lo Svedese avrebbe voluto ricominciare, era diventata la complice di sua figlia, aveva agevolato la sua fuga, tenendola nascosta (anche ai suoi genitori) per qualche giorno dopo il famoso attentato del 68.
A tavola vengono serviti due piatti unici: la parodia dell'integrità umana e la distruzione di ogni dovere morale.

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macchiolina Opinione inserita da macchiolina    01 Febbraio, 2012
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La tragedia dell'uomo impreparato alla tragedia

E' un libro molto bello.Che tocca tasti a cui credo ognuno di noi (in particolar modo se genitore) sia molto sensibile.Certo ognuno ha le proprie chiavi di lettura, e certo questo libro non parla solo del rapporto tra genitori e figli,del susseguirsi delle generazioni,del conflitto e della continuità insiti in esso.Parla dell'abisso tra ciò che vorremmo essere e magari (quasi sempre) non siamo,tra ciò che vorremmo il nostro mondo fosse e magari non è.Parla delle tensioni,delle lacerazioni,delle aspirazioni che ogni essere umano porta in sè, e della lotta che deve compiere per districarsi tra le cose (e le persone,e i sentimenti,che proviamo nonostante noi stessi) che ci spingono avanti e quelle che ci spingono contro un muro. E parla della società,della religione,dell'economia,del razzismo..Insomma Roth come sempre nei suoi libri alla fine ci mette un pò di tutto e ognuno di noi sceglie cosa mettere in primo piano. - La tragedia dell'uomo impreparato alla tragedia:cioè la tragedia di tutti. - Ricordi (...) di quando faceva loro intravedere come sarebbe stata da grande: l'amica adulta che un giorno avrebbero avuto.Ricordi,soprattutto,di quando erano ciò che i genitori sono per la maggior parte del tempo:gli esempi,gli aguzzini,le autorità morali,i cronisti dei doveri e degli impegni quotidiani.Ricordi,piuttosto,di quando tornavano ad incontrarsi,oltre le tensioni tra il dominio dei genitori e l'inconcludente incertezza infantile,ricordi dei momenti di respiro nella vita della loro famiglia in cui potevano,pacificati,tendersi serenamente le braccia.

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Lady Libro Opinione inserita da Lady Libro    18 Novembre, 2011
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Rompiscatole americana

Osannato dalla critica, vincitore di numerosi premi, definito da molti un capolavoro... Sarà, ma io non sono proprio riuscita ad apprezzare questa benedetta "Pastorale americana".
L'ho trovato semplicemente brutto, tedioso e inutile, proprio come la maggior parte dei capitoli che lo costituiscono.
In questo caso, secondo me, il termine "narrazione" è a dir poco approssimativo e appena abbozzato, perchè più della metà del romanzo si focalizza su descrizioni prolisse, minuziose, interminabili e senza alcuna utilità nella trama, come ad esempio il racconto del mestiere del padre dello Svedese che ha fatto fortuna grazie ad una fabbrica che produce guanti da donna.
Tutto questo non si poteva, se non evitare, almeno ridurre o accennare? Perchè praticamente intere pagine parlano solo di ciò!
E non basta: Roth deve perfino descrivere i processi grazie ai quali si conciano le pelli e si realizzano i guanti!
Che barba! Ma poi che senso ha tutto questo? Probabilmente di allungare il libro in modo che venga fuori un bel mattone!
In questi casi tanto vale leggere un manuale per apprendisti conciatori!
Altra cosa che non mi è piaciuta: i personaggi, in particolare lo Svedese e sua figlia Merry.
Il primo perchè è un bamboccione elogiato soltanto per la sua bravura negli sport (e tutte le altre caratteristiche dove stanno se esistono? Sembra di trovarsi di fronte ad un automa che ha come solo scopo lo sport!) e tuttavia è incapace di gestire e di dare due (ma anche tre!) bei calci nel sedere a quell'odiosa, pazza, schizofrenica di sua figlia Merry che sta rovinando tutta la famiglia e la realtà di allora.
Sia pure forte negli sport quanto vuole, ma come uomo e padre è un disastro. Che personaggio deludente!
E'il primo libro di Philip Roth che leggo e con tutta probabilità sarà anche l'ultimo. Leggendolo ho avuto l'impressione di osservare uno squallido e mediocre Woody Allen con la penna.
Brutto e inutile. Non so se riuscirò a leggere altre opere di quest'autore. Credo proprio che non faccia per me.
E io che credevo che non mi avrebbe delusa....

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gracy Opinione inserita da gracy    24 Settembre, 2011
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Un libro che non mi aspettavo

Un libro che non mi aspettavo, leggerlo è stato come vedere un film a pezzi e rivedere le stesse scene riavvolgendo il nastro per poi rifarlo ancora, forse per lo stupore di una bravura che non leggevo da tempo o forse per capire meglio i personaggi spesso affiancati da tanta nebbia psicologica o per le troppe reazioni emotive scaturite . Dopo aver letto il dissacrante “Lamento di Portnoy” non pensavo che “Pastorale americana” mi avrebbe proiettata nei meandri di una famiglia americana benestante, ebrea da parte di padre e contraria alla guerra e che poco dopo avrei sofferto assieme a loro tutti i conflitti psicologici che affioravano e che rimanevano senza risposte. Roth ha preso i personaggi e li ha maneggiati come voleva lui, anche nelle situazioni più assurde e bizzarre, ha scavato per bene, ha fatto perdere loro il controllo ed ha fatto emergere tutta la devianza che ha causato il dolore rendendoli incapaci di gestire la loro infelicità.
”Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando.”

"Ma cos’ha la loro vita che non va? Cosa diavolo c’è di meno riprovevole della vita dei Levov?…" ...
mi verrebbe da rispondere “…le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo…"

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Argento Opinione inserita da Argento    13 Settembre, 2011
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La Pastorale Americana

La pastorale americana è valsa allo scrittore il Premio Pulitzer nel 1997, e questo di sicuro ci fa riflettere. Perché mai dovremmo criticare negativamente uno scrittore così prestigioso e il suo romanzo più bello e famoso?
Roth è di sicuro un maestro e la Pastorale è ben scritto e racconta uno spaccato di vita americana, in maniera magistrale. Forse proprio per questo non sono riuscita a “entrare in sintonia” con i personaggi. Il romanzo racconta la storia di Seymour Levov, bello, biondo alto e sportivo, detto lo svedese e candidato a incarnare il sogno americano, che sposa una donna destinata a diventare Miss America, ma non ce la fa e rimane Miss New Jersey , e per tutta la vita cerca di dimostrare che lei è tutta “cervello” e poche forme, non è la solita bambolina, ma che dentro di sé cova il rimpianto per quella mancata vittoria. Fin dalle prime pagine Nathan Zuckerman, un compagno di Lev e alter ego dello scrittore, parla dello svedese, ma per entrare nel cuore del romanzo ci vuole pazienza; superare la noia di tante descrizioni, da come si fanno i guanti a come si concia una pelle, passando per particolari di musica, di cancro alla prostata, di tori da monta onestamente non è facile. Nathan Zuckerman rincontra a una festa gli ex compagni e da lì in poi sente la necessità di raccontare la storia di Lev prima che svanisca la memoria. Ma non è solo Lo Svedese il protagonista del romanzo e in questo la narrazione è davvero bella e particolareggiata. Il sogno americano, emblema di riscatto e di opportunità, si distrugge sempre più man mano che leggiamo, fino a porre una domanda cruciale.
Perdono quindi a Roth i particolari che non aggiungono niente alla storia e ve ne consiglio la lettura.

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Opinione inserita da Laura    06 Aprile, 2011

Da leggere con pazienza

è un romanzo molto bello. I personaggi sono molto ben caratterizzati, quasi sembra di conoscerli... a tratti ci si ritrova, o si riconosce una persona, un momento, una situazione, un pensiero noti. Estremamente descrittivo dell'"americanità" post-bellica, racchiude tutta la borghesità benpensante, bigotta e allo stesso tempo "giusta" e onesta dell'America provinciale, da questo punto di vista è davvero insuperabile. Purtroppo, tutti questi contenuti, resi con grande maestria, restituiscono una narrativa a tratti un po' indigesta, lenta... talvolta la bellezza dei contenuti e la maestria nel descriverli vengono oscurati dalla pesantezza dello stile e dalla lentezza della narrazione.... soprattutto, a mio parere, nella prima parte. Armatevi di pazienza e superate il primo scoglio (e gli altri che vengono...) perchè i contenuti sono molto profondi ed emozionanti e vale la pena di conoscerli.

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di artemisia Opinione inserita da di artemisia    25 Febbraio, 2011
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Solitudini

Zuckerman , lo scrittore alter ego di Roth, ricostruisce la storia dello Svedese, spinto da una serie di circostanze casuali. Lo Svedese era stato per lo Zuckerman fanciullo, figura carismatica ed esemplare. E così si era conservata nel ricordo. L’evento casuale di un incontro tra ex-liceali è la spinta per riflettere sul passato.
Davvero lo Svedese era ciò che sembrava? L’incarnazione perfetta del sogno americano? La ricostruzione della storia dell’atleta ebreo biondo e vincente svela la falsità del suo “personaggio”, e attraverso lo smontaggio completo della sua maschera, viene distrutta l’immagine dell’America come luogo della felicità, del successo e della giustizia.
La Pastorale americana per eccellenza dura ventiquattro ore e cade nel giorno del ringraziamento. E’ una moratoria su ogni doglianza e ogni risentimento per tutti coloro che in America, diffidano uno dell’altro.
Perché di fatto, oltre l’apparenza, del sogno americano non resta nulla.

Ma una lettura in chiave esclusivamente legata alla critica della società è molto riduttiva.
Ciò che di più affascinante e pieno c’è nel romanzo è dato dalla capacità di Roth di entrare dentro i personaggi, dalla sua capacità di introspezione.
E ne viene fuori un quadro ancora più desolante e disarmante, perché nel fondo c’è una enorme, smisurata solitudine.
Lo Svedese è un uomo scomposto, scisso, delirante, ma nulla di ciò che è, appare. Anzi, lo sforzo continuo per mostrare l’apparente normalità non fa che dilatare il proprio dolore interiore.
Merry , la figlia adorata e intelligentissima, dal riconoscimento dell’abiezione del suo mondo, il mondo borghese e controllato, di cui l’inconsapevole padre è campione, arriva all’abiezione del suo corpo, al distacco da ogni materialità e contatto umano. "Mi sento sola", da piccolissima, e da adulta sceglie deliberatamente la solitudine.
Ma anche Dawn, in fondo è sola, mai riconosciuta e accettata dagli altri per quello che sente di essere.

Pastorale americana è un romanzo sulla solitudine umana, legata all’incapacità di leggere dentro gli altri, e di capire fino in fondo chi sono. E di leggere in noi stessi, per capire chi siamo.
Perché le nostre certezze possono essere smantellate in un soffio. Non è necessario che un figlio metta una bomba in un locale pubblico. Non è sufficiente abbracciare ogni forma di protesta o di alterità per trovare le risposte .
A volte basta un incontro casuale, per capire di avere sbagliato . Qualunque strada avevamo scelto di percorrere.
Ma nel giorno del ringraziamento facciamo finta di niente.
Quanti giorni del ringraziamento ci sono in un anno?

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