Narrativa straniera Narrativa per ragazzi Il cane che aveva perso il suo padrone
 

Il cane che aveva perso il suo padrone Il cane che aveva perso il suo padrone

Il cane che aveva perso il suo padrone

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Di solito, nell’arco della propria vita, un amante dei cani cambia più di un amico a quattro zampe. Nel mio caso però è diverso: sono stato io a perdere il mio padrone. E lo sto ancora cercando. Da più di un secolo, da quando mi è stato concesso l’incredibile dono di non invecchiare mai. La mia esistenza è un mistero. Certo, se riuscissi a trovare il mio primo padrone potrei avere le risposte che cerco. Quell’uomo onorevole e leale, dalla voce dolce e dal temperamento mite, sarebbe capace di spiegarmi ogni cosa. È per questo che non mi arrendo e continuo a cercarlo. Sperando disperatamente che sia ancora vivo. All’età di 217 anni, un vecchio cane attraversa tutta l’Europa: dalla strana corte del re Carlo I alle guerre per la successione spagnola, passando per Versailles, Amsterdam e la Venezia del XIX secolo. Nel suo percorso farà amicizia con animali e uomini, si innamorerà, si meraviglierà di fronte alla duplice capacità umana di innalzarsi producendo sublime musica e di cadere in basso combattendo squallide guerre. Mentre la Storia intorno a lui cambia, un sentimento solido e forte non lo abbandona mai: l’indissolubile legame con il suo padrone.



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Il cane che aveva perso il suo padrone 2020-08-31 16:51:49 FrancoAntonio
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    31 Agosto, 2020
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Il cane che vide scorrere i secoli

Questa è la storia di “campione”, scritto così, senza la maiuscola iniziale (solo alla fine si scopriranno i nomi dei personaggi principali). Lui è bel un cane, forse un segugio da caccia dal dorso lucido e nero, e, come tutti i cani, nutre un'immensa adorazione per il suo padrone che considera sede di ogni virtù. Ciò non sarebbe una novità, né lo sarebbe il fatto che la brava bestia desideri sopra ogni cosa stargli vicino e se questo si allontana provi subito una grande ansia e il desiderio di ritrovarlo immediatamente. La stranezza è che campione non ha la tipica vita breve di tutti i suoi simili, che concentrano il loro affetto in uno o, al massimo, due decenni di spensierata esistenza. No, campione è pressoché eterno. Il suo padrone, uno straordinario uomo di scienza, alchimista, chimico, biologo, medico chirurgo di suprema abilità è riuscito a distillare da un arcano minerale, proveniente da terre remote, una specie di elisir (il jyhr) che, se iniettato secondo una precisa metodica nel corpo di un essere vivente, gli rigenera i tessuti e ne arresta l’invecchiamento. Cioè lo rende pressoché a-mortale, non immune in senso assoluto dalla morte, che può essergli inflitta per avvelenamento, soffocamento o col fuoco, ma, in pratica, con vita indefinitamente lunga. Ogni altra ingiuria fisica, malattia o ferita viene assorbita rapidamente e annullata. Così gli anni passano con la stessa indifferenza delle ore.
In questa incredibile simbiosi, campione trascorre decenni felici con la sua controparte umana in giro per il mondo. Ma c’è una minaccia che incombe su entrambi: Vilder, ex socio e amico del suo padrone, anch’egli sottoposto alla cosiddetta “conversione”, ora pretende che l’uomo continui a lavorare per lui assecondandolo in ogni più abietto capriccio, fornendogli le droghe e i “tonici” di cui è divenuto dipendente. L’uomo e il cane sono così costretti a una perenne fuga di Nazione in Nazione per sfuggire alle mire di Vilder, disposto a ogni crudeltà pur di ricattarlo e assoggettarlo ai suoi voleri.
Però, in una terribile giornata del 1688, nella basilica di S. Maria della Salute, a Venezia, l’inevitabile accade: l’uomo scompare quasi davanti agli occhi del suo devoto compagno a quattro zampe. Questo, fedele a quanto gli era stato chiesto solo pochi minuti prima, lo aspetta speranzoso per centoventisette anni nella illusione di vederlo ritornare nel punto convenuto.
È proprio nel maggio del 1815 che facciamo la conoscenza di campione e delle sue traversie per riunirsi al suo amato padrone. Attraverso le sue parole riviviamo gli anni sereni della loro unione, presso le più fastose corti d’Europa, ma pure sui campi di battaglia delle innumerevoli guerre che hanno insanguinato il continente, dove l’uomo, con spirito missionario, si è prodigato per alleviare la pena dei feriti. Ascoltiamo anche il racconto degli angosciosi decenni di attesa sino a quando un inaspettato incontro sembra dare una svolta, non si sa se lieta o drammatica, alla sua disperata ricerca.Infine saremo testimoni assieme a campione degli ultimi sconvolgenti colpi di scena che riveleranno molti dei retroscena e daranno una spiegazione agli accadimenti passati.

Sono stato attratto da questo libro non appena ne ho letto il titolo e la breve sinossi. Ero stanco di dover affrontare romanzi che narravano del confortante legame tra uomo e animale domestico e dovermi, in conclusione, sorbire il triste resoconto della morte del povero quattro zampe, schiavo della brevità della sua esistenza. Per una volta volevo assaporare il gusto di un cane che sopravviveva al padrone e poteva, dall’alto della sua superiore longevità, ammirare la caducità delle cose umane. Come mi sbagliavo! Infatti, se c’è una cosa più triste e angosciosa della perdita del proprio compagno peloso è l’esatto contrario: quando la povera bestiola perde il padrone, unico punto di riferimento, centro della sua esistenza e della sua stessa ragione di vita.
In questo inusuale e affascinante libro, sempre in equilibrio tra una immaginifica realtà e la cruda, ma appassionante, rievocazione della storia passata, diveniamo partecipi delle angosce del povero animale che diventano le nostre. Ripercorriamo oltre due secoli di avvenimenti, tra Elsinore e Waterloo, passando per Londra, Parigi, Venezia, Amsterdam. Dall’epoca di Giacomo I d’Inghilterra arriviamo a quella di Napoleone Bonaparte e dello Slavery Abolition Act del 1833. Osserviamo da vicino con gli occhi canini di campione la Guerra dei trent’anni e quella civile inglese di Cromwell. Come comparse nel dramma personale del cane faremo la conoscenza dei protagonisti di questi secoli tormentati, ci beeremo alle armonie della spinetta suonata dal giovane Mozart o a quelle di Rossini o Schubert intonate da prestigiose orchestre sinfoniche, ammireremo opere d’arte di ogni genere, ancora odorose di olio di lino o di calce, che ci verranno suggerite solo da brevi ammiccamenti (i cani non studiano storia dell’arte!), ma che, proprio per questo, ci appariranno ancora più vivide.
Tutte le vicende ci sono riproposte attraverso l’inconsueta e destabilizzante prospettiva di un quattro zampe che ha acquisito la saggezza di un asceta, la cultura di dotto studioso e la lungimiranza di un indovino. Le parole di campione ci faranno partecipi di un mondo di effluvi, di suoni e sensazioni, non percepibili dai nostri sensi imperfetti. La sua obiettività canina mostrerà in maniera crudamente intensa quanto siano folli le azioni umane: la guerra, le svariate forme di studiata crudeltà, l’alterigia e la vanagloria, l’effimera ricerca di un benessere passeggero che viene, immancabilmente, spazzato via da malattie e morte. Anche l’apparentemente invidiabile condizione di campione e del suo padrone, alla fine, apparirà in tutta la sua vacuità: un infinito ripetersi degli stessi gesti fini a sé stessi. Lo metteranno in risalto due femmine che mostreranno una saggezza sconosciuta a quel mondo dominato da maschi volitivi. La prima sarà Jacobina (giovane donna, amica dell’uomo): “Vivere in eterno? È la cosa peggiore che io possa immaginare!”. Sarà poi la volta di Blaise, la dolce cagnetta di cui si innamorerà teneramente campione: “Hai detto che vuoi che io non invecchi. Perché pensi al futuro. Ma io sono felice adesso, qui”.
Gli insegnamenti principali che ci impartisce campione sono due. Innanzi tutto, l’equa imparzialità della morte e, poi, che amore e amicizia sono gli unici valori che contano nella vita.
Negli ultimissimi capitoli la narrazione è lievemente al di sotto del livello del resto del libro (divenendo forse eccessivamente fantasiosa, oltre che più melodrammatica e, talvolta, mielosa). Credo che si incontrino pure alcuni falsi storici. Nonostante ciò, complessivamente, ho trovato questo volume sorprendentemente struggente (sino alla commozione) e dolcissimo, ma anche decisamente profondo e saggio. Molte volte ho dovuto resistere alla tentazione di strappare (con la fantasia) il povero cucciolo dalle pagine del suo strazio letterario per poterlo consolare virtualmente tra le mie braccia. Molte più volte mi sono sorpreso nello scoprire come certe ovvietà, come l’orrore della guerra, ci divengono più comprensibili e accettabili se a “mostrarcele” non è uno della nostra specie.
Insomma "Il cane che aveva perso il suo padrone" è un piccolo capolavoro da leggere e meditare.

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Per l’angolo del pignolo consentitemi un solo piccolo appunto al traduttore: come si può parlare di “fotografia” nel XVIII secolo? Probabilmente l’originale inglese parlava di imagine o di picture… Anche altrove si ritrovano alcuni scivoloni di traduzione: un po’ più di attenzione nell’uso dei termini non avrebbe guastato.

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