Narrativa straniera Romanzi Una vecchia storia. Nuova versione
 

Una vecchia storia. Nuova versione Una vecchia storia. Nuova versione

Una vecchia storia. Nuova versione

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Un uomo esce da una piscina, si veste, e si mette a correre lungo un corridoio grigio. Apre delle porte, che si spalancano su luoghi più o meno prevedibili, come tanti palcoscenici che ospitano recite quotidiane: una famiglia, una coppia, una guerra, una solitudine. Poi, la corsa si arresta e tutto ricomincia. Sette capitoli per sette variazioni. O meglio, sette cambiamenti di prospettiva per raccontare una storia «vecchia», ma necessaria: la vita. Come sottotitolo, queste parole: «Nuova versione». Cosa significano? «Nuova» rimanda evidentemente a un'altra versione, a una versione «originale». Ma che differenza intende sottolineare? Il «nuovo» libro cancella forse il «primo», che quindi ne sarebbe solo una parte, o un tentativo non riuscito, incompleto? Se scrivere un libro è un'esperienza, la sua pubblicazione vi pone termine, in modo definitivo. Per Une vieille histoire , un racconto in due capitoli uscito nel 2012, invece, non è stato così. Perché, non lo so; sta di fatto che un giorno ho constatato che il testo, simile a uno spettro senza pace, continuava misteriosamente a produrre. Perciò ho dovuto rimettermi a scrivere, come se non ci fosse stato già un libro. Curiosa esperienza. Più che una continuità, un cambiamento di schema. Resta immutato l'impianto: in ogni capitolo, ora diventati sette, un narratore esce da una piscina, si riveste, e comincia a correre in un corridoio grigio. Scopre porte, che si aprono su territori (la casa, la camera d'albergo, il monolocale, uno spazio più ampio, una città o una zona selvaggia), luoghi in cui si consumano e si riconsumano, all'infinito, i rapporti umani più essenziali (la famiglia, la coppia, la solitudine, il gruppo, la guerra). Esplorati quei territori, esauriti quei rapporti, la corsa si conclude: nella piscina, com'è ovvio. Poi tutto ricomincia. Uguale, ma non del tutto. Sette, però, non è semplicemente due più cinque. La trama, che intesse il concatenarsi dei territori e dei rapporti umani, si addensa, si ramifica. I dati più fondamentali (il sesso, l'età stessa del narratore o dei narratori) diventano instabili, proliferano, mutano, poi si ripetono in una forma ogni volta rinnovata, alterata. La corsa, in partenza sterile, diventa ricerca, ma di che cosa? Di un varco, forse, probabilmente impossibile, o quanto mai effimero, ma tanto più necessario.



Recensione della Redazione QLibri

 
Una vecchia storia. Nuova versione 2019-10-10 13:23:46 Molly Bloom
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    10 Ottobre, 2019
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Non aprite quella porta

"Fendevo l'acqua con il corpo, filando da un'estremità all'altra della vasca come una macchina ben oliata, azionata da gesti precisi, perfettamente concatenati. Quando toccavo la parete facevo una capriola e puntavo i piedi per spingermi nell'altra direzione.(...) Il vigore che mi gonfiava i muscoli mi rallegrava, inanellai le vasche senza contarle. Alla fine, sott'acqua, braccia lungo i fianchi, mi lasciai andare. La testa sbucò dalla superficie, con la bocca aperta per respirare l'aria, le mani trovarono il bordo e, sfruttando lo slancio, effettuarono con scioltezza un sollevamento per tirare fuori dall'acqua il corpo grondante."

Un uomo biondo, una donna bionda con lo chignon, un'altra con i cappelli corti corvini, un bambino biondo, un uomo bruno e una donna formosa dai cappelli rossi, questi sono i personaggi dell'ultimo libro di Jonathan Littell. Niente nomi, solo caratteristiche fisiche. Sette capitoli circolari, in cui viene descritta la stessa storia, però da più prospettive: l'io narrate è ora l'uomo biondo, ora la donna bionda con lo chignon, ora il bambino biondo. Iniziano tutti con l'uscita di un corpo grondante dalla piscina per poi concludersi sempre lì con un preciso tuffo. Nel mezzo, una ricerca, una fuga del narratore dentro un lungo e contorto corridoio buio contente tante porte che danno su vari scenari di vita. In tutti i sette capitoli, questi scenari sono gli stessi e si succedono nella stessa ordine: la vita di famiglia, due amanti in albergo, un monolocale dedicato alla solitudine, una festa di gruppo e infine una scena di guerra. Mutano i personaggi, gli oggetti e le situazioni, penetrano da uno scenario all'altro e subiscono metamorfosi, si sdoppiano, un grido di una scena avrà l'eco in un altra. Ad esempio, nella scena famiglia il bambino biondo gioca nella sua cameretta con dei soldatini giocatolo uccidendoli, nella scena guerra invece il bambino biondo viene crudelmente ucciso dai soldati.

Questa circolarità dei singoli capitoli e la connessione delle cinque scene si estende anche all'insieme del libro. Man mano che si va avanti nel romanzo si percepisce un aumento di intensità di questa fuga nel corridoio buio e le piccole scene si sviluppano da un capitolo all'altro avendo un loro epilogo. Per quanto sia fissa e matematica l'impostazione del romanzo, con ripetizioni anche di intere frasi che il lettore ormai imparerà a memoria e rappresenterà per lui delle linee guida, tipo "tu sei qui" sulle mappe, essa contiene un gioco di specchi, di sdoppiamenti, un labirinto in qui tutto muta e si trasforma: "come il racconto di quell'evento inaudito che adesso sto cercando di costruire, facevo acqua da tutte le parti; fuggivo, ma in me stessa, per sempre libera."

La particolarità di questo romanzo non consiste soltanto nella forma ma anche nel suo contenuto che è caratterizzato da un alto tasso di violenza ed erotismo. Il sesso è presente quasi in tutti i scenari e viene descritto in tutte le sue forme, da autoerotismo a orgie omosessuali. Credo che Littell sia un ibrido tra De Sade e Henry Miller, ci sono delle scene allucinanti che però, prima ancora di disgustare il lettore, incuriosiscono perché inaudite e scritte, secondo me, bene. Eccone un esempio:

"Appoggiai le rotule sul campo di erbe del copriletto e mi voltai: il mio orifizio macchiato di sangue era al centro dello specchio, delineato da due pieghe di carne gonfie, pelose, che scostai e scrollai come vecchi cenci lerci, scoprendo le mucose rosa e l'apertura spalancata che, man mano che vi affondavo le dita, si dilatava smisuratamente, senza limiti, un organo cavo ripiegato su se stesso, senza più alcuna relazione con me. Alla fine tutta la mia mano si ritrovò al suo interno, il polso stretto fra i tessuti spugnosi e sporchi, e mossi le dita, pizzicando i nervi come corde, inviando lungo il mio sistema nervoso i trilli di una musica al tempo stesso priva di timbro e carnale, che si raggruppava qua e là in vibrazioni convergenti prima di implodere, e scoccare di rimando fiotti di luce che mi attraversavano a rimbalzi il corpo svuotato, sparpagliandolo per la stanza. Ciò nonostante il sesso non cessava di rimanere spalancato, ora occupava la maggior parte dello specchio con tutta la sua profondità aperta dalle mie due mani, nera, abissale, alla fine abbastanza grande perché ci ficcassi tutta la testa e la facessi scomparire dentro, seguita dall'insieme dei miei organi che da lì si dispersero nel grande appartamento, lasciando il corpo vuoto disteso sul copriletto verde e oro, una conchiglia bianca e liscia, senza asperità, pura superficie avvolta dal sonno."

Così come mancano i nomi ai personaggi, a loro mancano anche i pensieri, i sentimenti e lo spirito critico. In questo libro, nonostante la narrazione sia in prima persona, tutto viene descritto con assoluto distacco, c'è un silenzio totale della coscienza dei personaggi, delle loro intenzioni, di ciò che reputano giusto o sbagliato,si limitano solo a descrivere il presente "visibile", non esistono legami affettivi non esistono rimpianti o introspezioni, esiste solo "ora" in un mondo estraneo a loro. Solo nel finale, l'autore sembra rompere questo silenzio e lasciare trasparire un messaggio:

"mi sentivo invaso da un vasto senso di futilità, forse, pensavo, se avessi scorto qualcun altro, una figura umana, avrei potuto raggiungerla, avremmo camminato insieme e questo avrebbe forse alleviato un po' i nostri passi, perché anche se non ci fossimo parlati, se non avessimo scambiato nemmeno una parola, avremmo sentito il nostro rispettivo respiro e il suono delle nostre falcate, una presenza, quindi, sarebbe stata lì accanto a me e io accanto a lei, avrebbe avuto un che di vagamente confortante, ma non c'era nulla, nemmeno un'ombra (...)".

Per concludere, è un libro di forte impatto: violentissimo, freddo, osceno, sporco, immorale ma cattura proprio per questo fascino del male e per il modo in cui è stato scritto e che fa la differenza tra un bravo scrittore e uno mediocre. Trasmette un grande senso di solitudine, però, del resto, si nasce e si muore soli, e nel mentre la situazione cambia di poco.

Piccola curiosità: Il sottotitolo” Nuova versione” fa riferimento all’ampliamento del libro originale,” Una vecchia storia”, pubblicato qualche anno prima e contenente i primi due capitoli. La nuova versione ne aggiunge i successivi cinque e secondo me è un esperimento riuscito che incorpora perfettamente la versione precedente e da luce a un nuovo libro, più compatto.

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Una vecchia storia. Nuova versione 2020-02-20 12:01:08 DanySanny
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    20 Febbraio, 2020
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Coazione a ripetere

Si nasce e si muore nell’acqua, continuamente: quella di una piscina, o del mare, quella di una doccia, sporca, pulita, macchiata di sangue o invasa di ruggine. Acqua che fa nascere e mutare, acqua che fa morire. E nel mezzo dell’acqua, corpi. Corpi di uomini, di donne, di transessuali, corpi di bambini, corpi nudi, spalancati, maciullati, crivellati, corpi ammaccati, affamati, corpi che corrono e che vivono, prima ancora della volontà. È una vecchia storia, quella della vita, cieca, disperata, sorda, vita che perpetua se stessa, nella morsa della ripetizione e sullo sfondo di relazioni umane tanto assolute quanto spersonalizzate. Sette volte per sette capitoli, sette inizi, riflessi e sfrangiati in una miriade di specchi, vittime innocenti diventate carnefici, violentatori stuprati, bambini che muoiono e uccidono. E su tutto la stessa piattezza, lo stesso tono, la stessa atona inquadratura che impassibilmente descrive l’orrore che accade.

Non credo sia un caso che Littell abbia dedicato un libro, “Trittico”, alla figura di Francis Bacon: chi ha in mente i dipinti inquieti e disperati del pittore irlandese, non fatica a rivedere nei corpi descritti da Littell la stessa intensità dolorosa, la stessa violenta contorsione, le membra stirate, accartocciate, quasi dilaniate, perché il corpo, prima ancora della peronsa, pensa e agisce, subisce e crea, nella sua chiusura e nella sua dolorosa apertura. A tenere le fila di questo labirintico libro, il filo rosso della violenza. Rubo le parole alla scrittrice Sarah Kane per spiegarne la logica:

“La logica conclusione dell’atteggiamento che produce un caso isolato di stupro in Inghilterra è la violenza etnica in Bosnia. E la logica conclusione di come la società si aspetta che gli uomini si comportino in guerra.”

Ogni capitolo scritto da Littell, esplorando prima la famiglia, poi la coppia, poi ancora la solitudine e il gruppo, esita sempre in una scena di guerra, perché la violenza nel piccolo cresce e si manifesta nel grande, perché la violenza di un bambino che gioca con i soldatini è la stessa del generale che massacra i prigionieri. Nell’universo di Littell ogni azione ha lo stesso peso: mangiare, bere, dormire, evacuare e dunque la scrittura riporta tutto senza enfasi, senza scomporsi, come un cronista che assista al massacro. E in questa scrittura volutamente neutra, mi pare di leggere un dolore profondissimo, quello di chi ha visto l’oscenità del mondo e non sa ritrovare un briciolo di luce per sostenere la speranza. Detto altrimenti, questo è un libro di intenso nichilismo, ma un nichilismo che procede non per esplosioni e distruzioni, ma per un costante e perpetuo livellamento di ogni rilievo della realtà.

Quello che non funziona è che la ripetizione del modello per sette volte appare non necessaria e pleonastica e che la scrittura, come la violenza, finisce per alimentare sterilmente se stessa. Specie nelle scene in solitaria, quando l’azione non supporta l’attenzione, il libro scivola pericolosamente come una vite che gira e rigira scavando quello che è già stato scavato. E il sesso e la violenza che vivono sulle pagine appaiono alla fine come inutile gratuità. Solo alla fine, quando tutta la parabola è stata percorsa, in una rapida e improvvisa apertura, il dolore dello scrittore si manifesta nella sconcertante e assoluta disperazione della solitudine.

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