Narrativa straniera Romanzi storici La morte di Virgilio
 

La morte di Virgilio La morte di Virgilio

La morte di Virgilio

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Le ultime ore di vita impegnano Virgilio, ormai anziano e di ritorno in Italia, in filosofiche meditazioni. Attraverso strade rumorose e affollate il poeta va dalla nave al palazzo dell'imperatore Augusto a Brindisi, e qui decide che l'Eneide va distrutta. Ma Ottaviano lo convince a salvare l'opera e Virgilio va incontro alla morte.



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La morte di Virgilio 2018-06-18 07:56:19 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    18 Giugno, 2018
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VIAGGIO IMMOBILE VERSO LA MORTE

“La responsabilità del cantore, quel suo dovere di conoscere che egli mai riesce interamente ad affrontare e ad assolvere – oh, perché non gli era stato concesso di spingersi oltre al presagio fino al vero sapere dal quale soltanto si dovrà attender salvezza?! Perché il destino lo aveva costretto a ritornare indietro fin qui?! Qui non c’era che morte e null’altro che morte!”

Non è una lettura facile o rilassante, “La morte di Virgilio”, tutt’altro. Dalle cinquecento pagine del capolavoro di Broch si esce infatti esausti, stremati, come al termine di un’esperienza impervia ed estenuante, ancorché ricca di un innegabile fascino, singolare ed ipnotico. Non si tratta del piacere che offre la maggior parte dei libri, piacere che scaturisce dal racconto e che nel racconto (fabula) trova i principali motivi di coinvolgimento emotivo ed estetico, bensì di una ammirata quanto impotente soggezione di fronte a un’abilità stilistica che ha del miracoloso e a una costruzione narrativa impeccabile e geometricamente perfetta (l’autore ha voluto dare a “La morte di Virgilio” la forma classica della sinfonia in quattro tempi: andante, adagio, scherzo e maestoso), ma che ciononostante finisce per lasciare freddi e perplessi. E’ innegabile la cerebralità dell’opera, il suo essere un romanzo e al tempo stesso un saggio, il quale vuole esprimere piuttosto che un’esperienza umana (o comunque non solo quella) una serie di idee e di riflessioni teoriche. Broch vuole parlarci di problemi come il ruolo dell’intellettuale nella società o il compito che deve prefiggersi l’opera d’arte, e l’aver sostanziato questo progetto in un personaggio (il poeta Virgilio) e in un’epoca storica (quella di Augusto) ben determinati ha come motivazione prevalente quella di poter parlare dell’attualità in una prospettiva maggiormente distaccata, senza farsi coinvolgere dagli sconvolgenti drammi del Novecento, ma privilegiando il simbolo e la metafora. Lo strumento principale per esprimere tutto ciò è lo stream of consciousness di joyciana memoria. Tutto il romanzo, pur essendo in terza persona, è infatti un’espressione del flusso di coscienza di Virgilio il quale, oscillando tra realtà, sogno, allucinazione febbrile, immaginazione e ricordo (i quali trapassano impercettibilmente l’uno nell’altro, come nelle pagine in cui gli schiavi puliscono Virgilio e questi, cullandosi nelle piacevoli sensazioni del massaggio e dell’afrodisiaco, sogna di parlare con Plozia nella stanza trasformatasi in foresta, e dal sogno si passa senza alcuna percettibile soluzione di continuità alla visita di Augusto), trascorre da solo, oppure con la compagnia emblematica dell’imperatore e degli amici Lucio Vario e Plozio Tucca, o ancora insieme a una serie di personaggi immaginari (il fanciullo di nome Lisania, Plozia Ieria, lo schiavo) le ultime ore della sua vita. Questo stream of consciousness si appoggia a uno stile severo, tortuoso, ricco di subordinate, difficile da leggere eppure innegabilmente lucido e coerente, maniacale quasi nel continuo, progressivo rafforzamento lessicale del concetto che Broch vuole esprimere, o nella proliferazione di aggettivi (spesso ossimorici) per qualificare una cosa, o infine negli impercettibili aggiustamenti di ciò che si è appena detto nella riga precedente.
La presenza della morte aleggia inequivocabile fin dalle prime pagine del romanzo: il poeta è presentato con “il segno della morte scritto sulla sua fronte”, la solitudine del mare è “così piena di sole e pur così piena di morte”, i giochi d’amore sono “un abbandono alla morte”, e così via. Con il progredire del libro, essa diviene però una presenza sempre più astratta e mentale, che l’esplorazione minuziosa della più segreta interiorità di Virgilio converte in un’esperienza di natura mistico-allegorica. Qui intendo entrare nel merito di quella che è un po’ la croce e insieme la delizia de “La morte di Virgilio” (personalmente ritengo che sia più la prima che la seconda), e cioè la seconda parte, quella notturna, in cui Virgilio rimane solo e riflette lungamente sulla morte. In questa interminabile, delirante, febbrile, insonne notte, che rimanda alla notte definitiva, al nulla, all’eternità, Virgilio raggiunge la consapevolezza che la sua vita in fondo altro non è stata che una continua attesa, una inesausta ricerca, un indefesso ascolto della morte. Aldous Huxley ha parlato a questo proposito di “lirismo filosofico”, e il termine mi sembra quanto mai appropriato, perché se da una parte sembra di assistere alle visioni di qualche mistico medioevale, in cui il razionale sconfina facilmente nell’irrazionale, dall’altra la logica puntigliosa, meticolosa, sempre tesa a restituire tutte le sfumature più recondite del pensiero del protagonista ha una impostazione affine a quella della filosofia trascendente. E come se si trovasse di fronte a un libro di filosofia che si interroga con terminologia da iniziati sui più sofisticati e complessi quesiti teleologici, il lettore si aggira con difficoltà e spesso si perde, respinto dalla quasi totale illeggibilità di questa lunga parte notturna, in cui Broch cerca di esprimere l’indicibile, di esperire l’ineffabile, di rivelare ciò che non può essere rivelato, in una continua e frustrante oscillazione di quasi-rivelazioni, di pseudo-apparizioni, di significati che si occultano dopo aver fatto sperare in un loro disvelamento. C’è inoltre, a scoraggiare il lettore, un’innegabile impressione di artificio linguistico, di narcisismo stilistico, di sterile virtuosismo in frasi del tipo “era l’io che trovava il proprio simbolo nell’universo, era l’universo che trovava il proprio simbolo nell’io, e i due simboli dell’essere terrestre si intrecciavano reciprocamente in un unico simbolo”, oppure “il vuoto penetrava il paesaggio e ne era a sua volta penetrato, il non-spazio permeava lo spazio, che a sua volta permeava il non-spazio, simbolicamente, nell’assenza di simboli, così come la ferinità penetra la falsa morte, che a sua volta penetra la ferinità”, frasi che all’apparenza sembrano spiegare tutto, ma che poi lasciano letteralmente interdetti e incapaci di capire cosa l’autore abbia realmente voluto dire.
Ma la seconda parte non è, a voler essere sinceri, tutta da buttare. La farraginosità di queste centocinquanta pagine è infatti in parte giustificata dal contesto notturno in cui si sviluppano queste difficili meditazioni. Esse infatti hanno il carattere di vere e proprie allucinazioni (vedi l’incubo delle pagine 205-208, che ricorda certi deliranti dipinti di Bosch) partorite dal buio della notte, contorte e cervellotiche, che l’arrivo del giorno dissolve come per incanto, facendo sparire il ricordo dei dettagli del sogno improvvisamente interrotto dal risveglio e lasciando solo al suo posto una sensazione di diffuso malessere alla cui origine e alle cui cause non si riesce più a risalire. Ciò che rimane alla fine impresso nella memoria è l’oscillazione di Virgilio tra lo sconforto per l’incapacità di adempiere la sua missione di artista, per la consapevolezza di avere sprecato la vita, di avere illuso se stesso e gli altri attraverso la vana creazione di finti simulacri di verità e di conoscenza, e l’opposto sollievo di avere fatto tutto ciò, per quanto inutile, per quanto sbagliato, per un’ineludibile necessità imposta dal destino: il lucido eppur delirante monologo interiore procede così in questo ondivago andamento di vergogna e di conforto, di abbattimento e di conferma, di dubbio lancinante e di certezza riconquistata. Questa dissociazione, questa aporia in cui si dibatte Virgilio, la quale si può sintetizzare nel conflitto tra due opposte concezioni dell’esistenza (la prima in balia del caso, la seconda diretta dal destino) ci porta a due riflessioni. La prima è curiosa, forse opinabile, ma perfettamente in linea con il carattere mistico di questa sezione del libro. Infatti la consapevolezza di essere liberi pur all’interno di un disegno predeterminato (è la consolante conclusione a cui perviene Virgilio quando egli diviene cosciente di avere adempiuto nel corso della sua vita al volere di un destino a cui non poteva opporsi, e che ciononostante lo ha lasciato libero di scegliere) prefigura la tematica cristiana del libero arbitrio. E non a caso uno degli aspetti più singolari e anacronistici (Virgilio è vissuto nel primo secolo a.C.) che Broch attribuisce al suo protagonista (attingendo a una diffusa tradizione medioevale) è quello di essere stato un precursore del cristianesimo. A pagina 260 si legge: “colui, il quale… è stato destinato a portare l’atto e, come questo, deve stare nella duplice origine, nascere come creatura terrestre da padre celeste, perché soltanto colui, che ha origine al di là del destino e tuttavia soffre fino all’estremo il male del destino, possiede anche la grazia di mutare la perdizione in redenzione e farsi redentore”. E a pagina 310, in maniera non meno clamorosa: “Quando nella catena delle generazioni divine appare colui che è nato dalla vergine; egli è il primo che non si ribelli: entra nel padre ed il padre entra in lui, ed uniti essi sono nello spirito, tre in uno in eterno”. Queste premonizioni divinatorie si spingono addirittura ad anticipare il ruolo di guida di Dante che Virgilio avrà, molti secoli dopo, nella Divina Commedia: “tu sei l’eterna guida cui non è dato di raggiunger la meta: immortale sarai, immortale come guida”.
La seconda riflessione cui si faceva riferimento più sopra riguarda l’opera lasciata incompiuta da Virgilio, l’Eneide, e più in generale la poesia tout-court. Virgilio ha perseguito per tutta la vita, in maniera quasi ascetica e sacerdotale, l’ideale della verità, ma si rende conto in extremis che la sua opera non è riuscita a scendere sotto la superficie della realtà. Essa è stata (per malaugurato fraintendimento, per debolezza umana, per amore della gloria) attratta dalla bellezza (che per Broch è un falso valore) e, risultando un mero adornamento dell’esistente, una fatua esaltazione del presente, ha smarrito la propria ragion d’essere principale, che è quella di aprire gli occhi agli uomini, di far loro da guida nella scoperta della Parola prima, che sta a monte di ogni linguaggio, quella che rimanda senza mediazioni all’Entità suprema origine di ogni cosa, che sta sopra perfino agli dèi romani. E’ per questo che Virgilio decide di bruciare l’Eneide, di sacrificare il suo lavoro più ambizioso per presentarsi all’ultimo, fatidico appuntamento con la coscienza libera dal peccato (anche se si tratta, come nelle opere di Kafka, di un peccato non comprensibile dall’uomo, in quanto il destino ha già addossato sulle sue spalle questa colpa fin dall’origine dei tempi, come una sorta di peccato originale).
Arriviamo così alla terza parte, occupata quasi interamente dal colloquio tra Virgilio e Augusto. In questo lunghissimo faccia a faccia si confrontano due idee dell’arte inconciliabili: quella dell’imperatore, secondo cui l’arte deve essere al servizio della collettività e dei fini politico-militari dello stato, e quella del poeta, secondo cui l’arte, espressione prettamente individuale, deve mirare esclusivamente al perseguimento di fini morali e trascendenti, e se non li raggiunge essa ha fallito il suo scopo; nel primo caso l’arte appartiene a tutti, e segnatamente al Potere, nel secondo è appannaggio esclusivamente dell’artista. E’ fin troppo evidente la vicinanza della posizione di Augusto con quella della Germania hitleriana da cui Broch era fuggito (ma anche, più latamente, di tutte quelle dittature, marxista compresa, che nel secolo scorso hanno fatto di tutto per asservire l’arte e trasformarla in una innocua grancassa autocelebrativa). Virgilio lotta con tutte le sue residue forze per impedire a se stesso una funesta ed esiziale compromissione con il Potere, il quale peraltro è dotato di un grande carisma paternalistico, di una irresistibile forza di suggestione e di una quasi invincibile capacità dialettica, ma alla fine è inevitabilmente costretto a cedere e a consegnare il suo poema ad Augusto. E’ apparentemente una resa senza condizioni all’arroganza del Potere, ma la lettura finale di questo gesto di sconfitta (solo in parte attenuata dalle condizioni poste da Virgilio all’imperatore e da quest’ultimo accettate, che cioè dopo la sua morte i suoi schiavi possano ottenere l’affrancamento) non può essere univoca. In realtà la consegna del manoscritto ad Augusto, apparentemente dettata dalla stanchezza o da motivazioni umanitarie, è l’esito inevitabile a cui non può non condurre lo stato di totale passività a cui Virgilio si abbandona inoltrandosi per il suo ultimo viaggio, quello che porta alla morte ormai non più procrastinabile. Con questo viaggio, che occupa l’ultimo capitolo de “La morte di Virgilio”, si chiude finalmente il cerchio e si attua il ritorno alle radici più profonde dell’io (vedi lo strabiliante, vorticoso cammino che Virgilio compie a ritroso nel tempo fino ai primi istanti della creazione), l’identificazione tra l’essere e il nulla, la riconciliazione degli opposti (luce-buio, movimento-immobilità, tempo-atemporalità). E’ utile osservare che l’ossimoro è una figura ricorrente ne “La morte di Virgilio”, e a partire dal “caos della solitudine” in cui Virgilio viene a trovarsi nel corso della sua veglia notturna, dal “non ancora, eppure di già” che ricorre più volte fino a diventare una sorta di leit-motiv, fino ad arrivare a quel “viaggio immobile” che è il suo estatico approdo alla morte, esso punteggia in maniera estremamente significativa l’intero romanzo. E un ossimoro è anche il fallimentare trionfo di Virgilio con cui si conclude il romanzo: Virgilio è riuscito, a dispetto di ogni evidenza, a compiere il sacrificio in grado di emendarlo dal peccato, e quel sacrificio non è ovviamente l’aver bruciato l’Eneide (che abbiamo visto essere stata consegnata ad Augusto), ma aver sacrificato il sacrificio, cioè avere accettato, con quella passività che è in primo luogo dignitosa accettazione del destino, di rinunciare a distruggere la propria opera.

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