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Se questo è amore
Breve, brevissimo eppure intenso.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona...
Alcuni si aspetterebbero una banalizzante reciprocità, che l'amore d’oggi pretende, ma che non sempre si materializza.
L’amore, l’ossessione, il totalizzante annullarsi che trascende l’impossibile e impossibile rimane, fino all’ultimo respiro.
Il testo è scritto magistralmente in pochissime pagine che raccontano una vita fatta di pochi episodi e tanti, tantissimi giorni di oblio e disperazione.
Amore che tutto può, anche nel non realizzarsi mai, senza mai morire, andare oltre la vita per renderla vissuta assaporando fugaci sentori di euforia e di questi brevi bocconi d’esistenza, di questi leggeri respiri di passione si nutre l’esistenza di questa donna ossesso-innamorata.
Lui? Superficiale? Non è l’emblema di ogni uomo per fortuna, ma rappresenta, inconsapevolmente, “l’uomo” oggettivizzante, colui che sostituisce il piacere all’amore e fa della donna qualcosa da adulare e conquistare, lo specchio delle proprie vanità, privo di empatia, distratto.
Lei, ancora, è una donna fuori dal tempo, fuori dalle logiche che oggi noi possiamo concepire, come se fosse la metafora di un amore impossibile, di un amore non corrisposto, forse non ci sono un uomo e una donna in questa lettera, forse c’è solo uno dei tanti volti dell'amore, l’idealizzazione dell’amore stesso, l’annullarsi per amore, il sottomettersi a ciò che a molti suona inconcepibile.
Con chi ha vissuto un amore impossibile, idealizzato, farcito di fantasie e illusioni risuonerà questo testo, forse in questa chiave il racconto sa suonare la melodia migliore.
Erano anni che non scrivevo più recensioni qui, anni di buio che son diventati luce da poco, chissà se continuerò ancora o se forse questa parentesi, mossa da un impeto inconsapevole, rimarrà appunto un’appendice. Questo testo mi ha colpito, ha risuonato in me e ora mi chiedo: è questo il vero amore? Forse no, ma tant’è…. Chi può dare una definizione dell’amore?
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It's not science, it's a lovecraftian monster!
Ultimamente la mia esplorazione della bibliografia kinghiana è proseguita in modo discontinuo e randomico, con volumi scelti quasi a caso: perché trovati in vendita a poco prezzo oppure ricevuti in regalo. Per il 2026 ho intenzione di essere un po' più rigorosa, affrontando con una precisa intenzione le antologie del caro Stephen, ma nel frattempo concludo l'anno in corso con "Revival"; titolo ben poco chiacchierato, forse per la trama non proprio lineare o forse per le copertine tristi e banali che gli sono state assegnate. Devo dire che anch'io trovavo poco accattivante quella della mia copia (con quella specie di croce in CGI mal illuminata!), eppure la sinossi mi intrigava parecchio. Sinossi che però trovo giusto mettere in chiaro fin da subito è decisamente fuorviante.
Di base seguiamo una storia di formazione che copre l'intera vita del protagonista e narratore Jamie Edward Morton, in modo principalmente episodico. Con qualche eccezione marginale, le vicende raccontate si concentrano sul suo rapporto con Charles Daniel Jacobs, inizialmente introdotto come il nuovo reverendo di Harlow, la cittadina del New England in cui il bambino vive nei primi anni Sessanta. Il legame tra i due è subito forte, e permette di introdurre la passione di Jacobs per l'energia elettrica con cui si diletta a creare piccoli giochi, ma sulla quale basa anche degli studi meno innocenti. Tutto procede serenamente per qualche anno, finché un evento tragico non giunge a sconvolgere la visione del mondo dell'uomo che, persa completamente la fede religiosa, viene allontanato dai suoi concittadini. Lui e Jamie si rincontrano trent'anni dopo, quando quest'ultimo ha raggiunto un punto di non ritorno a causa della tossicodipendenza, ma il loro addio è ancora lontano.
Mi tolgo subito il dente: questa struttura a puntate non mi ha fatto impazzire. In primis, perché rende molto più difficile affezionarsi ai personaggi e farsi coinvolgere nelle loro vicende personali, ma anche per aver lasciato spesso in secondo piano il personaggio di Jacobs. Capisco la ragione dietro alla scelta di Jamie come protagonista, ma ciò porta a un numero ristretto di interazioni tra i due, così sappiamo pochissimo del percorso dell'ex reverendo e al contempo il rapporto di antagonismo tra loro non risulta così significativo, mentre tutto nella narrazione ci indica sia centrale. Verso l'epilogo il motivo per cui Jamie arriva a detestare Jacobs è palese -e condivisibile anche dal lettore-, ma prima abbiamo centinaia di pagine in cui sembra avercela con lui a torto ed esserne ossessionato più per principio che per una reale colpa dell'altro.
Oltre a rimpiangere l'assenza del POV di Jacobs, tra gli aspetti meno riusciti includo la lentezza con cui si sviluppa lo spunto principale, come anche la trama in generale. Non ho trovato l'intreccio particolarmente avvincente o capace di stupire: la direzione generale è abbastanza chiara, mentre le sottotrame collaterali hanno ben poca rilevanza e si riducono a brevi momenti di quotidianità che vengono sfruttati soprattutto per approfondire le relazioni personali del protagonista. È così che personaggi anche molto interessanti finiscono per rimanere poco più di comparse oppure relegati a brevi trafiletti per spiegare la loro uscita di scena dalla vita di Jamie.
Se non sono riuscita ad apprezzare il loro impiego nel romanzo, non posso però dire che questi caratteri siano delineati in modo superficiale o incoerente. Ancora una volta, il caro Stephen dedica molta cura all'aspetto della caratterizzazione, creando un cast di figure tridimensionali e carismatiche, che neppure la narrazione sincopata riesce a far risultare dimenticabili. Attraverso le loro interazioni, l'autore riesce a descrivere delle scene estremamente incisive sul piano emotivo, in particolare nei momenti in cui Jamie si confronta con i suoi familiari, con il suo datore di lavoro Hugh Yates, e ovviamente con la sua cosiddetta nemesi Jacobs. Proprio per questo mi spiace che le loro interazioni non siano più frequenti: quando sono in scena si percepisce con chiarezza come siano combattuti tra una spontanea simpatia e la consapevolezza di essere degli individui fallaci che risulteranno ancor più pericolosi insieme.
Per questo la prospettiva del Jamie adulto che racconta gli eventi più significativi della sua vita è a conti fatti una scelta giusta; infatti riesce a porre l'attenzione su degli elementi che al tempo presente non avrebbe considerato rilevati, motivando così la sua crescente preoccupazione verso le pratiche di Jacobs. Inoltre il suo POV è utile per includere nella narrazione una quantità di tematiche: non tutte ottengono il medesimo approfondimento, ma ritengo che King sia stato molto abile nel raccontare i sentimenti conflittuali di Jamie verso la sua famiglia, la grande passione per il mondo della musica, ma anche la prospettiva distorta nel periodo della dipendenza. Verso il finale questi aspetti cedono il passo al lato più marcatamente horror: si tratta di una svolta dalle tinte lovecraftiane, con chiarimenti quasi assenti ma degli ottimi momenti di tensione e di terrore verso l'ignoto. E seppure la risoluzione sembri un filino anticlimatica, lo considero un epilogo solido e coerente con la scrittura dei personaggi principali, perché non premia nessuno e anche chi sembra salvarsi è destinato a convivere con i propri errori.
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Discesa nel profondo
Catherine Morland pare estraniarsi dall’ eroina che dovrebbe rappresentare, esile, impacciata, bruttina, l’ incarnato giallognolo, spento, i capelli scuri, lisci, i lineamenti marcati, un temperamento che non è il più propizio al proprio destino, distratta, persino ottusa.
Eppure, dopo i quindici anni, si scopre graziosa, quasi bella, corteggiata, desiderata, amata, un tempo in cui iniziare l’ apprendistato da eroina leggendo tutto quello che le eroine devono leggere, in attesa di un amore che la sorprenda.
Il soggiorno di sei settimane a Bath in compagnia dei coniugi Allen e il successivo trasferimento all’ abbazia di Northanger, dimora dei Tilney cambieranno le carte in tavola, catapultando Catharine in un mondo inimmaginato, confrontandola con il reale, illusioni, delusioni, cattiveria, vanità, ostinazione, risolutezza, rivelandole l’ afflato per Henry Tilney, il senso di amicizia per Isabella, l’ avversione per il signor Tilder, l’ amore per il fratello James, l’ umore ondivago di Eleanor, la certezza di non valere così tanto e di essere indegna di attenzioni che non sa come ricambiare.
Catherine anticiperà tratti delle protagoniste dei romanzi a venire di Jane Austen in un testo pensato e scritto dal 1798, uscito postumo, giovani donne rinchiuse in un contesto sociale avverso, retrogrado, tradizionalista, destinate a un buon matrimonio e a una vita famigliare scarna, donne che si ribellano, intelligenti e creative, lettrici, scrittrici, sognatrici, innamorate della vita, che si costruiscono un immaginario di natura letteraria ( nel caso di Catherine storie prevalentemente gotiche ), con un carattere critico che le allontana da un destino banalmente imposto.
Le visioni della protagonista, trasferitasi nell’ abbazia di Northanger, le storie vere e presunte alimentate dalla sua fervida immaginazione finiranno, passato, presente e futuro confusi, la nostra eroina, sola e stanca, tra mille problematiche, costretta a un mesto ritorno alla propria dimora.
Eppure qualcosa in lei è cambiato per sempre, l’ educazione alla vita, il desiderio di amare, la crescita personale, il soggiorno a Northanger hanno cementato un’ unione di intenti tra storie romanzate, riflessioni, sensazioni, sentimenti.
Jane Austen, tramite la figura di Catherine, da’ voce a una dimensione privata in cui sentirsi autrice a tutti gli effetti.
Lo scorrere dei giorni ci restituisce una giovane donna piena di autoironia, innamorata dell’ amore, dei romanzi, inventrice di sogni e osservatrice acuta, che si è costruita una stanza tutta per se’, simbolica e materiale, in cui riconoscersi ( Northanger Abbey) e inventare storie, un luogo di intimità che Jane Austen non ha mai avuto .
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Alla ricerca della madre perduta
Anche se forse non possiede il respiro delle opere maggiori di Jonathan Coe (La famiglia Winshaw in primis), il romanzo si distingue per tenerezza degli affetti, profondità delle tematiche, coesione della struttura.
L’io narrante, Calista Frangopoulos, una giovane di origine greca in viaggio a Los Angeles, entra casualmente nella vita del grande regista Billy Wilder e viene da lui ingaggiata come interprete per la lavorazione di Fedora, il suo penultimo film, girato nell’isola greca di Lefkada, capolinea di un percorso artistico straordinario, le cui tappe principali erano state Viale del tramonto, Sabrina, A qualcuno piace caldo, L’appartamento, Vita privata di Sherlock Holmes.
Per Wilder sono gli anni del declino; una nuova generazione di registi avanza, tra i quali Spielberg, Scorsese, Coppola, Fassbinder: trovare un produttore che lo finanzi è diventata un’impresa. Assistiamo dunque, attraverso il racconto di Calista, alle varie fasi del film, accompagnate da citazioni, ricordi, aneddoti di straordinario interesse, frutto di una documentazione seria e laboriosa, da saggista più che da romanziere. In particolare vengono riferite le riflessioni, le battute, i giudizi a tutto campo di Wilder sul cinema contemporaneo, sui “giovani barbuti” che ormai stanno prendendo il posto della passata generazione. Per il regista austriaco è finito il tempo delle pellicole romantiche, delicate, alla Lubitsch: al loro posto sono subentrate trame basate su scene violente, su personaggi depressi che inducono depressione nello spettatore, o sui primi effetti speciali, mentre le scelte dei produttori si orientano sempre più verso il business ed è questo ormai l’unico criterio in base al quale si decide se accordare o meno finanziamenti.
L’ossessione che Wilder nutre nei confronti del film Lo squalo scatena il suo umorismo cinico e graffiante e lo induce a immaginare, tra le varie fantasie sull’argomento, un film girato a Venezia in cui un branco di pescecani assalta i gondolieri nel Canal Grande(i produttori abboccano e non capiscono che è un paradosso rivolto contro di loro…). Un giudizio che sarà completamente rinnegato e rovesciato nella parte finale, quando, in un ultimo incontro con Calista, Wilder esalterà Schindler’s List di Spielberg, lo definirà geniale e affermerà che è infinitamente migliore di quello che avrebbe saputo fare lui.
Ma non si pensi ad una biografia più o meno romanzata: Il racconto non è focalizzato esclusivamente sull’autore di Fedora, ma sul rapporto che si stabilisce tra lui e la narratrice, come lascia bene intendere, pur nella sua essenzialità, il titolo, incentrato su questa reciprocità.
Memorabile al riguardo, uno degli episodi più suggestivi, quello in cui i due protagonisti ritardano il loro arrivo sul set dove li attende l’ultima scena, quella del suicidio della finta Fedora, per visitare le fattorie intorno Parigi e godere dell’eccellente brie che viene in esse prodotto: la dolcezza del paesaggio, la bontà dei sapori, la capacità di W. di cogliere con la sua parola sapiente il senso della vita nei suoi aspetti più umani ed profondi, saranno per Calista un insegnamento imperituro e un punto fermo della memoria, destinato a riemergere nel finale. L’influenza del grande cineasta sulla donna non si esaurirà infatti nel periodo della loro frequentazione e troverà il suo culmine allorquando l’ex interprete, divenuta affermata creatrice di colonne sonore per film, rivedendo Fedora, ne apprezzerà la “profonda comprensione del dolore dei suoi personaggi: in particolare di personaggi- uomini e donne- che stanno invecchiando, che si battono per trovare un ruolo in un mondo che si interessa solo alla gioventù e alle novità”. Un film in grado di trasmettere una gioia, un calore, una chiarezza, tali da spingerla ad una decisione familiare generosa e densa d’amore, che qui non spoileriamo, ma che raccomandiamo di cogliere con attenzione. Decisione che trova l’avallo del marito, espresso con la stessa locuzione interrogativa: “Perché no?”, con cui il fedele sceneggiatore di Wilder, Iz Diamont, ne sottolineava le trovate geniali, come alcune battute finali entrate nella storia del cinema: “Nessuno è perfetto”, “Sta’ zitto e da’ le carte”. Il racconto, che era cominciato con la descrizione di una bambina che saltellava sulla scala mobile nella metropolitana di Londra, costringendo la mamma a rincorrerla continuamente, si chiude ad anello nel segno della maternità e della vita. Sono quelle relazioni che solo i grandi della scrittura sanno delicatamente disseminare nel loro textus, le corrispondenze che legano il tutto e gli conferiscono armonia e bellezza.
Non manca, come d’abitudine in Coe, la tematica storico-politica, che qui si manifesta ni continui riferimenti di Wilder alla Germania nazista e allo sterminio degli ebrei. Quando un giovane tedesco, durante una di quelle conversazioni al tavolo di un bar o di un ristorante che affollano queste pagine, tira in ballo uno studio recente che ridimensionerebbe l’Olocausto, balza fuori la potente – e rivelatrice- risposta del regista, al termine di un brillante excursus in forma drammaturgica, da film o da commedia più che da romanzo: “Conosco queste teorie che tendono a incolpare gli ebrei di aver ingigantito le cose […] Ma allora, se non c’è stato l’Olocausto, dov’è mia madre?”.
E quando, con cura ossessiva, il regista guarderà e riguarderà le bobine delle riprese effettuate dagli Alleati nei campi di concentramento o quando vedrà per la prima e unica volta Schindler’s List, il suo sentimento filiale cercherà irrazionalmente tra i cadaveri ammucchiati il volto della madre perduta, mai più ritrovata, travolta e annichilita dalla follia nazista. Commovente mescolanza tra realtà e invenzione,realtà e cinema, da parte di un gigante che a questa dialettica aveva dedicato l’esistenza.
La struttura narrativa ad anello, per cui l’ultimo capitolo si riallinea allo spazio (Londra) e al tempo (il presente) del primo, corrisponde alla crescita della protagonista, innescato da un grande del cinema di tutti i tempi. Il corpo centrale del racconto, compreso tra questi due estremi, è dunque un lungo e articolato flashback, che scandisce le fasi di un processo di formazione.
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Solitudini a confronto
«Pensavano entrambi a loro due che, senza conoscersi, si erano incontrati per miracolo nella grande città, e ora si aggrappavano l'uno all'altro con disperato ardore , come se si sentissero già pervadere dal freddo della solitudine.»
Georges Simenon è uno degli autori più versatili del panorama letterario. Lo abbiamo visto con tante opere, sia in tema di gialli con Maigret che non con “Marie la strabica” o ancora con i racconti. Ma cosa succede quando l’autore belga parla di amore? Di amore ispirato a una storia autobiografica e oltretutto scritta a caldo, cosa ben rara per il romanziere. “Tre camere a Manhattan” è uno dei testi più vividi, vibranti e potenti da lui scritti. Si ispira al rapporto sentimentale di Simenon con Denyse Ouimet, seconda moglie. Tra queste pagine emerge tutto il sentimento che li ha coinvolti, in tutte quelle che sono le fasi dell’innamoramento e anche della solitudine. Eh sì, perché i due volti che conosciamo tra queste pagine, sono due anime sole. Un uomo e una donna che si incontrano per caso in una notte come tante, una notte ove a regnare è proprio questo sentimento di isolamento.
François e Catherine, Frank e Kay, durante questa notte fredda, si incontrano in un bar. Non hanno un partner, non hanno amici, non hanno un lavoro. Ripensano al passato, a ciò che hanno e a ciò che hanno perso. Il loro è un passato ricco anche di trionfi, ma cosa è successo per giungere a quella notte? Lei è sensuale, seducente, dolce e impulsiva, lui a tratti burbero, geloso, schivo. Basta poco e decidono di trascorrere il resto della serata insieme. Eppure, quelle poche ore che dovevano rappresentare un breve incontro, diventano molto di più, diventano giornate, con camere diverse e un sentimento che cresce. L’iperbole delle tre camere si snoda tra l’albergo Lotus, la prima stanza per la prima notte, quella di Kay ove recuperano gli effetti personali di lei, e quella dell’uomo dove la vita torna a scorrere rapida non solo nell’idillio ma anche nella sua nuda e cruda realtà.
«Fino a quel momento erano rimasti al di fuori della vita, ma a un certo punto, volenti o nolenti, avrebbero dovuto rientrarvi.»
Ma cos’è alla fine l’amore? Un’esistenza solitaria che trova la sua fine nell’unione con un’altra anima? Lo specchio di due solitudini a confronto? Quanti volti, ancora, può avere l’amore? E mentre scopriamo di questi sentimenti e di queste emozioni, ecco che attraversiamo anche Manhattan, con quelle luci e quelle passeggiate tra vie e desolazione. Perché è proprio tra quelle strade che i due passeggiano in una disperazione che gli impedisce di riprendere il filo delle proprie vite. Sono esistenze dolorose che esistono e non possono essere ignorate, ma sono anche realtà dolorose e che sarebbe bello poter allontanare.
“Tre camere a Manhattan” è un flusso di coscienza, un monologo interiore, una ricca e colorata gamma di riflessioni in cui si mette a nudo l’anima, da un lato, di un uomo ferito dalla vita e riluttante al lasciarsi andare, spaventato dalla possibilità di tornare ad amare tanto da lasciarsi andare a lati più meschini quali la gelosia, la retrospettiva, la debolezza carnale, il tradimento, anche un po’ di maschilismo (da contestualizzare all’epoca), e dall’altro abbiamo il volto di una donna che è fragile e forte al contempo.
«Forse era arrivato il momento di parlarle di sé...Combe lo sperava e al tempo stesso lo temeva. Che cosa sarebbe successo, che ne sarebbe stato di loro quando si fossero finalmente decisi a guardare in faccia le rispettive realtà? Fino a quel momento erano rimasti al di fuori della vita, ma a un certo punto, volenti o nolenti, avrebbero dovuto rientrarvi.»
L’amore, sembra dirci Simenon, ha tanti volti e tante sfaccettature, è lo specchio di tante verità, ma non nasce, si riconosce. Ci si innamora all’improvviso, ci si rispecchia e riconosce nell’altro con una familiarità che stupisce, riempie ed anche consola. Ecco perché alle volte è anche così difficile parlare di noi, del nostro passato con chi amiamo, perché temiamo, forse implicitamente, che non sappia accettare e far propria quella vulnerabilità che mostriamo e che riconosciamo in lui/lei.
«Domani non sarebbero più stati soli, non sarebbero mai più stati soli, e quando lei all’improvviso ebbe un brivido, quando lui sentì, quasi contemporaneamente, una punta dell’antica angoscia ridestarsi e stringergli la gola, entrambi capirono di aver gettato nello stesso istante, senza volerlo, un ultimo sguardo sulla solitudine in cui erano vissuti fino ad allora.»
Lo stile narrativo è pungente, scarno, diretto. I dialoghi conducono, lasciano intuire e permettono al lettore di immedesimarsi nel testo. A tratti può sembrare un poco più lento o ripetitivo rispetto ad altri scritti, ma tutto ha un suo perché, anche in questo caso.
“Tre camere a Manhattan” entra nel profondo dell’animo umano, scava nella solitudine che ciascuno si porta dentro e al contempo scava nell’amore, nel sentimento. Il risultato è un testo emozionale, evocativo, empatico che racchiude dentro sé anche tinte di malinconia e tristezza per quell’abisso che mai viene celato e che forse, non può mai davvero essere nemmeno riempito.
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QUANTE PERSONE POSSIAMO ESSERE?
Sophie, protagonista del romanzo "L'Abito da Sposo" viene subito presentata come una persona disturbata. Ha trent'anni, fa la baby sitter, non ha una vita privata, è mentalmente instabile e dimentica spesso le cose, come se in lei vivesse un'altra persona che compie azioni nei momenti in cui non ricorda. Il suo passato, pieno di tristi avvenimenti, spesso ritorna nei suo presente sotto forma di incubi e ricordi vaghi. Una mattina, dopo essere rimasta a dormire nella casa presso cui lavora, trova il bambino che sta accudendo morto. La porta è chiusa dall'interno, in casa ci sono solo loro due....chi può aver ucciso Leo, se non lei? Ma Sophie non ricorda nulla e in preda al panico di essere la principale indiziato, scappa ...una fuga frenetica alla ricerca di una nuova identità...
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L'inizio di questo romanzo è davvero una suspense continua: si entra subito nel vivo della vicenda ed è come se mi fossi trovata a scappare con Sophie condividendo ansia, paura e insicurezza, interrogativi ..come ho potuto uccidere un bambino??
Poi, nella seconda parte del romanzo arriva Frantz, un personaggio davvero particolare a cui ho pensato subito come ad uno stalker, soprattutto dal modo di raccontare la sua storia sotto forma di diario...
"L'Abito da Sposo" è un romanzo thriller noir di grande coinvolgimento, ti porta dentro la storia e si finisce per esserne completamente assorbiti. Ogni tanto si sobbalza, perché l'autore è davvero bravo ad inserire colpi di scena che non ti aspetti...occorre tornare indietro per comprenderli e nonostante tutto, si sobbalza nuovamente!
Chapeau!!
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Il Romanzo Storico per eccellenza.
Primo volume di una serie di libri intitolata "I Re Maledetti", da cui é tratta una serie TV italo-francese del 2005 che pare prodotto della TV di 10 anni prima, il libro romanza le vicende della monarchia francese all'inizio del XIV° Secolo, poco prima della famosa Guerra dei Cento Anni, sotto il regno del re Filippo IV detto il Bello, e combina abilmente persone esistite e reali avvenimenti storici, come il Processo ai Templari e lo scandalo della Torre di Nesle, con personaggi fittizi che partecipano e sono influenzati dagli avvenimenti storici. É proprio il processo per eresia, mosso da Filippo il Bello e dai suoi dignitari per impossessarsi dei loro beni, ai famosi Cavalieri, e la presunta maledizione lanciata dal Gran Maestro Jaques de Molay sul rogo, a dare lo spunto per raccontare le vicende della monarchia francese e le contese per impossessarsi del potere e per prevalere nell'ambito della corte e della politica. L'autore, letterato dell'Accademia di Francia, riesce a creare una narrazione che, pur essendo molto precisa e puntuale nelle descrizioni sia dei luoghi che degli usi e costumi del tempo, non diventa mai pesante o forzata, cosí come riesce a presentarci via via i personaggi e le loro motivazioni nella storia rendendoli reali e complessi, ogniuno mosso da passioni e ambizioni umane e con lati positivi e difetti che li rendono unici. Essendo una serie di diversi romanzi (credo sette) il volume é relativamente breve, soprattutto per chi preferisce libri più corposi, ma si legge con piacere, dosando in giusta misura accuratezza storica, costruzione dei personaggi e fantasia letteraria, senza diventare mai pesante anche quando tratta dinamiche di politica, ne stucchevole quando parla di sentimenti. Questo é il segreto per un romanzo storico fatto bene, esattamente come un piatto fatto bene ti lascia col desiderio di mangiarlo di nuovo, questo libro ti lascia col desiderio di leggere il seguito. Non si può chiedere di meglio.
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L'inferno in un vicolo londinese
Non mi ritengo una lettrice particolarmente attenta alla stagionalità dei titoli scelti: non aspetto l'estate per gustarmi un giallo da ombrellone, oppure il giorno di San Valentino per affrontare un romance tenerello. Eppure questa volta ho azzeccato la lettura perfetta per la spooky season, seppur involontariamente! "I custodi di Slade House" è infatti una narrazione horror, con qualche tocco di paranormale e di thriller, del tutto in linea con la stagione autunnale. Come non bastasse, in modo del tutto casuale ho iniziato questo libro l'ultimo sabato di ottobre, una data fondamentale nella storia stessa. Di certo è stata una semplice coincidenza, eppure voglio sperare che gli spiriti della letteratura mi stiano promettendo un futuro libroso migliore.
Ma cosa succede l'ultimo sabato di ottobre? in questa data, ogni nove anni, a Slade House si tiene un Open Day. Questa residenza storica non è però la sede di una scuola d'elite, bensì un non-luogo abitato da maligne presenze, che ciclicamente attirano a sé delle persone accuratamente selezionate per la qualità delle loro anime in modo da poterle divorare. Il volume è diviso nei punti di vista delle diverse vittime che si alternano dal 1979 fino al presente: vediamo ragazzini problematici, poliziotti sgradevoli, studentesse insicure e non solo finire preda di scenari illusori complessi e crudeli. Con il passare del tempo questa procedura inizia però a mostrare i propri limiti, lasciando presagire un possibile arresto del progetto delittuoso messo in atto dalle entità che infestano questo angusto vicolo londinese.
Come si potrà intuire, la suggestione indotta dal contesto è un tratto fondamentale nella narrazione, e riesce infatti a dare l'avvio a un continuo crescendo di tensione. Seppur l'intreccio risulti in parte ripetitivo, l'autore ha saputo includere delle leggere variazioni tra i POV in modo da ottenere un risultato intrigante se non proprio stupefacente. Il tutto poggia inoltre su un concept estremamente affascinante, che il caro David sfrutta per introdurre degli ottimi spunti di riflessione: questo romanzo non si accontenta di catturare il lettore con una bella ambientazione -come le prede di Slade House vengono arpionate dalle sue illusioni-, ma introduce concetti e simbologie legate alla mortalità dell'essere umano per nulla banali.
Che Mitchell fosse un talentuoso narratore avevo già avuto una prova con "Cloud Atlas. L'atlante delle nuvole", e qui la passata impressione mi è stata confermata in toto. La prosa è coinvolgente e brillante, riuscendo sia a delineare dei contesti storici (seppur relativi a un passato non troppo distante) credibili e riconoscibili, sia ad assegnare delle voci uniche ai diversi protagonisti; non capita mai di trovare un carattere anonimo o discontinuo, perché tutti hanno una personalità ben definita e adottano un lessico distintivo. Pur non trattandosi propriamente di un mystery, ho apprezzato molto anche le svolte di trama: non impossibili da azzeccare ma alquanto ben studiate, specie per rimanere coerenti all'interno del sistema magico scelto.
Oltre alla ridondanza della struttura, le mie critiche verso questo titolo sono davvero delle minuzie soggettive. Per quanto riguarda il cast, pur avendo amato i protagonisti, non posso dire che i villain mi abbiano convinta altrettanto, forse perché in confronto risultano poco carismatici e approfonditi. In realtà, la loro storia viene illustrata con dovizia di particolari, però in un formato didascalico e impersonale. Ad avermi lasciata veramente in bilico sulla valutazione è stato però il finale: non ho che plausi per la conclusione scelta da Mitchell, ma la corposa presenza di riferimenti pseudo-esoterici e l'abbondante ricorso al name dropping mi hanno in più punti distratta dal ciclone di tensione che si andava costruendo. Staremo a vedere se nonostante tutto questa storia mi rimarrà nel cuore in futuro o se questi nèi finiranno per far sfumare il mio entusiasmo attuale.
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E’ possibile avere due qualità contemporaneamente.
È una di quelle letture che girando l'ultima pagina mi si stringe il cuore, sento già una mancanza, mi scivola una lacrima, e poi un’altra, la storia letta non mi sembra più solo frutto di fantasia.
Sottotitolo del libro è, per me, "Io sono molto Camelia sul muschio".
Renée è la Camelia, una bellezza elegante e raffinata e tuttavia nascosta, sembra debole ma resta aggrappata.
Definirlo narrativa sarebbe riduttivo, c'è una storia, un inizio e una fine, personaggi ben raccontati, ci emoziona ciò che accade, ma il punto focale sono le elucubrazioni mentali di Renée e Paloma prima, di Kakuro poi, un rivelatore di personalità.
Deliziosi i continui richiami alla letteratura, alle metafore, alla poesia, all'arte in genere.
La riflessione su me stessa e su come sono nel mondo.
Come sono io agli occhi di chi mi guarda, agli occhi di chi mi conosce, e agli occhi di chi pensa di conoscermi. Chi mi guarda cosa vede?
E come sono io per me stessa? Riesco a venir fuori per come in realtà vorrei?
Il romanzo è questo è tanto altro ancora.
Pubblicato in Francia nel 2006 da Muriel Barbery, grazie al passaparola è diventato un fenomeno editoriale scalando le classifiche e vincendo tantissimi premi.
In Italia è stato pubblicato nel 2008.
Renée è un' antipatica portinaia di 54 anni di un elegante condominio al numero 7 di rue de Grenelle.
Divide il suo appartamento con il gatto Lev.
Antipatica, sciatta, scorbutica, ignorante. Schiava della grammatica. Concentrata a tutelare la sua “clandestinità.” Cammina trascinando i piedi. Quante contraddizioni!
L'incipit strappa subito un sorriso e una commozione: una portinaia che cita "L'ideologia tedesca", "Morte a Venezia", "Alla ricerca del tempo perduto", “Anna Karenina”…
"Sono un tradimento costante del mio archetipo."
Perché mi sorprende? I pregiudizi millenari. L’apparenza. Le consuetudini.
Nata in una famiglia contadina dove i genitori non si rivolgevano quasi mai a lei, fino a 5 anni è come inesistente, poi a scuola sente pronunciare il suo nome dalla maestra ed è come rinascere, come se si presentasse a se stessa. Inizia a vedere cosa c'è intorno.
"La coscienza per manifestarsi ha bisogno di un nome."
Le interazioni sociali le sono escluse a causa della sua condizione sociale ma i libri no, dice "imparai a leggere all'insaputa di tutti...curandomi di dissimulare il piacere e l'interesse che ne traevo."
“Lessi come una forsennata.”
Paloma, dodici anni, ricca e intelligente. È un binomio troppo stridente.
Disillusa.
"La gente crede di inseguire le stelle e finisce come un pesce rosso in una boccia": metafora potentissima di come si gira a vuoto su sé stessi, di come sogni, impegno, aspirazioni vengano schiacciati dal conformismo, dai condizionamenti psicologici e sociali, dalla stupidità, dall'immobilismo, dall’appiattimento.
Lei in questa boccia non vuole finirci e quindi ha un piano: si suiciderà al compimento dei tredici anni.
"Ho scoperto Ozu, e per la prima volta in vita mia l'Arte cinematografica mi ha fatto ridere e piangere, com'è è tipico del divertimento vero e proprio."
"La vera novità è ciò che non invecchia nonostante lo scorrere del tempo.
La camelia sul muschio del tempio, il violetto dei Monti di Kyoto, una tazza di porcellana blu, questo dischiudersi della bellezza pura nel cuore delle passioni effimere non è ciò a cui aspiriamo tutti? E che noi, Civiltà occidentali, non sappiamo raggiungere?"
E’ un attimo di poesia che viene a interrompere la routine del luogo in cui mi trovo e mi trasporta.
È l'armonia, l'essenzialità delle piccole cose: la bellezza della camelia, i paesaggi giapponesi, gli oggetti semplici ma così evocativi.
Questa bellezza effimera riesco a coglierla nella mia quotidianità?
Madame Rosen dice: "Può provvedervici lei?"
È un attimo ma Renée sussulta e incrocia lo sguardo di Monsieur Qualcosa . “Siamo fratelli di lingua.”
"Si, una famiglia felice dice madame Rosen.
"Vede, tutte le famiglie felici sono simili fra loro"
"Ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo."
"Io ho due gatti, il suo come si chiama?”
Essere in un attimo nello stesso momento, nella stessa idea di bellezza, sentire esattamente come sente l’altro, le percezioni combaciano.
Da lontano è proprio una portinaia, da vicino....
Trasuda intelligenza.
Madame Michel ha l'eleganza del riccio.
Ho dei sospetti su di lei.
Ho intravisto un libro delle edizioni Vrin, studi filosofici.
Sospetto sia una erudita principessa clandestina.
Monsieur Ozu che cerca le persone, che ti parla davvero, si rivolge proprio a te.
La maggior parte delle persone è concentrata su sé stessa.
Lui no. Lui senti che c'è. lui sente che ci sei.
“Come si chiamano i gatti di Monsieur Ozu?
Kitty e Levin”.
“Sono stata mascherata”.
“Un invito a cena per parlare dei gusti comuni.
Ma sono la portinaia.
È possibile avere due qualità contemporaneamente."
Esiste dichiarazione d'amore più meravigliosa?
"Il mio sguardo si imbatte in qualcosa.
Lo splendore dell'Arte.
Una natura morta.
È indubbiamente un Pieter Claesz.
Faccio per dire qualcosa come: è molto grazioso che sta all'Arte come provvedervici sta alla bellezza della lingua...mi accingo a rientrare nel ruolo di custode ottusa...e invece dico: com'è bello."
Possiamo avere nel mondo più di una persona con la quale condividere cuore e mente, passioni e tempo libero. Manuela è la sua migliore amica e anche molto altro, ma Renée chiacchiera con Monsieur Ozu come se si conoscessero da sempre: essere perfettamente a proprio agio significa anche intingere nello stesso piatto. Sente di poterlo fare davvero con lui. Naturalmente, senza imbarazzo. E lo fa, quando escono a cena. Cosa c’è di più intimo?
Riuscire a cogliere, insieme, la stessa poesia, lo stesso attimo fugace di bellezza. Capire che al mondo possiamo avere più amori senza tuttavia commettere tradimento. Emozioni condivisibili perché c'è chi le sente altrettanto. Essere nella stessa vibrazione.
Paloma e Renée che si palesano reciprocamente senza la volontarietà di farlo. Il sentirsi compresi che torna e ritorna.
Ozu che le dice "è perché non l'hanno mai vista. Io la riconoscerei sempre e comunque."
Sperimentare, il significato infinito, nella disperazione e nell'incanto, di "mai più". Sentirne il dolore e lo strazio o la liberazione. Accade anche questo.
"Attraversando il cortile ci siamo fermati di colpo tutti e due nello stesso istante: qualcuno si era messo al piano e sentivamo benissimo quello che stava suonando.
Abbiamo respirato lungamente, lasciando che il sole scaldasse i nostri visi e ascoltando la musica che giungeva da lassù.
Penso che Renée avrebbe apprezzato questo momento, ha detto Kakuro.
È come se le note musicali creassero una specie di parentesi temporale, una sospensione, un altrove in questo luogo, un sempre nel mai.
D'ora in poi, per te, andrò alla ricerca dei sempre nel mai.
La bellezza qui, in questo mondo."
Buone prossime letture.
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Conflitti!
Incuriosito dal crescente successo che la pone tra le voci più influenti della narrativa contemporanea, in particolare tra le giovani generazioni, ho letto Intermezzo, edito lo scorso anno da Einaudi. Con la consueta maestria, l’autrice riprende alcune delle tematiche a lei più care: l’incomunicabilità, l’individualismo, la difficoltà di costruire relazioni autentiche, l’ansia da prestazione sociale ed emotiva, e la solitudine che accompagna molte vite contemporanee, soprattutto giovanili (ma non solo).
Il romanzo, incentrato principalmente sul rapporto tra due fratelli, intreccia il loro passato con le relazioni che, nel presente, entrambi vivono su binari paralleli.
Peter e Ivan, figli di una coppia separata, sono cresciuti con il padre e il cane Alexei, dopo che la madre li ha abbandonati anni prima per ricostruirsi una nuova famiglia con un uomo che aveva già altri figli. Molto legati fino a un certo punto della loro vita, i due fratelli si sono progressivamente allontanati, fino a perdere quasi ogni contatto, arrivando persino a scontrarsi fisicamente durante uno dei loro rari incontri. Li separano dodici anni di differenza: Peter, il maggiore, è un brillante avvocato progressista, ricco, di successo, ma immerso in una vita disordinata tra alcol, tranquillanti e relazioni occasionali. Mantiene un legame complesso con Silvya, l’amore della sua vita, dalla quale si è separato alla vigilia del matrimonio per volontà di lei, dopo un grave incidente. Contemporaneamente porta avanti una relazione libera con Naomi, una ragazza molto più giovane.
Ivan, il fratello minore, è un genio della matematica e della logica, una promessa negli scacchi, ma ha serie difficoltà relazionali che lo fanno apparire quasi autistico. Proprio l’incidente che ha coinvolto Silvya ha segnato non solo la fine del sogno di convivenza con Peter, ma anche un allontanamento profondo tra i due fratelli.
Durante una simultanea di scacchi in un piccolo paese, Ivan conosce Margaret e, nonostante la notevole differenza di età, tra loro nasce una relazione che va ben oltre l’attrazione fisica, diventando un legame profondo.
Nel frattempo, Naomi, ospite a casa di Peter, si trasferisce nella vecchia casa di famiglia, rimasta vuota dopo la morte del padre. Per una serie di coincidenze, anche Ivan si stabilisce lì, riprendendo con sé l’amato Alexei, e si trova così inaspettatamente a convivere con l’amante del fratello. Scoprire che Naomi è quasi sua coetanea acuisce ulteriormente il rancore di Ivan verso Peter, che in passato gli aveva esplicitamente contestato la relazione con Margaret, proprio a causa della differenza di età – quella che lui stesso ignora nel suo rapporto con Naomi.
Uno dei punti di forza del romanzo è certamente la capacità dell'autrice di tratteggiare con precisione emotiva le problematiche esistenziali dei suoi personaggi. I loro dubbi, fragilità e desideri emergono in modo credibile, talvolta doloroso, dando vita a figure realistiche e complesse. Rooney dimostra una notevole sintonia con i comportamenti, i sentimenti e il linguaggio della sua generazione, riuscendo a tradurli in storie che parlano a un pubblico ampio, con una narrazione coinvolgente.
Ciò che sorprende, però – e lascia in parte perplessi – è l’evoluzione finale della vicenda, che si orienta verso un lieto fine poco realistico. Dopo aver costruito un intreccio fatto di conflitti, disorientamento e sofferenza relazionale, Rooney sceglie una chiusura conciliante e ottimista, in cui tutti i nodi sembrano sciogliersi: i fratelli Peter e Ivan si riavvicinano; Peter riesce a bilanciare, alla luce del sole e senza inganni, due relazioni sentimentali con Naomi e Silvya, in una sorta di “bigamia affettiva” condivisa e consapevole da tutte le parti coinvolte; Naomi, che per tutto il romanzo appare libera e indipendente, pronta a vivere ai margini in nome della propria autonomia, abbandona il suo nomadismo esistenziale per scegliere la convivenza; Ivan supera il proprio isolamento grazie all’amore di Margaret, che a sua volta rompe con il conformismo sociale del suo ambiente, smettendo di sacrificare sé stessa per non “far del male” alla famiglia e all’ex marito. Perfino il cane Alexei ritrova serenità tornando a vivere con Ivan, anche se sembra avvertire la mancanza del defunto padre dei due fratelli.
Questo finale armonico appare in contrasto con la complessità dei problemi affrontati nel romanzo, e rischia di risultare poco credibile. La sensazione è quella di una riconciliazione universale a tratti forzata. La realtà raramente offre epiloghi così ordinati.
Proprio perché Rooney ha un impatto così forte sulle giovani generazioni, forse sarebbe stato più onesto lasciare spazio a qualche dubbio in più, a margini di ambiguità più ampi, evitando una conclusione rassicurante, più tipica di altri generi narrativi. La vita reale, infatti, è fatta di ferite che non si rimarginano facilmente, e di legami che si trasformano senza necessariamente ritrovare l’armonia del passato.
Nonostante il finale edulcorato, Intermezzo resta un’opera coinvolgente, particolarmente potente nella sua prima parte. È in grado di parlare alle ansie, ai dubbi e alle speranze di chi si affaccia (o si ri-affaccia) alla vita adulta, offrendo una rappresentazione efficace delle difficoltà che il suo pubblico più giovane si troverà ad affrontare nel cammino verso la maturità. Proprio per questo, il finale accomodante lascia perplessi: se l’intento dell’autrice era quello di offrire un messaggio di speranza, il rischio è quello di celare una parte della verità – quella stessa verità che la vita reale, prima o poi, finisce per rivelare lungo il percorso di crescita di ciascuno.
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Cambiare binario
Per una volta siamo fuori dai confini ristretti del romanzo autobiografico e familiare in cui si crogiolano le nostre patrie lettere e la pigrizia dei lettori.
Cesco Magetti, consumatore instancabile dell’idrolitina e tormentato da un mal di denti non curato per la fobia dei dentisti, nonché soldato della Guardia ferroviaria di Asti durante la Repubblica di Salò, riceve un incarico da cui potrebbe dipendere l’esito della seconda guerra mondiale: la ricerca di un libro (ancora un libro, dopo Eco e Calvino) contenente la mappa delle ferrovie messicane, in grado di condurre ad una cittadina dove sarebbe nascosta un’arma risolutiva e fatale (riflesso sarcastico di una delle ossessioni hitleriane, rimasta tale per buona sorte del mondo). L’ordine pare sia partito dai più alti comandi tedeschi e forse dallo stesso Führer. La sproporzione tra la missione e colui che è chiamato a compierla è di tutta evidenza e ci immette subito nel regno della parodia e dell’intertestualità (inserimento e/o citazione all'interno di un’opera di altri testi) : la “quest”, cioè la ricerca da parte dei cavalieri medievali, e segnatamente di Parsifal, del Santo Graal, assume un carattere comico, talora grottesco, e come accade di frequente nel romanzo postmoderno, la storia non viene ignorata, ma viene colta in un suo filone inusuale o deformata, magari “abbassata”, in modo che protagonisti e vicende assumano le maschere quotidiane del ridicolo e dell’inadeguatezza.
L’interazione del romanzo con personaggi e generi letterari diversi non si ferma certamente qui, ma è disseminata nell'intero romanzo, fino a diventarne elemento costitutivo. Se ne citano qui solo alcuni esempi tra i tantissimi: la cerimonia alla quale partecipa Hitler in uno dei primi capitoli, con Eva Braun che lo corregge e lo esorta a non adoperare il termine straniero “outfit”, ricalca per stile, incedere ripetitivo del linguaggio, paradosso, una farsa di Ionesco; la tipica atmosfera kafkiana che investe e stritola l’uomo con la sua burocratica insensatezza, riecheggia nel capitolo segnato dal procedimento disciplinare ai danni di Bardolf Graz, il primo ad aver avuto tra le mani il libro misterioso; esplicito, infine, il riferimento ad un celebre racconto di Borges, “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, che avrà una funzione attiva in una delle tante storie contenute nel romanzo.
Ci fermiamo qui, ma “Ferrovie” è una miniera di citazioni, allusioni, rimandi e forse cade opportuno a questo punto l’invito del critico Marco Drago, nella postfazione, a non restare vittime di questo gioco letterario astuto e a non lasciarsi irretire dai continui riferimenti, alcuni veri, reali, altri frutto di invenzione, da questo continuo “ confondere le carte equiparando verità e fantasia senza dare appigli al lettore” (Guido Almansi). L’universo di internet a volte può chiarire, ma spesso può divenire un pozzo senza fondo nel quale è facile perdersi.
Certo è che la digressione è una componente essenziale del gioco narrativo di Griffi, con questo scaturire di nuovi racconti dai precedenti, che dà a volte l’impressione di un espandersi all’infinito, come se la narrazione potesse non aver mai fine.
A ciò corrisponde il continuo variare della voce narrante, fino al punto estremo di quei capitoli in cui lo stesso personaggio ora viene raccontato da un narratore esterno, ora prende la parola e continua il discorso in prima persona. In questo modo la verità si frantuma in un gioco di specchi e di punti di vista, e viene meno ogni ancoraggio sicuro per il lettore.
Anche i registri della lingua variano di continuo, con una dominanza del lirico e dell’ironico, l’uno complementare all’altro. L’umorismo, in questo caso macabro, tocca vertici impagabili nell'episodio della partita di golf, nel quale alti ufficiali tedeschi discutono su come proseguire il gioco dopo che la pallina si è fermata sul cadavere di un soldato.
La lingua svaria da un italiano denso di aggettivazione e di scelte lessicale raffinate all’uso dei dialetti (il piemontese, il romanesco, il sardo logudorese), dai forestierismi, specie germanici, ai quali non è estranea una connotazione ironica, fino all'impiego di gerghi specialistici come lo zerga malavitoso.
Sotto il gioco postmoderno si colgono istanze umane di grande respiro, come il rifiuto del nazifascismo, attraverso la sottolineatura delle sue violenze, insensatezze, disumanità, dell’antimilitarismo e qualche riferimento ancor più attuale, come la pratica devastante dell’elettroshock cui viene sottoposta Tilde e l’implicito sostegno alla causa dell’eutanasia, invocata inutilmente dalla povera vittima.
Cesco è chiamato a prenderne coscienza. Forse anche il suo mal di denti ne uscirà sconfitto, senza l’aiuto degli odiati dentisti e dell’aborrito trapano. Dalla realtà che vive di persona o da quella in cui si rispecchia attraverso gli infiniti racconti del mondo, potrebbe emergere un uomo nuovo e migliore.
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La ragantela della paura
Thriller dal battito serrato, che unisce l’azione cinematografica alla ferita interiore dei protagonisti. Siamo nella California meridionale, dove una serie di aggressioni e omicidi appare priva di logica, fino a quando appaiono i primi indizi, tatuaggi, cifre digitali, un piano più ampio ed inquietante che trascende la semplice vendetta. Al centro del romanzo troviamo Carmen Sanchez, agente federale ligia al dovere, mossa dall’amore per la sorella ferita, e Jake Heron, esperto di sicurezza privata ed hacker geniale, con passato e metodo che sfidano le regole. Il loro incontro è teso, all’inizio ostile, poi necessario: una coppia “improbabile”, ma forse sono proprio le differenze a renderli efficaci. La componente investigativa corre sul doppio binario della scena del crimine e del mondo digitale: l’autore (Deaver) e la poliziotta-scrittrice (Maldonado) intrecciano procedure, sorveglianza, intrusioni, alleanze, indifferenze, concetti che emergono come protagonisti stessi della vicenda. Il ritmo è vertiginoso: la trama si consuma in tempo limitato, con un crescendo che spinge verso una partita a scacchi mortale tra i protagonisti e il “ragno” che tesse la ragnatela del crimine. L’azione convulsa a volte lascia un po' troppo poco spazio alla costruzione di profondità emotiva: i momenti dedicati ai sentimenti ed ai legami personali funzionano, ma sembrano secondari rispetto all’urgenza della caccia. In questo senso, il romanzo accende la suspense più che l’empatia. Dal punto di vista stilistico, si apprezza la fusione tra la concretezza delle procedure investigative e la tensione psicologica, perché gli interrogatori sono come una danza. Il lettore è coinvolto, resta incollato, ma a volte accusa anche la troppa rapidità delle rivelazioni, i colpi di scena attesi, qualche personaggio che manca di spessore. Questi piccoli limiti non scalfiscono la forza della narrazione, che conquista per ritmo ed ampiezza, lasciando il messaggio della negatività dell’invidia, dei modi di espressione moderni dell’odio (gli haters e i leoni da tastiera), i turbamenti psichiatrici dei tempi di oggi. Indubbiamente è un thriller ad alta tensione, capace di mettere in scena il pericolo reale e la sfida tecnologica dei nostri tempi. E’ un romanzo che non lascia respiro e che ci ricorda come, nell’era digitale, la paura e la colpa cambiano forma, diventano invisibili, ma restano letali. E’ una storia moderna che guarda alle ombre che affollano le nostre città e ai legami che proviamo a mantenere quando tutto precipita.
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DALLA FELICITÀ ALLA CONSAPEVOLEZZA
Un libro molto leggibile, ogni capitolo lascia un forte desiderio di conoscere cosa accadrà, provocando nel lettore una seppur tenue ansia da thriller. Brava a Clara Sanchez, ha capito come prendere il lettore e motivarlo nel desiderio. Il tema è interessante e attuale: una modella in pieno successo e felice, ma che ignora i risvolti, le emozioni, i momenti difficili della vita. É un romanzo di “crescita”; dall’ingenuità di di una “vie en rose”, alla realtà di una vita reale con incidenti, fallimenti, infedeltà, genitori legati per denaro, perdita dei figli ecc. La protagonista, picchiando la testa a destra e sinistra alla fine, arriva a vivere con i piedi per terra, consapevole della vita nei sui lati bianchi, grigi e neri. Scritto bene, ma poco introspettivo, intrigante, emotivo. Rimane un romanzo “liala” anche se piacevole, il tema è stato affrontato con cronaca, invece che con interiorità. Esiste oggi una interiorità ? Forse no, quindi è stato fatto di proposito per confezionare un libro che “vesta” attuale e, di conseguenza, campione di premi e di incassi ? Non lo so, ma scordiamoci un pensiero intimo profondo, un riferimento a in ideale di vita, ormai il mondo vive così. Tristezza si, ma anche forte speranza.
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Goodreads 1 : Mondadori -2
Detto e fatto: non ho lasciato passare neppure un mese dalla lettura dell'ultimo romanzo ambientato nell'universo narrativo di Terramare per fiondarmi sulla raccolta "Leggende di Terramare" e poter così mettere la parola fine a questa soporifera saga. Una conclusione che non rispetta l'ordine di lettura originale (sì, avrei dovuto tenere per ultimo "I venti di Terramare", ma per questa scelta infelice scaricherò integralmente il barile su Mondadori!) eppure mi libera non di meno da un impegno libroso che ho avuto la sciagurata idea di voler portare a termine entro l'anno. E sono pronta a scommettere che la prosa un po' chirurgica e un po' delirante della cara Ursula sia in parte responsabile del mio netto peggioramento a livello di libri letti, e soprattutto di libri apprezzati.
Prima che incolpi questa serie pure del maltempo, passiamo al contenuto effettivo del volume. Si tratta di cinque racconti presentati in ordine cronologico ma ben poco omogenei a livello di lunghezza -alcuni sembrano quasi delle novelle o dei romanzi brevi-, e di un'appendice parecchio sostanziosa nella quale l'autrice si concentra sulle peculiarità geografiche, sociologiche e storiche del mondo da lei creato. Tutto questo viene preceduto da una prefazione dal tono fortemente supercazzoloso, dove una retorica infantile dovrebbe convincere il lettore che le contraddizioni presenti nella serie non sono dovute all'incapacità dell'autrice di mantenere fede a quanto scritto in precedenza bensì alla reale esistenza di Terramare, un mondo dove Le Guin accede in veste di umile cronista, del tutto titolata quindi a commettere piccoli errori e grosse incoerenze.
Ambientata trecento anni prima della storia di Ged (oppure quattrocento, oppure più di seicento, a seconda di cosa passa per la testa all'autrice), la narrazione di partenza è decisamente la più corposa e mira a raccontare le origini della scuola di magia sull'isola di Roke e delle sue tradizioni, salvo la più importante: dovremo aspettare l'ultima pagina delle appendici per sapere come questo organismo si sia trasformato da comune hippy basata sulla condivisione e l'inclusione, a simil-convento di clausura per soli uomini celibi. Ne "Il trovatore", la prospettiva principale è quella di Medra (più una carrellata di altri nomi, come sempre), umile costruttore di navi di Havnor che scopre una grande predisposizione per l'arte magica, attitudine grazie alla quale viaggia per tutto il Terramare fino ad approdare a Roke, dove già vive un nutrito gruppo di streghe e stregoni; il suo desiderio di condividere le conoscenze magiche però è tale che riprende il mare per radunare altri "dotati" e recuperare libri antichi. La sua iniziativa attira purtroppo l'attenzione dell'ambizioso mago Early, mettendo a repentaglio il futuro della loro comunità.
In questo racconto mi sento di poter salvare soltanto il personaggio di Segugio, ovvero un raro carattere leguinano fornito di buon senso e di un percorso credibile e propositivo; in confronto Medra è un protagonista scialbo, privo di legami solidi o costruiti con cura. Non mancano poi le contraddizioni rispetto agli altri capitoli della serie, le svolte di trama basate sul mero caso e delle risoluzioni fin troppo rapide e semplici, che privano il testo di ogni genere di tensione narrativa. La prosa estremamente riassuntiva della cara Ursula qui si accorda meglio al formato rispetto ai romanzi, ma rimane sempre parecchio frustrante: è quasi faticoso seguire gli eventi perché mancano dei passaggi fondamentali, come nel caso della ricerca del Libro dei Nomi, iniziata e conclusa da Medra senza condividere con i lettori alcunché sull'importanza di questo testo.
Non indicato nell'indice e privo di un qualsiasi tipo di intestazione (almeno nella mia edizione), "Rosascura e Diamante" è invece una storia sentimentale tra il figlio di un ricco mercante di Havnor e l'umile figlia della strega locale. La loro romance viene in teoria ostacolata dal severo padre di lui -contrario anche al sogno del figlio di diventare musicista-, ma a conti fatti il loro unico problema è la ben meno intrigante mancanza di comunicazione, oltre alla visione tubulare di lui che per ragioni mistiche si convince di non poter avere una famiglia o coltivare un hobby senza trascurare tragicamente il lavoro.
Cronologicamente ci spostiamo di parecchi decenni in avanti, anche se nulla nella realtà terramarina sembra minimamente cambiato: tradizioni, economia, e struttura sociale qui sono imperturbabili al passare del tempo. Come avrete intuito, Diama e Rosa non mi hanno fatta impazzire come personaggi, con lui privo di spina dorsale e pure un po' tossico, e lei che sembra avere quasi dell'amor proprio per poi capitolare in due righe così da arrivare al lieto fine. Come se non bastasse, questo racconto non fornisce alcuna informazione in più, ruota attorno a dinamiche già viste, e riguarda personaggi irrilevanti per il resto della serie.
Per fortuna questo non è vero per "Le ossa della Terra", il racconto più breve e vicino agli eventi dei romanzi, tanto che Nemmerle è già diventato l'Arcimago di Roke. L'episodio centrale in questo caso è il terremoto di Gont accennato dalla zia di Ged ne "Il mago", in teoria bloccato da Ogion, impresa alla quale deve gran parte della sua fama; la prospettiva del suo maestro Dulse racconta qui una versione leggermente diversa, concentrandosi anche sulla formazione di Ogion e sui diversi tipi di magia. Ergo, nuove informazioni con pochissimi chiarimenti e nuove contraddizioni rispetto a quanto detto in precedenza: ormai le incoerenze sembrano essere diventate la regola.
In questo caso trovo che il formato stringato funzioni abbastanza bene, anche perché la vita di Dulse non è tanto interessante da meritare ulteriori spiegazioni; sono inoltre presenti dei piccoli easter eggs legati al carattere e alle abitudini di Ogion. Il rapporto tra i due viene appena accennato eppure risulta abbastanza verosimile, ma lo stesso non si può dire di quello tra Dulse e la sua insegnante Ard: le ragioni dietro la scelta di una strega come maestra sarebbero state affascinanti da esplorare, dal momento che questa specifica formazione si dimostra vitale per la risoluzione finale, invece rimangono appena accennate. Tutto considerato, potrebbe comunque essere il testo migliore dell'antologia.
Con "Nell'Alta Palude" si arriva direttamente nelle vicende dei romanzi, in particolare poco tempo prima dell'inizio de "Il signore dei draghi", anche se nulla di quanto avviene qui verrà mai menzionato, ad esempio quando comincia a scomparire la magia. L'ambientazione è l'isola di Semel, una landa placida fino alla nausea dove perfino il vulcano locale è inattivo; una moria colpisce il bestiame -principale fonte di reddito del luogo-, quindi l'arrivo di un misterioso guaritore chiamato Otak viene accolto con gioia. L'uomo sembra trovarsi a proprio agio con gli animali e il lavoro prosegue bene, ma il passato non tarda a farsi vivo per smascherare la sua vera natura.
Questo racconto rimane fedele alle linee guida della serie: personaggi bidimensionali, relazioni forzate, sistema magico volubile e morale ballerina; specialmente nell'epilogo, che mostra una situazione da brividi fatta passare per ultra-romantica, dove un compagno potenzialmente violento viene preferito a un fratello sicuramente avvinazzato. Peccato, perché il personaggio di Dote aveva alcuni spunti niente male (oltre a pronunciare la battuta migliore della serie!) e la struttura del testo un po' diversa dal solito sembrava promettente, inoltre poteva essere il momento giusto per approfondire il retroscena di Thorion, una figura molto importante per la conclusione della saga.
Guarda caso, Thorion torna a farsi notare in "Libellula", titolo del racconto nonché nome comune dell'effettiva protagonista, la figlia poco amata di un proprietario terriero di Way caduto in disgrazia. La ragazza percepisce in sé un Potere immenso, senza però avere i mezzi per comprenderlo appieno; l'incontro con il giovane apprendista mago Avorio le fornisce l'occasione che cerca per conoscere la Scuola di Roke, dove pensa di trovare una soluzione ai suoi dilemmi. La vicenda si colloca cronologicamente qualche tempo dopo l'epilogo de "Il signore dei draghi" ed è collegata in modo diretto a quanto avviene ne "I venti di Terramare", aspetto che la rende molto interessante per avere un quadro più accurato di alcuni personaggi e un particolare retroscena.
Nel complesso, è uno dei racconti più utili e affascinanti, ma devo per forza sottolinearne i difetti: come il modo giocoso e leggero con cui si accenna agli stupri compiuti da Avorio grazie alla magia. Un altro grande demerito è ignorare la prospettiva di Libellula per gran parte del testo, quando sarebbe dovuta essere centrale: lo stesso problema avuto nei romanzi con Tehanu, tra l'altro! In particolare nel finale, avrei trovato appassionante leggere i suoi pensieri e capire cosa l'avesse spinta in una determinata risoluzione, anziché soffermarsi per l'ennesima volta sui dialoghi pseudo-filosofici dei vari Maestri.
Per quanto riguarda invece le appendici, sono molto combattuta. Da un lato trovo siano dei testi propedeutici e (una volta tanto!) estremamente chiari, ma è altrettanto vero che spoilerano gran parte degli avvenimenti raccontati nella saga; per questo, temo che piazzarli alla fine fosse l'unica soluzione valida. A meno di non fare una cernita e includere all'inizio solo quelli essenziali per comprendere a grandi linee il mondo di Terramare e le regole della magia. Rimangono comunque una delle parti che ho letto con più interesse in questo tomo da quasi 1500 pagine; un'affermazione decisamente significativa, se pensiamo che si tratta di testi quasi scolastici.
NB: Libro letto nell'edizione bind-up del 2013, dove viene indicato con il titolo "Leggende di Terramare"
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L’ individualismo di presente e futuro
Harry Haller, un libero pensatore che rigetta l’ ottimismo e la mediocrità della borghesia di cui non riesce a fare a meno, vissuto egli stesso in un nido piccolo borghese, staziona in un mondo che non riconosce, in una quotidianità sofferta al limite del suicidio, a metà tra la profondità intellettiva e il lupo della steppa che vive dentro di lui.
In un reiterato giuoco di specchi, un teatrino magico popolato da strani personaggi del passato e maschere del presente, tra sogno e realtà, Harry naviga tra reale e immaginario, lucida follia e dozzinale quotidianità, in se’ due nature coesistenti, l’ uomo e il lupo, confuso, smarrito desiderando l’ indesiderabile, braccato da una parte di se’.
Riuscirà a recuperarsi grazie a un’ amicizia al femminile ( Hermine ) tanto stupefacente quanto profonda che lo rieduca alla vita accostandolo all’ amore, al ballo, alle piccole cose, alle infinite sfaccettature del quotidiano.
Harry aspira alla libertà senza raggiungerla, l’ idea suicida una forza che gli rende sopportabile l’ oggi, il desiderio di solitudine una conferma di essere solo, nessuno ne condivide la presenza, impossibile limitarsi ai due opposti, spirito e materia, dentro di se’ l’ insieme di tanti mondi e porzioni di
…di tante altre anime…
Hermione, una creatura con un’ ignoranza sapientemente umana, è luce nel buio, una finestrella sulla verità, uno spiraglio nella cupa caverna del proprio terrore, la sola che sa accedere alle sue profondità rompendone l’ armatura, porgendogli la mano, restituendolo alla vita.
Due opposti che si attraggono, così ugualmente diversi, spirito e materia, un teorico raffinato e l’ intelligenza del quotidiano, lei sembra capirlo e comprenderlo in toto, conoscerne l’ essenza più vera, i problemi personali, gli si è avvicinata perché sola e, come lui,
….non sa amare e prendere sul serio la vita e gli uomini e se stessa…
.
Harry entra in una dimensione parallela, un teatro magico con mille rappresentazioni di se’, un libretto stampato racconta la sua storia e tutto ciò che lo riguarda, un esame di coscienza a cui ogni uomo dovrebbe sottoporsi
… vedere se i suoi errori, le sue omissioni e cattive abitudini non siano fino a un certo punto responsabili della guerra e di tutta la miseria che c’è nel mondo…
Se c’è una verità che lo riguarda, se la propria profondità rigetta la superficie apparente, se il lupo della steppa non è fatto per vivere in un mondo e in un tempo dove imperversano i piccoli e i superficiali asserviti a denaro e a potere, se, paradossalmente, la forza di un amore può annientare l’ amore medesimo, a Harry non resta che fuggire da quel teatro magico e
…imparare a prendere sul serio quello che merita di essere preso sul serio e a ridere del rimanente…
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L'arte del raccontare
Pubblicato nel 1813, questo romanzo è giustamente considerato un fondamentale punto di riferimento della letteratura inglese.
Sembra scritto con la piacevolezza di raccontare, che per il lettore diventa piacere del leggere.
Grande scorrevolezza, analisi psicologica in una solidissima struttura narrativa.
Una famiglia -una madre!- con cinque figlie.
La volontà di cercare un marito adeguato, possibilmente anche qualcosa di più, compare fin dalle prime pagine.
Spiccano in modo particolare le due figlie maggiori, dotate pur diversamente di personalità e stile non comuni. Non cercano facili scappatoie : "tutto ciò che ha a che fare con l'astuzia è ignobile".
Eppure la madre non è persona da emulare; fornisce anzi tante occasioni in cui l'autrice esercita un tagliente e irresistibile umorismo.
"Se l'orgoglio (...) si rifà piuttosto all'opinione che abbiamo di noi stessi, la vanità a quella che vorremmo che gli altri avessero di noi", si può dire che in questo bellissimo romanzo l'orgoglio abbia ben più spazio della vanità.
E il pregiudizio? C'è, c'è pure quello : il celebre titolo non si smentisce.
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classici
Uomini e storie da scoprire
«Impossibile! – sbottò Ashenden. – Ma come, sono sessant’anni che rappresentiamo in teatro un caso del genere e ne abbiamo scritto in migliaia di romanzi! Intende dire che la realtà ha superato la fantasia?»
Avvicinarsi alle opere di William Somerset Maugham è sempre sinonimo di qualità. Egli è infatti uno di quegli autori che raramente delude ma che anzi dona al lettore avventure mai banali e storie ricche di significato. Così è anche con “Storie di spionaggio di finzioni”, una raccolta di vicissitudini dalle tinte anche leggermente autobiografiche che accompagna il conoscitore solleticandolo nella curiosità.
Tanti i temi trattati e i protagonisti descritti. Sin da subito conosciamo un protagonista eclettico, un romanziere che viene assoldato per far parte dei servizi segreti (attività che lo stesso Maugham svolse seppur per un certo periodo). L’uomo è descritto con cura, la vicenda è talmente vivida che non fatica ad entrare nelle corde di chi legge. L’empatia è immediata. L’humor tipicamente inglese non manca di avvalorare queste pagine strappando anche grasse risate. A questo si aggiunge un sottile cinismo che non manca di arricchire la narrazione e la riflessione.
«Essendo niente di più che una minuscola vite in una macchina grande e complessa, non avrebbe mai avuto la possibilità di veder concludersi un’azione. Aveva a che fare con l’inizio o la fine di essa, forse, oppure con qualche avvenimento intermedio, ma ben raramente scopriva dove avevano condotto i suoi interventi. Non c’era soddisfazione, come capita in quei romanzi moderni che vi offrono una quantità di episodi slegati e che si aspettano che li componiate voi a costruire una narrazione coerente.»
Si combinano, ancora, fatti veri con fatti di pura finzione, emozioni concrete e toni di voce che ben si dipingono con espressioni del viso o gestualità delle voci narranti. Lo stile è sempre pungente, mai difettevole di quella carezza che mantiene viva l’attenzione e, ove necessario, anche intriso di quel virtuosismo proprio dei classici contemporanei.
Maugham ha la grande capacità di saper passare da un testo d’amore a uno scritto sulla figura femminile o ancora al giallo, senza alcuna difficoltà. “Storie di spionaggio e di finzioni” è una conferma alla sua grande maestria letteraria. Forse non lo consiglierei quale primo titolo ma certamente è uno scritto da conoscere e con cui ampliare la conoscenza del narratore.
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Peter e Ivan
«Un tempo credeva che la vita dovesse approdare a qualcosa, che tutti i dubbi e i conflitti irrisolti portassero infine a un apogeo. […] Un irrazionale attaccamento al significato.»
Sally Rooney è una di quelle autrici che o si amano o si odiano. I suoi lavori sono sempre molto particolari e capaci di suscitare emozioni diverse e contrastanti. Nel caso di “Intermezzo” passiamo da un senso di repulsione a un senso di apprezzamento per poi tornare nuovamente in una sensazione di dubbio e di domanda per le tematiche e le riflessioni che solleva.
L’opera, nello specifico, è stata accompagnata da un buon marketing che è andato a contrastare anche con quello che è il mood dell’autrice volto a combattere i social e a vivere in una forma di normalità vecchio stampo. A tal proposito il libro è stato anticipato della copertina al fine di suscitare interesse, è comparso sul mercato italiano a distanza di brevissimo tempo dal lancio inglese e, ancora, per suscitare una naturale curiosità, è stato anticipato nella trama con pochi e piccoli tratteggi. Un libro, dunque, acclamato sin da subito e che poteva suscitare nel lettore una forma di sdubbiamento precoce. Ma cosa aspettarsi da “Intermezzo”?
Siamo davanti a un libro che sa toccare un po’ tutte le fasce generazionali. Si basa sui “non detti”, sul quotidiano e da qui si snoda nell’intimità dell’anima e del pensiero. Certamente dimostra una grande crescita della romanziera che usa questa volta i sentimenti con valore curativo. Una vera e propria sperimentazione di quella tecnica del flusso di coscienza che le è generalmente lontano. Per addentrarsi in questo la trama prende il via dal lutto di un padre e da due uomini, fratelli, tra loro molto distanti (anche questa voce doppiamente maschile è una novità nella sua produzione che generalmente è accompagnata da due volti femminili). Un primo ostacolo nella lettura è però proprio questa scelta narrativa che porta a una sintassi spezzata e a uno scorrere delle pagine più lento, frammentato e farraginoso. I personaggi sembrano osservarsi, scrutarsi, non comprendersi eppure riflettersi l’uno nell’altro.
«C’è da impazzire a pensare alle cose che in passato avresti potuto fare in modo diverso. Ma a volte penso che in ogni caso non avevo tutto questo potere sulla mia vita. Cioè, non è che mi potevo inventare di punto in bianco una personalità nuova. Le cose mi sono successe e basta.»
Peter e Ivan Koubek sono due fratelli separati da una decina d’anni di età. Il lutto del padre anziché avvicinarli, li divide. Bellezza e intelligenza sembrano differenziarli sin dalla prima pagina. Se Peter è bello, spigliato, avvocato di grande carisma e successo, Ivan ha l’apparecchio, è un giocatore prodigio di scacchi ma è anche goffo e trasandato, non sa dove abiti la socialità. Ma sono davvero così diversi come pensiamo? No, non lo sono. Man mano che la lettura procede, come anzidetto, osserviamo come entrambi finiscano per essere due facce della stessa medaglia.
Altra costante nei libri della Rooney è data dall’intelligenza sopra la media dei personaggi, volti di uomini e donne che per la loro peculiarità finiscono con lo scontrarsi con una realtà che non recepisce con ardire al “ragazzo prodigio”. Sylvia, Naomi e Margaret, i personaggi femminili, restano sullo sfondo ma con una loro precisa collocazione. Sylvia e Naomi sono rispettivamente il grande amore di Peter e l’invaghimento di una fiamma. Non sa scegliere. Sylvia dopo un incidente non è più la stessa, Naomi è più giovane e solo in apparenza non ha niente in comune con lui. Ivan si innamora di Margaret, donna più grande che corrisponde i suoi sentimenti ma che a sua volta è sposata con un uomo problematico.
“Intermezzo” di Sally Rooney è un libro che si sviluppa in modo stratificato e che fa delle emozioni il perno su cui si impianta l’intera struttura. Non ci sono vincitori ma non ci sono nemmeno vinti, in queste vicissitudini. La trama diventa una perfetta partita a scacchi, gioco che rappresenta la passione che cementa il legame tra Peter e Ivan. Hanno anche un valore simbolico tra vita reale e destino. E un po’ come nella vita, la ponderazione sulla prossima mossa determina quella che poi sarà una mossa che a sua volta potrà essere determinante per la mossa successiva e quella ancora successiva in procedersi di riflessioni e azioni.
Un libro che arriva a piccoli passi, che si insinua in modo non immediato ma che ha tanto da dire se gli viene data una possibilità.
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UNA STORIA DI FUKU'
“Se c’è una cosa che ho imparato in quegli anni, è che non si può mai scappare. Mai. Non esiste via d’uscita.”
E’ per uno di quei non rari casi di serendipità letteraria che mi sono imbattuto in poche settimane in due romanzi ambientati nella Repubblica Dominicana, una nazione che fino a non molto tempo fa avrei a fatica saputo individuare in un atlante geografico. Il primo romanzo, quello che gode attualmente di maggior notorietà, è “La festa del Caprone” di Mario Vargas Llosa; il secondo, assai meno conosciuto in Italia (nonostante la vittoria di un premio Pulitzer), è “La breve favolosa vita di Oscar Wao” di Junot Diaz il quale, a differenza del premio Nobel peruviano, è anche dominicano di nascita, benché naturalizzato statunitense fin dalla più tenera età. In entrambe le opere è centrale la figura di Rafael Leonidas Trujillo, il dittatore che per più di trent’anni ha schiacciato la Repubblica Dominicana sotto l’insostenibile peso di una tirannia odiosa, dispotica e violenta oltre ogni immaginazione, capace di riverberare i suoi effetti ancora oggi, a distanza di molti decenni dalla sua tragica conclusione. L’Oscar del titolo è nato infatti in America negli anni 60, ma è come se una maledizione ancestrale, che Trujillo pareva incarnare alla perfezione nel suo trentennio di governo, fatto di soprusi, vessazioni e una idolatria estorta al suo popolo tramite la pratica quotidiana e sistematica del terrore, incombesse su di lui, ereditata dai suoi antenati come se fosse stata succhiata insieme al latte materno. Il fukù, ossia il nome assegnato dalla gente dominicana a questa maledizione, diventa così una sorta di deuteragonista del romanzo, nel quale sfortune e calamità si susseguono senza soluzione di continuità. “Dicono che sia venuto dall’Africa, racchiuso nelle grida degli schiavi; che fosse l’anatema finale degli indiani Taino, pronunciato mentre un mondo moriva e un altro nasceva; o che fosse un demone, penetrato nella Creazione attraverso la porta dell’incubo dischiusa alle Antille. […] Il fukú, però, non è solo un cimelio del passato, un racconto di fantasmi che non fa più paura a nessuno. Ai tempi dei miei genitori, il fukú era reale come la sfiga, e nessuno ne metteva in dubbio l’esistenza. […] Era nell’aria, si potrebbe dire”, anche se in fondo, come sostiene con cinico disincanto Lola, la sorella di Oscar, “non credo che esistano le maledizioni. La vita, da sola, basta e avanza”. Come ne “Il signor Mani” di Abraham Yehoshua, di cui “La breve favolosa vita di Oscar Wao” sembra riprendere la struttura narrativa, Diaz risale di generazione in generazione, ripercorrendo le drammatiche vicende della famiglia di Oscar: il nonno Abelard, un medico stimato e benestante, sempre attento a non esprimere opinioni politiche e a chiudere prudentemente gli occhi di fronte alle nefandezze del regime (perché nella Repubblica era sufficiente pronunciare in modo scorretto il nome della madre di Trujillo per entrare nella lista nera della onnipresente polizia segreta del tiranno), il quale però non riesce a evitare di cadere irreparabilmente in disgrazia per essersi opposto alle libidinose attenzioni di Trujillo nei confronti della giovane e avvenente primogenita; la madre Beli, cresciuta nella miseria come una Cenerentola presso una spregevole famiglia adottiva nella provincia più remota e arretrata del Paese, sottratta poi a una infausta sorte da una compassionevole lontana parente, e per tutta l’adolescenza in preda a “un inestinguibile desiderio di altrove”, in una nazione che però era “praticamente a prova di evasione, l’Alcatraz delle Antille”, fino a che una brutale e insensata violenza da cui a stento riesce a uscire viva la catapulta finalmente negli Stati Uniti; e infine Oscar, che pur essendo apparentemente agli antipodi della genitrice (quanto lei è bella, fiera, orgogliosa e sensuale tanto lui è goffo, sfigato e imbranato con l’altro sesso), è costretto a ripercorrere la medesima via crucis, non solo in modo simbolico ma subendo addirittura una analoga violenza nello stesso topos geografico (la piantagione di canna da zucchero). Oscar è un personaggio quanto mai originale: nerd sgraziato, sovrappeso, appassionato di fantascienza e di giochi di ruolo (“L’amico portava la sua nerdità come uno Jedi porta la spada laser […] Non sarebbe potuto passare per Normale neppure se avesse voluto”), egli è l’antieroe per eccellenza, ma è impossibile non volergli bene quando lo seguiamo nei suoi disperati tentativi di intrecciare una qualche relazione con le ragazze, da cui è tanto irresistibilmente quanto vanamente attratto, e riuscire così a sfuggire al suo miserevole destino di vergine suo malgrado. Eppure è proprio Oscar che, nella sua titanica e improbabile ricerca di amore, riuscirà a compiere l’unico atto eroico e romantico del libro (quando, incurante dei rischi che corre, fa di tutto per sottrarre Ybon, una prostituta di cui si è perdutamente innamorato, alla relazione tossica con un poliziotto prepotente e crudele), ergendosi per una volta almeno all’altezza dei supereroi da lui tanto amati, e legittimando così quell’aggettivo “favolosa”, che nel titolo sta accanto a “breve”. Se per Aristotele la “tragedia è mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa […], la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni”, “La breve favolosa vita di Oscar Wao” è una tragedia a tutti gli effetti, con la dolorosa fine del protagonista che suona come un epitaffio apposto su un Paese tanto meraviglioso quanto invivibile (“un maldito infierno” lo chiama il cugino Pedro Pablo), incapace di liberarsi della atavica violenza in cui è vissuto per così tanto tempo (“non siamo altro che dieci milioni di Trujillos”, chiosa piena di sconforto Lola dopo la morte del fratello), ma anche come una catartica rivendicazione che “omnia vincit amor”.
Nonostante i luttuosi fatti narrati, il tono del romanzo di Diaz è tutt’altro che cupo e malinconico. Narrato tutto in terza persona (anche se nel secondo capitolo compaiono una tantum sia l’inusuale seconda persona sia la prima) da colui che si definisce l’Osservatore (è Yunior, un amico di Oscar e Lola, come viene svelato dopo qualche decina di pagine), il testo è sorprendentemente disinvolto e spigliato, con frequenti strizzate d’occhio al lettore, tipo “fate partire le risate di sottofondo quando volete”, un po’ alla Giovane Holden. Lo stile è colloquiale, talvolta addirittura triviale, spesso vernacolare, con un uso così abbondante di termini spagnoli da richiedere in appendice un apposito glossario: praticamente una sorta di spanglish. Oscar e Yunior poi si identificano spesso nei personaggi dei loro film e libri preferiti, un universo fantasy che va da Tolkien ai supereroi Marvel, un po’ come accadeva ai protagonisti del quasi coevo “La fortezza della solitudine” di Jonathan Lethem. Siccome siamo nei Caraibi, caratterizzati da una “ipertrofica fantasia voodoo” e da una “straordinaria tolleranza ai fenomeni estremi”, non può mancare una spruzzata di realismo magico, come quando una mangusta appare inopinatamente per condurre Beli, straziata dalle violenze subite, attraverso la piantagione di canna da zucchero verso la salvezza. Se infine si aggiunge la presenza di un corposo apparato di note a pie’ di pagina e di ben due glossari, uno, come si diceva, per i termini in spagnolo-dominicano e uno per i riferimenti alla fantascienza e al fantasy, cosa che lo rende quanto di più simile possibile all’”Infinite jest” di Wallace (in cui le note in calce costituivano una sorta di libro nel libro), si può capire come “La breve favolosa vita di Oscar Wao” sia un originalissimo pastiche, un esperimento che, pur nutrito di tantissime influenze, letterarie e non, si rivela un appassionante unicum nella letteratura del XXI secolo, capace di emozionare, divertire e commuovere nello stesso tempo.
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Angela Izzo chi era costei
Libro dell'anno 2024 secondo la nota trasmissione radiofonica Fahrenheit, "il fuoco che ti porti dentro" ha l'indubbio pregio di trattare il rapporto madre-figlio secondo una prospettiva sicuramente di parte, tenuto conto del trinomio tra autore-narratore-figlio, ma col coraggio di mettersi in gioco nel rappresentare il conflitto quotidiano con una madre eccessivamente pressante dalla quale una volta raggiunta la maggior età ha deciso di fuggire.
Franchini non si tira indietro dunque presentandoci Angela Izzo, gia dall'incipit, in maniera assolutamente provocatoria e inaspettata:
"Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza".
abbondando quindi nell'elencazione dei suoi difetti cosi tipicamente italiani come qualunquismo, razzismo, classismo, egoismo opportunismo etc.
Si sorride, talvolta si ride proprio, nel leggere queste storie di vita familiare in particolare nella riuscita operazione di contrapposizione del dialetto napoletano, con il quale Angela inveisce verso il mondo e anche verso la propria famiglia, rispetto al linguaggio educato, pacato, intellettuale, del figlio Franchini. Da questo contrasto si sviluppa una narrazione che partendo dall'infanzia dello scrittore porta ai nostri giorni e passa dai ricordi delle vacanze al mare fino all'epilogo nel profondo Nord, in una Milano che sembra esaltare l'esuberanza di Angela ed il contrasto nord-sud.
Perché in fin dei conti l'autore ricorda che si tratta di una donna che "ha bisogno di odiare come di respirare, sente di non esistere se non si contrappone", ed esercita queste caratteristiche addirittura verso i propri figli in un rapporto di amore-odio che visto con gli occhi terzi del lettore assume i contorni di una sceneggiata napoletana.
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"Ha talento ma non si applica"
Ho preso in mano questo romanzo conoscendo altre opere dell'Autore, come la saga dei Medici, e sapendo più o meno cosa aspettarmi. Strukull é un buon autore, "leggero" per i miei gusti, ma in generale lo consiglierei a chiunque apprezzi l'ambientazione storica senza troppo impegno. In generale il romanzo é scritto bene, non é pesante, né noioso, ma chiunque stia cercando una profonda immersione nell'epoca e nelle vicende raccontate potrebbe rimanerne deluso. Quando si scrive un romanzo storico, la cosa più difficile é riuscire a calarsi in un mondo che é lontanissimo dal nostro modo di vivere, di pensare e di comportarci. Le persone, soprattutto i nobili e le famiglie regnanti, agivano e si comportavano secondo norme sociali che sono per noi totalmente aliene, per cui rimango sempre perplesso nel vedere re, papi e nobili parlare liberamente e a briglia sciolta fra di loro o con i loro sottoposti come se fossero avventori di un odierno bar centrale, e purtroppo questa é una cosa che rovina immediatamente la mia immersione nelle vicende raccontate.
Un altro grosso problema a mio parere é la mancanza di descrizione, soprattutto nei personaggi, di cui riceviamo solo alcuni tratti sommari e spesso a diverse pagine, se non capitoli, dopo averli introdotti. Senza una descrizione dei tratti o dell'ambiente in cui si muovono, questi personaggi rimangono, nella mente del lettore, dei manichini senza faccia, bianchi e anonimi che si muovono in uno scenario vago. Inoltre é estremamente frustrante quando un personaggio nei suoi dialoghi espone per filo e per segno delle informazioni o dei punti cardine della trama a solo vantaggio del lettore, cosa che si verifica troppo spesso e costantemente nei dialoghi fra alcuni personaggi, al solo scopo di istruire il lettore, senza cercare di trovare un modo più organico per convogliare queste informazioni, semplicemente affidandole alle parole del personaggio che ti fa il classico "spiegone".
Per concludere posso dire che é sicuramente un opera apprezzabile, sia per lo stile scorrevole che per la scelta dell'epoca raccontata, e che per alcuni versi é riuscita anche a superare le mie aspettative, ma che quando si verificano, i problemi che ho citato rendono difficile apprezzare a pieno la bellezza dell'ambientazione e le vicende avvincenti che vengono narrate.
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Le conseguenze degli azzardi immobiliari
Dopo una decina di romanzi e parecchi racconti, con "Addio, Miss Marple" sono arrivata a completare la serie ideale dedicata alle indagini dell'iconica vecchina inglese. Un romanzo dalla genesi per nulla banale (scritto ed ambientato negli anni Quaranta ma pubblicato solo dopo la morte dell'autrice, la quale tra i suoi due personaggi più celebri ha preferito eliminare il non troppo amato Poirot), che meriterebbe dei contenuti adeguati all'interno dell'edizione. Edizione che è invece tristemente povera, e questa volta non perché la sottoscritta abbia recuperato una vecchia copia all'usato: parlo proprio dell'ultima versione realizzata da Mondadori nel 2018 e tutt'ora ristampata, nella quale sono presenti soltanto il testo e l'indice, senza alcuna prefazione o nota aggiuntiva per presentare ai lettori un volume tanto simbolico nella produzione christieana.
Come accennato, la collocazione temporale di questa storia è teoricamente il 1944, seppur alcune informazioni all'interno della storia (e della sinossi!) sembrino contraddire questo dato; per certo sappiamo che il colonnello Bantry -morto prima degli eventi di "Assassinio allo specchio" del 1962- è ancora vivo, e al contempo sul trono d'Inghilterra siede re Giorgio VI, quindi ci troviamo senza dubbio in un periodo precedente al 1952. L'ambientazione principale è invece la costa meridionale del Devon, dove si trova la cittadina immaginaria di Dillmouth; qui arriva dalla Nuova Zelanda Gwenda "Gwennie" Reed, la nostra prospettiva principale nonché neo-moglie di Giles, su indicazione del quale cerca una casa in zona per la loro famiglia. La donna si lascia conquistare dall'affascinante Hillside, ma una serie di eventi bizzarri collegati all'abitazione la porta a temere per la propria psiche. Per sua fortuna il marito è cugino di Raymond West, tramite il quale conosce la concreta Miss Marple, pronta a fornire delle risposte ai suoi dubbi; risposte che portano a loro volta nuovi quesiti, ma soprattutto un potenziale omicidio da risolvere.
Questa volta non partiamo quindi da un delitto avvenuto nel presente, bensì da una sorta di cold case che potrebbe comunque comportare dei pericoli per i protagonisti, essendoci un assassino in libertà da quasi vent'anni, determinato a rimanere tale. Questo rende piacevolmente incalzante il ritmo dell'indagine e appassionante la determinazione con cui la coppia composta da Gwenda e Giles interroga sospettati e tenta di unire le informazioni ottenute, con l'indispensabile supporto di Miss Marple, che qui ricopre quasi il ruolo di angelo custode per quanto si prende a cuore le sorti dei due. Ho trovato sia loro sia gli altri personaggi estremamente gradevoli e ben definiti, senza troppe esagerazioni comiche; anche le relazioni mi sono sembrate solide, nonché vitali per il proseguo della storia.
E questo è vero persino per il lato romantico, solitamente tallone d'Achille dell'autrice. Non parlo solo della coppia protagonista (seppur Gwenda e Giles siano davvero affiatati), ma anche delle altre romance che si dimostrano tutt'altro che accessorie e non vengono utilizzate solo per addolcire l'epilogo dopo tanti delitti. La cara Agatha quindi svolge un lavoro decisamente migliore qui rispetto a tante sue opere più celebrate, e ciò si rispecchia anche in relazione al quadro morale del crimine in sé; le motivazioni del colpevole offrono infatti un assist alla buona Jane per parlare di squilibrio di potere, violenza domestica e psicologica. Ripeto: molto, molto meglio di altri romanzi, come la mia recente lettura "Non c'è più scampo".
Qualcosa deve pur pesare sull'altro piatto della bilancia, e in questo caso si tratta dell'intreccio, che non è incoerente o sciocco ma mi è sembrato ben lontano dal potersi definire intricato. O forse ho letto semplicemente troppi gialli per farmi ingannare quando i personaggi stessi dicono di voler lasciare per dopo una determinata pista! Riprendo poi la mia lamentatio verso l'edizione o meglio verso la traduzione -rea tra l'altro di ignorare le regole della consecutio temporum-, perché trovo molto deludente la scelta del titolo: questa è sì l'ultima storia di Miss Marple ad essere stata pubblicata, ma nulla nel testo lascia intendere che fosse pensata per dare l'addio al personaggio. L'originale "Sleeping Murder" è decisamente più onesto, mentre qui in Italia si è voluto puntare sul sensazionalismo per mero marketing.
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Attesa profetica
Il giorno in cui George Bowling, assicuratore energico e gioviale, quarantacinquenne piuttosto in carne, ritira la dentiera nuova inizia ad avere un’ idea nella testa riconsiderando il proprio passato a Lower Binfield, un tempo e un luogo a lui cari con una matrice di unicità ( Il 1900 ) in cui ritrovarsi bambino.
Il presente popolato da un’ inquietudine poco gratificante e dalla certezza che qualcosa di terribile stia per accadere, la guerra alle porte e con essa la fine di tutto.
Negli ultimi otto-nove anni George è ingrassato, una pinguedine che stona con la magrezza interiore che lo accompagna, la nostalgia per un mondo che considera ancora suo, popolato da persone che identifica e riconosce nello stesso modo di allora, assorbito da un senso smisurato che solo la fanciullezza può dare.
In quel tempo, tra gli otto e i quindici anni, le proprie attività predilette erano state la pesca e la letteratura, momenti unici in cui sostare, almeno con il pensiero, un ragazzino egoista sospinto dalla forza di un desiderio smarrito nel presente e dalla certezza di sostare in un tempo infinito.
Non è un tentativo di idealizzare un periodo della vita che non tornerà, che sta scomparendo, il presente sancito da un mondo patinato e aerodinamico infarcito dalla paura, il ritorno all’ agognata infanzia restituisce a George un senso di sicurezza e di continuità, un mondo privo di paura che chi non ha vissuto mai più vivrà, in cui non considerare il futuro come qualcosa di terrificante.
In gioventù ha affrontato la guerra, ne e’ stato un reduce, sopravvissuto a un conflitto che non uccidendolo lo ha indotto a pensare e lo ha reso diverso da quello che era, confrontato con l’ idea che tutto quello che stava facendo fosse privo di senso, e allora George descrive la sensazione che lo ha attraversato, non tanto nell’ idea di una pace esente da guerre, ma nella sostanza che lo riguarda.
Dopo vent’anni anni, in fuga dal cupo presente, da un matrimonio soffocato nella quotidianità, un’ insoddisfazione sempre più manifesta, il desiderio irrinunciabile di riabbracciare una parte vitale di se’, George ritorna a Lower Banfield per pochi giorni sulle tracce dei fantasmi del passato, un luogo del tutto diverso dove si parla di un conflitto imminente, un quarantacinquenne che passeggia in un mondo di vivi in tutt’altro affaccendato con la certezza incontrovertibile di un tempo definitivamente sepolto e dimenticato.
Considerato da lui stesso e dai lettori il più bel romanzo di George Orwell (1938), Una boccata d’ aria, concepito alla viglia dei venti di guerra, pervaso di un realismo che si accompagna a una satira pungente, così diverso dai testi più noti, si occupa di quello che è sotto gli occhi di tutti e che l’ autore ha dichiarato
… ormai non è più necessaria una guerra per farci aprire gli occhi sulla disintegrazione della nostra società e sull’ impotenza delle persone decenti a tal riguardo…,
nella consapevolezza di una Europa ormai stremata e sommersa da una serie di crisi connesse, economica, sociale, ambientale, religiosa, diplomatica, imbevuta di paura, frustrazione, cinismo, disimpegno e rassegnazione, un’ atmosfera di non ritorno che il romanzo così bene rappresenta.
Profetico?
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Autunno americano
Più che un giallo, questo libro famosissimo è un vero e proprio pezzo di cronaca nera, un resoconto fedele di un evento reale. L’autore, a torto noto solo come uno scrittore “leggero”, a causa di un malinteso intendere nella sua essenza più profonda del suo famoso romanzo “Colazione da Tiffany”, quello da cui fu tratto il film omonimo con Audrey Hepburn, è invece assai di più, un grande scrittore. Che il suo vero dire lo esplica tra le righe, nel sotteso, come tutti i grandi.
Nello specifico, pare rivelarsi qui solo come un cronista attento, preciso, dettagliato, racconta di un fatto cruento di cui è stato davvero testimone, ha fatto cioè storia romanzata di un episodio realmente accaduto. Invece, ne ha fatto di gran lunga ben oltre, un gran romanzo, in verità.
Un romanzo poliziesco, se vogliamo, perché ne contiene elementi di base, come il delitto, l’assassinio in particolare, poi l’indagine, la scoperta dei colpevoli, il movente e più in generale le intime motivazioni che muovono la mano omicida. Certo, contiene tutto questo, con una particolarità: è vergato a freddo. Per cui agghiaccia di più il lettore.
Nel novembre 1959, in una piccola cittadina della più classica provincia rurale americana viene scoperto un efferato omicidio plurimo, una strage familiare: agli intervenuti sulla scena del delitto si presenta lo spettacolo sanguinoso e raccapricciante dello sterminio di un’intera famiglia piccolo borghese e benestante, genitori e due figlioli, massacrati in apparenza a scopo di rapina, con un ben misero bottino, quindi per futili motivi. La polizia indaga, scopre i responsabili, due pregiudicati che vengono arrestati, giudicati, ritenuti colpevoli e condannati alla pena capitale.
Truman Capote di questo racconta, riporta la storia come un qualsiasi cronista, e per rendere meglio edotti i suoi lettori si immerge nel contesto, gira per la cittadina, chiede, domanda, interroga, raccoglie notizie sulle vittime, sugli assassini, sull’ambiente e sul vissuto di tutti quanti coinvolti, in apparenza compie il lavoro di un buon giornalista. Solo che, senza parere, Capote fa ben altro.
Va al fondo delle cose, letteralmente a sangue freddo fa rivivere le cose come in effetti sono, si insinua nell’animo degli attori nel bene e nel male, ne scandaglia la vita, i pensieri, i comportamenti, certamente gli assassini commettono gli omicidi a sangue freddo, ma è stupefacente la freddezza che Truman Capote fa emergere dal vissuto di luoghi e persone, vera ed unica origine prima del delitto. Lo scrittore esegue quella che diremmo una full immersion, quasi simpatizza con i colpevoli ma al solo scopo di capire le vere motivazioni di una simile barbara e pressoché inutile carica delittuosa, quale è la pecca del consorzio civile in una realtà semplice, rurale e produttiva forgiata ad apparente misura d’uomo e però certamente deficitaria, gelida, ghiacciata, se è un sistema in grado di partorire simili aberrazioni. In sintesi, Capote dimostra a sangue freddo, come fosse un diaccio esercizio logaritmico o una artica equazione quantistica, che quell’universo di brava gente deve per forza possedere, per equilibrio, in un’altra dimensione un universo parallelo dove la brava gente tanto brava non riesce ad essere per meri motivi di sopravvivenza. Ma non per questo va giudicata meno brava.
Talora, delinque per non morire di freddo.
Cosa che chi sta al caldo non capisce, il sazio non crede al digiuno.
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Incubi dal passato
Nel suo genere, il giallo, il noir, il thriller o come altrimenti si vuol definirlo, questo è davvero un buon testo, godibile e fluente nella sua narrazione, perché redatto bene, con cura ed eleganza. Scorre con uno stile tutto suo, pulito, ordinato, cronologicamente ineccepibile, un racconto che è una cronaca che srotola man mano un gomitolo, a tratti e con diversa rapidità, costituito prima da un filo di eventi passati, intrecciato ad un certo punto indissolubilmente a quelli più recenti.
Ma in maniera speculare, tant’è che assume discernimento chiaro sia che i fatti scorrano in un senso che nell’altro. Allorché la matassa si srotola del tutto, emerge un excursus logico, inusitato e sorprendente, intriso di amarezza e disillusione, con un finale struggente, che racchiude in sé la il disinganno di una generazione giovane e infelice per motivi diversi, e però descritto con un tono tanto risoluto quanto veritiero, certamente velato da umana comprensione, ma in modo imparziale.
L’autore non prende le parti, non si schiera, non giudica, semplicemente racconta.
Stavolta il giustiziere di turno non è tanto l’investigatore o chi per lui che ripristina in qualche modo la giustezza dei corretti comportamenti sociali, qui ad accomodare in qualche modo lineare gli eventi restituendo un senso alle azioni compiute provvede il fato, il destino, l’imponderabile fatalità dell’esistenza. Non a caso l’autore è, smessi i panni di romanziere, un cronista dei più apprezzati di una delle maggiori testate nazionali. Gigi Paoli fa romanzo reale della sua professione, è un autore che certamente sa avvincere, racconta senza parere come se fossero cronache fatti di cronaca nera del tutto verosimili, se non veritieri, e lo fa avendo sempre bene a mente la sorte, la ventura, l’imprevisto, l’accidente, l’arbitrio umano che sempre si accompagna sia alle azioni delittuose che allo scorrere della comune e banale quotidianità.
Qui il suo protagonista è un giornalista, Carlo Alberto Marchi, un uomo letteralmente distrutto sia nel fisico che nel morale. Cronista di nera, uno di quei segugi della carta stampata sempre primi a fiutare e redarre ad hoc il pezzo d’autore, ad uso esclusivo dei suoi lettori, Marchi è costretto alla forzata inabilità, a causa di una rovinosa caduta dal palazzo di Giustizia, che i cronisti in gergo etichettano Gotham. Di conseguenza, sta riprendendosi dalle disastrose fratture multiple attraverso un lungo percorso riabilitativo, che comprende dolorose ed impegnative sedute di forzata fisioterapia in una struttura apposita, nel mentre cerca di riprendersi anche affettivamente contando sulla propria figlia, e sul capitale di empatia umana accumulato negli anni nel corso della sua professione, che comprende i colleghi ai quali è più intimamente legato, nonché la stima degli addetti a vario titolo alla giustizia, poliziotti e magistrati, con cui era solito interagire.
Complica parecchio le cose l’insorgere di un tremendo acufene, quasi una sirena che spesso e volentieri gli ricorda come sia preferibile che al momento si dedichi ad altro che al suo lavoro. Consiglio che magari il nostro sarebbe anche disposto a seguire, ma il fato dispone diversamente.
Sulla scena di un omicidio di un povero paninaro ambulante, che ha tutta l’aria di essere vittima di un fallito tentativo di rapina, viene reperito un proiettile di pistola; l’apposita banca dati delle forze dell’ordine identificano l’arma da fuoco come quella anni prima utilizzata per compiere un sanguinoso eccidio in una banca. Gli autori che rivendicarono a suo tempo la barbarie di quelle strage sono esponenti delle Brigate Rosse, un piccolo nucleo di terroristi coinvolti nel colpo di coda degli ultimi momenti della lotta armata, all’epoca identificati come sospetti ma mai realmente incriminati per lo specifico episodio. Vale a dire chi uccise allora è tornato a colpire, ed il diritto di cronaca reclama l’acclarazione dei fatti. Per Carlo Alberto Marchi si va ben oltre, il conoscere come siano andati effettivamente le cose anni prima, chi ha impugnato di nuovo quell’arma e chi, come allora, ha ucciso di nuovo crudelmente, è questione che lo riguarda assai più del suo essere cronista. Il suo è un diritto di sangue, a suo tempo le Brigate Rosse in quella rapina in banca per autofinanziare il movimento armato, assassinarono a sangue freddo il papà di Marchi, direttore della banca prescelta per la rapina. Una vera ingiustizia, dato che il suo papà era un uomo del popolo, di sinistra, di umili origini che si era fatto dal niente, e ironia della sorte era stato ucciso proprio da chi pretendeva di difendere i diritti del popolo. Per Marchi è un vivere un incubo con le radici nel passato, è un dover ripercorrere oggi la sanguinosa svolta della sua esistenza pur se minato nel fisico. Ma rappresenta anche uno stimolo, una pulsione, una incitazione per scoprire la verità e ristabilire giustizia, lo chiede letteralmente la voce del sangue, la stessa che gli ha dato l’impulso a trasformare il suo mestiere in una lotta quotidiana contro le ingiustizie. Solo che gli acufeni lo assillano, distolgono la su attenzione. Il fato delle umane cose, però, è acconcio, e confacente a suo modo.
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Un invito ad aprirsi
In questo libro l’autrice torna ad esplorare uno dei suoi temi più cari: l’importanza della narrazione personale come strumento di comprensione ed incontro. La protagonista conduce interviste alle stelle polari della sua adolescenza perduta e ne riscopre tratti distintivi, ma anche sorprese disorientanti. Il testo mescola leggerezza e profondità, e le domande dell’intervistatrice diventano piccole chiavi per aprire mondi interiori. Le domande infatti non sono solo spunti di riflessione, ma inviti ad attraversare la propria memoria ed a rileggerla con occhi nuovi, senza la paura di mostrarsi diversi a chi ci ha conosciuto quando la vita non ci aveva ancora messo alla prova, perché la vita, quando le pare, s’increspa e un’onda ce ne può portare via un pezzo. La scrittura della Gamberale è, come sempre, limpida e vicina, capace di farsi confidenza più che lezione. E’ un libro da abitare lentamente, alla stregua di un diario condiviso. L’autrice non offre risposte, ma apre spazi: chiede al lettore di mettersi in gioco, di lasciare emergere verità che spesso restano nascoste, è un invito a sostare, a fermarsi di fronte a ciò che ci abita dentro ed a condividerlo; è una lettura che accarezza e che, nel silenzio delle sue domande, ci ricorda che raccontarsi è sempre anche un modo per imparare ad ascoltare, per capire come ognuno di noi riesce a tenere insieme quello che ci fa splendere e quello che ci consuma. Forse chi cerca una trama definita potrebbe restare disorientato, perchè il cuore del romanzo non è la narrazione lineare, bensì l’intimità del dialogo. È un libro che ci ricorda come il raccontarsi sia un atto di coraggio e, al tempo stesso, un dono. È bellissimo che mi sia stato regalato, in modo inaspettato, come un elegante e gentile invito ad aprirmi, senza paura.
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La Storia
Questo romanzo è una bella storia, ma è un tomo poderoso che non si può distillare poco a poco nel tempo, non è racconto seriale a puntate, è un tutt’uno integrale, va letto in breve per assaporarne completamente tutta la sua fragranza, e apprezzarlo come merita.
Sarebbe un peccato altrimenti, l’autrice ci ha offerto tutto quanto un lettore richiede ad un buon libro: quello di farci compagnia, condurci nelle vite degli altri perché possiamo così apprendere, coscientemente o meno, tutto quanto non sappiamo o non possiamo sapere in prima persona, direttamente per nostro vissuto limitato, dell’esistenza in generale. I libri sono mappe, quando ben tracciate indicano strade, itinerari che rivelano a chi legge cosa gli piace o cosa no delle cose della vita, fatti e persone che lui stesso neanche immagina lontanamente che possano esistere, scopre sensazioni e preferenze che avverte magari del tutto sconosciute, e però in qualche modo anche a lui congeniali. I romanzi sono racconti di vita, illustrano le emozioni che animano i personaggi, tracciano le azioni e le circostanze che si creano in diretta conseguenza di quelle, descrivono gli eventi che sorgono spontaneamente, delineano i caratteri delle persone, in definitiva leggere ci aiuta a capire noi stessi, ciò che siamo, a conoscerci ed a plasmare quanto siamo.
Ci formiamo con l’esperienza di vita, leggere accelera il processo, sperimentiamo nel bene e nel male più vite diverse mentre viviamo la nostra. I romanzi allora, quelli buoni, così prendono vita, ci pongono domande, interrogano silenti il nostro animo su cosa avremmo fatto noi nelle stesse circostanze, come avremmo reagito, cosa avremmo pensato, che scelta avremmo intrapreso, se condividiamo o meno i sentimenti espressi nelle pagine. Le buone letture, in fondo, questo fanno, questo è il loro fine ultimo, la loro mission, collaborano a creare noi stessi, ci educano, ci camminano accanto e ci parlano, esemplificano riportando le realtà.
Valerie Perrin per questo romanzo si è spesa bene, con onestà, ci ha dedicato tempo, cura, dedizione. Scrive bene dopo essersi ben informata, ha un suo stile preciso, forse non sempre captato con linearità, però non è un difetto di fluidità, la sua penna è un eccesso di spezie, mai fine a se stesso, è lo stesso piatto delicato e delizioso che lo esige. Infine direi che ci è riuscita, come una brava zietta d’altri tempi ha cucinato per noi un buon pranzo, dall’antipasto al dolce, per cui possiamo fare una pausa tra una portata e l’altra, certamente, ma non è che possiamo diluire l’intero pranzo in tempi lunghissimi, si perde gusto e aroma, se no, il tempo dilatato troppo invecchia il palato e disconosce i sapori. Affievolisce anche il giusto sottofondo musicale, peraltro, la musica in questa storia è essenziale. Intendiamoci infine, questo romanzo non è un capolavoro, ma una buona lettura, redatto con una bella valenza artigianale, cesellato con bravura, si fa leggere, interessa, incuriosisce, fa compagnia, si fa apprezzare. Solo che è una Storia con la maiuscola, quindi conta molti personaggi, altrettanti fatti, tanti sviluppi spesso inattesi e sorprendenti, è una storia affatto inverosimile, si badi, è invece un racconto intensamente reale, perché la realtà supera sempre la fantasia. I libri riportano sempre quanto accade, quanto è accaduto, quanto potrebbe accadere, i romanzi non inventano niente, finanche le fiabe hanno riscontri reali, la fantasia è solo un modo diverso con cui si descrive la realtà, i romanzi la riportano uguale, senza nulla aggiungere.
“Tatà” di Valerie Perrin è una storia non breve, perché la Storia non può esserla per definizione; ed è però anche un racconto che si digerisce bene in un solo pasto, non da spezzettare in troppi spuntini.
Tatà è il termine francese italianizzato che sta a significare in maniera affettuosa: “zietta”, il termine è stato adattato nella nostra lingua, il francese originale “Tata” senza accento da noi intende una nurse, una baby sitter, non è questo il caso, l’accento aggiunto ad hoc serve a fugare i dubbi in merito. Valerie Perrin con “Tatà” si riferisce effettivamente al suo personaggio centrale, Colette Septembre, che è figlia di molte storie, di storie potenti che ha il dovere di raccontare.
Nubile e sola, umile donna di un borgo nella campagna francese, è la zia della protagonista Agnes Septembre, principale, ma non la sola, voce narrante del romanzo.
Altre voci costituiscono la trama, intesa non come lo sviluppo del racconto, ma come l’effettivo tessuto connettivo sotteso a tutto il libro, il substrato organico costituito da voci incisive, anche perché letteralmente incise sui nastri di un vecchio magnetofono, su cui si sviluppa la pianta dell’affabulazione. Si riportano e si delineano così al meglio testimonianze, antefatti, sviluppi, pensieri e prospettive. Incroci della vita, pietre miliari, percorsi tortuosi e convergenti, rivelazioni, sorprese, conferme. Molti sono i personaggi, tanti i protagonisti, varie e multiformi le storie.
Un elenco mai esaustivo di volti e persone riporta la già citata Agnes Septembre, famosa regista cinematografica nota in tutto il mondo, suo marito Pierre, un ancora più noto attore protagonista dei film della moglie e divo di altre pellicole, la loro figlia Ana. I genitori di Agnes, la violinista Hanna, suo marito Jean Septembre, pianista di fama mondiale. Poi la “tatà” del titolo, zia Colette, sorella di Jean, ancora l’amica del cuore di Colette, l’artista circense Blanche, nonché il padre di Blanche, padrone assoluto bieco e tiranno del circo e non solo del circo. Perchè esistono individui che terrorizzano, più di quanto non si creda. Ed esistono mogli, figlie, famiglie che vivono sotto la cappa di un tiranno violento, più di quanto non si creda.
Poi gli abitanti del borgo dove vive Colette, per primo il suo amico del cuore Blaise, a seguire la giovane stella del calcio Aimè, e Amelie, Nathalie, Louis, Lyece e le sue sorelle, il poliziotto Paul, il dottor Antoine Etè, che raggiunta la pensione smette di esercitare la medicina e ripara e rimette in moto, in grado di circolare, le sue vetture preferite, le Mehari.
E altri, e ancora altri e tutto quanto li riguarda e li intreccia tra loro, ciascuno è una radice a sé stante e tutti insieme sfociano nel tronco maestoso dell’albero della vita, con tanti rami, tante biforcazioni, tante chiome e anche rami secchi e foglie morte.
Perchè questo è un romanzo che racconta di tutto e di tutti: di pedofilia e di violenza di genere, di morti misteriose e di femminicidio, di calcio e di tifosi, di AIDS e tossicodipendenze, di omosessualità e di alcoolismo, di ricchezza e povertà, di lavoro e sacrificio. Di valenti artigiani e artisti raffinati, di antichi pianoforti e di violini Stradivari, di olocausto, di guerra e di violenza. Di maschilismo, di patriarcato, di femminismo ante litteram, di giustizia e di vendetta.
Di musica, quella immortale di Chopin, Mozart, Bach, che quando resa al meglio da un pianista straordinario fanno sentire a chiunque l’infinito e Dio fluenti dalla punta delle dita dell’esecutore.
Tutto ruota attorno alla tatà Colette: lei è un magnifico lago alpino, dalle acque trasparenti e cristalline, esattamente com’è la sua anima di persona umile, semplice, salda negli affetti e nei valori, un lago che dona acqua a chi ha sete ed è anche un baluardo di roccia che accoglie a rifugio chi ne necessita. Tutti gli altri sono affluenti che arrivano a questo lago, ognuno con il proprio rivolo; poi dal lago fuoriescono, più forti di prima. Rinati. Perché questo è anche, se non soprattutto, un romanzo di resurrezione e rinascita: non a caso inizia con la chiamata della polizia che annuncia alla nipote Agnes la morte di tatà Colette. Solo che la stessa Colette risulta all’esterrefatta Agnes già morta tre anni prima. Un mistero, un giallo? No, è che noi siamo i tempi di oggi: non ascoltiamo. Non diamo retta agli altri, siamo troppo concentrati su noi stessi, sulle nostre vite, senza accorgerci delle vite degli altri. Che spesso diamo per scontate: invece nessuno conosce l’altro veramente, le vite degli altri potrebbero sorprenderci non poco. Rivelarle per intero è interessante, per non dire affascinante. Servono allora due sillabe: ta -tà, un va e vieni come un metronomo, un ritmo ipnotico che induce all’ascolto, un viaggiare avanti e indietro nel tempo e nelle vite altrui per ricostruirle poi in un tutt’uno organico, un gioiello unico, perchè mai uguale ad un altro, che si rivela poi essere infine una bella storia, come sempre è bella la vita di chiunque. La sua vita, la sua storia, la Storia.
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Più Wolfe che Abercrombie
Iniziare una nuova serie mi mette sempre un po' in difficoltà, soprattutto se si tratta di una storia ambientata in un mondo di fantasia, perché la sensazione di dover imparare da zero una geografia, una Storia ed una cultura completamente nuove mi riporta di prepotenza tra i banchi di scuola; è uno dei motivi per cui tendo a preferire le narrazioni autoconclusive, nelle quali l'autore di turno non può allestire uno sfondo troppo complesso. Allo stesso tempo, subisco in parte la fascinazione dello scoprire dei luoghi inediti, e questa curiosità mi ha portata ad iniziare Cosa resta degli eroi, presentata come una trilogia affine ai lavori di Abercrombie, nei quali però l'ambientazione non risulta eccessivamente complessa. In realtà, penso che il mondo delineato dal caro Richard sia molto più vicino al caos affascinante dell'Urth di Wolfe; spero quindi che apprezziate il mio sforzo per identificare la premessa.
Ci troviamo di fronte ad un mondo diviso nel presente tra le tribù pseudo-barbare Majak a nord-est, la Lega commerciale di Trelayne sulla costa occidentale e l'impero Yhelteth nel sud. Negli stessi territori si trovavano in passato altre tre popolazioni: il Popolo delle Squame (dei simil-draghi arrivati da oltreoceano), gli Aldrain dotati di abilità soprannaturali, ed i Kiriath che sembrano quasi una specie aliena; in questo universo narrativo si mescolano infatti elementi magici e fantascientifici. Gli Aldrain sembrano essere stati sterminati dai Kiriath molto tempo prima, mentre il Popolo delle Squame è stato sconfitto grazie agli sforzi congiunti di umani e Kiriath, i quali dopo quest'ultimo scontro si sono dileguati.
Arrivando all'inizio della storia, le prospettive presentate si possono ricondurre a tre linee narrative. La prima vede come protagonista Ringil "Gil" Eskiath, nobiluomo e valente guerriero, impegnato nella ricerca di una parente vittima della recentemente legalizzata tratta degli schiavi; nella seconda ci si sposta tra i nomadi Skaranak per parlare dell'antagonismo tra il capoclan Egar Rovina del Drago e lo sciamano Poltar Occhio di Lupo, mentre nell'ultima si arriva nelle regioni imperiali con Archeth Indamaninarmal, consulente del sovrano e da lui incaricata di indagare su alcuni attacchi misteriosi avvenuti in una località costiera.
Per buona parte del volume queste vicende sembrano legate tra loro soltanto a livello superficiale, perché Gil, Egar ed Archeth hanno combattuto assieme anni prima, ma nella parte finale i loro percorsi finiscono per essere convogliati in una missione principale e risolutiva; il tutto, lasciando comunque diversi spunti aperti sui quali dare corpo ai capitoli successivi. Pur avendo provato a più riprese della frustrazione verso il ritmo disomogeneo adottato da Morgan, devo ammettere che la storia ha saputo appassionarmi e spingermi ad essere sempre più coinvolta nelle dinamiche interne di questo universo narrativo, anche per merito della particolare commistione di generi diversi e del brillante epilogo.
Il maggior punto di forza del romanzo a mio avviso sono però i suoi personaggi, che si tratti dei tre protagonisti oppure dei numerosi comprimari. Il caro Richard si dimostra decisamente abile nel delineare i caratteri all'interno del cast in modo originale e sfaccettato, nonché a prestare attenzione affinché ognuno rimanga fedele alle proprie motivazioni. Personalmente, non ho provato granché simpatia per Egar -forse perché è il POV con meno spazio all'interno del testo, forse perché è un pedofilo impunito-, mentre Gil ed Archeth mi sono sembrati dei personaggi principali davvero validi e capaci di crescere nel corso della storia; inoltre permettono di includere una rappresentazione naturale dell'omosessualità, che spesso mi è sembrata un mero orpello in altre narrazioni grimdark.
Sull'altro piatto della bilancia, oltre alle già citate linee di trama che procedono in modo lento e slegato, troviamo senza dubbio la confusione. Confusione che assale l'ignaro lettore fin dalle primissime pagine, tra la persistente sensazione di aver saltato un prequel e la pioggia scrosciante di name dropping; e chiudiamo un occhio sul fatto che la maggior parte di questi millemila nomi siano a dir poco impronunciabili: un'appendice con guida alla pronuncia e riferimento ai vari soprannomi sarebbe il minimo, specie se si considera che io ho impiegato un'eternità anche solo per appurare che Aldrain e Dwenda erano la stessa cosa!
Il senso di straniamento viene acuito dalla massiccia presenza di flashback e voci interne spesso disorientanti e quasi mai indicati in maniera chiara nel volume, così come le ellissi temporali. Soprattutto nei capitoli iniziali, ciò crea una quantità di interruzioni, perché si stanno seguendo dei protagonisti ancora sconosciuti in un contesto fantastico tutto da scoprire, ed improvvisamente l'autore passa a raccontare un avvenimento di dieci anni prima, oppure il POV in questione ha un dibattito con uno (o più?) interlocutori interni. Ritengo che questa scelta narrativa porti una complicazione eccessiva all'interno di una vicenda già particolarmente intricata; e quando finalmente si ha l'impressione di star cominciando a capire qualcosa, ecco che il caro Richard scombina del tutto le carte in tavola con nuove informazioni, ancor più farraginose. E per assurdo sono comunque curiosa di leggere il seguito!
NB: Libro letto nell'edizione Mondadori
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Sempre (ri)tornare
“È lì che ho commesso un errore, un errore difficile da definire, impercettibile, ma dal quale è dipesa tutta la mia vita e a cui non sono mai riuscita a porre rimedio.”
“Un errore irreparabile commesso nell’età dell’ignoranza.”
“Sì.”
“È a quell’età che ci si sposa, che si ha il primo bambino, che si sceglie una professione. Poi viene il giorno in cui sai e capisci molte cose, ma ormai è troppo tardi, perché tutta la tua vita è stata decisa in un periodo in cui non sapevi nulla.”
Pubblicato per la prima volta nel 2001, “L’ignoranza” di Milan Kundera è un testo che ruota attorno agli esuli e da qui è chiaro e naturale il rimando, anche voluto dentro al testo, a Ulisse, colui che ha peregrinato per vent’anni lungo tutto il mondo allora conosciuto prima di riuscire a tornare alla sua cara Itaca.
Conosciamo Irene che torna a Praga proprio dopo due decenni trascorsi in Francia, a Parigi. Torna nella sua terra natia a seguito della caduta del muro di Berlino, circa vent’anni dopo la caduta della Cecoslovacchia. È preda di sentimenti contrastanti, non riconosce più quel luogo come la sua terra, è restia a tornare, è spinta ancora a tornare, è titubante. Eppure sa che deve. Una volta giunta in patria manco si riconosce in quegli abiti dell’ultimo minuto che deve comprare in un negozio e che da una donna di classe la trasformano in una donna qualunque, mediocre. Sa di trovarsi davanti allo specchio di quel che sarebbe stata se non se ne fosse mai andata.
Come lei, anche per Josef è tempo di grande ritorno, è tempo di Praga. Ha vissuto in Danimarca, è qui che ormai si snoda la sua vita. Tornerà alle origini ma solo per il tempo necessario a rivedere quel fratello che ha salutato dopo essersi dovuto rifugiare altrove per ricominciare la sua vita.
Uomini e donne, quelli descritti, propri dell’ignoranza, di quella “sofferenza del ritorno”, di quella nostalgia canaglia che prende e trattiene. Ed è in questo contesto che Kundera riprende proprio l’Odissea che tra queste pagine è spesso citata e chiamata in causa. Ma si sa, il tempo passa e come questo scorre, come cambiano usi, abitudini, ricordi e memoria. Cambiano le persone, cambia chi siamo diventati e chi diventiamo, cambia chi eravamo e cambia anche chi abbiamo lasciato.
«Joseph si disse: oggi la gente abbandona il comunismo non perché le sue convinzioni siano cambiate o abbiano subito un duro colpo, ma perché il comunismo non dà più l'opportunità né di mostrarsi non conformisti, né di ubbidire, né di punire i malvagi, né di rendersi utili, né di procedere insieme ai giovani, né di avere intorno a sé una grande famiglia. Il credo comunista non risponde più ad alcun bisogno. È diventato a tal punto inutilizzabile che tutti lo abbandonano facilmente, senza neppure accorgersene.»
Tornare a quella che è stata la propria casa, a ciò che rappresenta le origini, non è semplice. Obbliga a mettersi a confronto con la realtà, con una realtà che probabilmente non riconosciamo più. Pone ancora innanzi a ciò che eravamo stati e a ciò che avremmo potuto essere, nel bene e nel male, ma anche a ciò che, per effetto, non siamo diventati.
“L’ignoranza” di Milan Kundera prende per mano i lettori e li accompagna in un viaggio fatto di vite, di mito e di Storia con la S maiuscola. Il tutto è corredato da uno stile narrativo articolato e minuzioso che si propone al lettore con cura e magnetismo. Quest’ultimo è travolto dalla ricostruzione di una umanità che si scontra con la realtà e la consapevolezza del proprio vissuto e del proprio “altrove”.
Un Kundera maturo, che si apprezza sempre più man mano che la lettura prosegue.
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Cartina al tornasole della condizione femminile
"Ho fatto male a comperare questo quaderno, malissimo. Ma ormai è troppo tardi per rammaricarmene....Io non ho mai pensato di tenere un diario, anche perché un diario deve rimanere segreto e, perciò, bisognerebbe nasconderlo...".
Negli anni '50 del secolo scorso la figura femminile è quella di una donna obbligata a essere soltanto moglie e madre, dedicando anima e corpo alla famiglia. Non esistono quindi spazi per l'affermazione personale, per mostrare un desiderio di sentirsi ancora una donna piacente e magari per innamorarsi ancora. Da questo contesto di partenza si costruisce tutta la narrazione diaristica, in terza persona, di Alba de Cespedes perché il valore aggiunto del libro sta tutto qui: nella disperata voce di una donna che vede nei suoi figli, Riccardo e Mirella, i semi di una ribellione alla tradizione, la volontà di un cambiamento della quale vorrebbe anche appropriarsi. Eppure, al tempo stesso, la forza delle consuetudini e delle responsabilità genitoriali è ancora così forte da cercare di impedire a se stessa ed anche a loro certi comportamenti sconsiderati.
Ecco che quel diario-quaderno comprato impulsivamente e conservato gelosamente di nascosto, diventa protagonista delle ore notturne di Valeria quando tutta la famiglia è oramai dormiente e lei può finalmente dedicare il poco tempo che le rimane a se stessa. A confessare i propri tormenti interiori, lasciando traccia scritta di quella difficoltà quotidiana che è il mestiere di madre, di moglie anche lavoratrice che deve trovare l’equilibrio richiestole dalla società, dall’ipocrisia borghese del dopo guerra che non riconosce ancora l’aspirazione femminile a vivere una vita personale ma solamente quella di adempiere a doveri famigliari.
Alba De Cespedes risulta cosi essere figura anticipatrice di un movimento femminista ancora agli albori in Italia, mostrando le contraddizioni e le difficoltà ad accettarsi per quello che si è, la difficoltà ad uscire da una spirale di conformismo che riguarda gran parte della società. Valeria diventa emblema della donna lavoratrice che vede nel lavoro un meccanismo di crescita personale che le offre perfino la possibilità di vivere una nuova emozione sentimentale con il proprio capo. Di contrappeso la casa, il focolare domestico si mostra crocevia di impegni e preoccupazioni familiari, soffocata nella morsa di un marito anche lui desideroso di emergere dalla routine sognando di diventare uno sceneggiatore famoso e le inquietudini dei figli, alle prese con aspirazioni di carriera – nel caso di Riccardo- e relazioni sentimentali extra coniugali, per quanto riguarda Mirella.
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Leggere Quaderno proibito ai nostri tempi apre profonde riflessioni sul percorso fatto dal secondo dopo guerra in poi su certe tematiche, certe aspirazioni dell’universo femminile che non sono state ancora pienamente raggiunte e realizzate. Di fatto è una cartina al tornasole di una società che ha impiegato davvero troppo tempo ad aprirsi ed a riconoscere diritti sacrosanti.
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Un cupo finale
L’ultimo capitolo della saga di Pip si rivela un epilogo intenso e coraggioso, capace di rispettare le attese e, allo stesso tempo, di sorprendere.
L’autrice sceglie una strada più cupa e drammatica rispetto ai primi volumi, segnando una netta cesura con l’atmosfera iniziale della serie. È una scelta rischiosa, ma estremamente efficace: il lettore si trova davanti a un racconto che non cerca più di rassicurare, bensì di scuotere.
Assistiamo alla definitiva trasformazione di Pippa: non più l’adolescente curiosa e incerta che avevamo conosciuto, ma una giovane donna disincantata, matura, capace di azioni e decisioni dure, persino spietate. Questo passaggio segna non solo la sua crescita, ma anche quella della saga stessa, che dimostra di sapersi evolvere e non restare intrappolata in schemi ripetitivi.
La trama è costruita con ritmo serrato, degno dei migliori thriller. Alcune sequenze trasmettono un’ansia palpabile, che si riflette direttamente nel lettore e rende la lettura quasi fisica, come se fosse impossibile staccarsi dalle pagine.
È un romanzo che segna la fine di un percorso e lascia un segno. Non è un finale consolatorio, ma uno che rispetta l’intelligenza del lettore, offrendo tensione, dramma e la consapevolezza che crescere, per i personaggi come per noi, significa spesso confrontarsi con la parte più buia della realtà.
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Questione di interpreti
Almost blu, letteralmente quasi blu, significa tante cose insieme: per esempio, è il titolo di un noto brano jazz di Elvis Costello, reinterpretato alla grande da Chet Baker, che funge in effetti da colonna sonora alla nostra storia; oppure almeno in un certo slang giovanile inglese intende anche uno stato allucinatorio che segue alle crisi di astinenza da alcool.
Musica e sballo da scimmia sulla spalla, quindi, che talora sono la stessa cosa, chissà.
Quello che più interessa al nostro racconto è “quasi blu”, un blu sfumato, in sintesi solo un colore, perché il protagonista del romanzo identifica le persone secondo una sua personalissima scala cromatica, a cui attribuisce un preciso tono di voce.
Simone infatti è una persona cieca, e guai a chiamarlo altrimenti, come per esempio “non vedente”, si incavola. Quelli che non vedono necessitano di certezze, di dire pane al pane, di delineare perfettamente le cose per come sono e non per come appaiono, non utilizzare un modo di dire politicamente corretto, se non pietoso e patetico, che mistifica l’essenza delle cose, e un cieco di tutto ha bisogno tranne che di deviazioni e spostamenti dalla realtà. Il giovane, come tanti nella sua condizione, ha affinato altri sensi per sopperire alla sua carenza, in genere sfruttano il tatto e l’udito.
Il nostro ha privilegiato “sentire”, inteso in senso lato assai più completo e complesso, trascorre l’esistenza ascoltando le voci con uno scanner, le riconosce, le interpreta, le vive, le caratterizza.
Per lui le voci sono colori, suoi particolarissimi colori, ognuno diverso dall’altro, con tutte le sfumature dello spettro luminoso, quello che ogni cieco realizza nella sua testa illuminata a giorno, ed i colori gli descrivono con estrema precisione le persone a cui le voci appartengono.
Un talento di cui si serve ai suoi fini investigativi l’ispettore Grazia Negro, profiler in servizio presso la questura di Bologna, alle prese con un serial killer di giovani studenti.
Ispettore, o ispettrice che dir si voglia, che in verità non se la passa tanto bene, Lucarelli è bravo, onesto, veritiero, descrive alla grande la sua Bologna, comprendendo anche gli umori, le atmosfere, le sensazioni, il clima retrogrado, apertamente e biecamente maschilista del tempo in cui è ambientata la storia, poco prima del motore del duemila, che sarà un motore intelligente, ma allora, in maniera neanche tanto velata, era ancora ottuso di brutto. Allorché l’andazzo sussisteva ancora assai retrivo, gli ambienti di lavoro, in particolare certi ambienti a prevalenza di personale maschile come la polizia, a malapena sopportavano una donna convinta che nella città rossa, nella piccola metropoli dotta e orgogliosa del suo antico ateneo, nel capoluogo che conserva intatti i sani valori di una gastronomia succulenta, grassa come i salumi serviti nelle sue note osterie, si aggiri un serial killer.
Non scherziamo, mica siamo in America, trattasi certamente di fantasie da donne in quei giorni del mese. Un serial killer invece esiste per davvero, si chiama “L’iguana”.
Che neanche si mimetizza, ci parla di sé in prima persona, e ci angoscia leggerlo: perché ascolta le campane che suonano direttamente dall’inferno in cui vive. L’inferno è orrore rumoroso.
Il serial killer è chiamato così dalla nostra eroina per il suo mimetismo, malgrado sia “verde cupo” come lo identifica Simone può celarsi con altri colori, non è una grossa lucertola, è un rettile aggressivo e crudele, e qui è un assassino multiforme, uno che assume l’identità, la pelle, le sembianze delle sue vittime, finanche i loro colori, per cui la sua voce è una miscellanea di suoni raccapriccianti, che angoscia noi e terrorizza lo stesso Simone.
Carlo Lucarelli scrive bene, questo è un racconto breve ma ricco di suoni, colori, personaggi stilizzati alla grande, e poi i tre protagonisti quasi in fusione tra loro, sarà un giallo o un noir ma è anche storia d’amore, di vite, di legami, una lettura rapida e piacevole, non disturbante ma che incide in chi legge, ispira mestizia e sollievo insieme.
Lucarelli eccelle: restituisce la vista al suo personaggio cieco, e la melodia all’assassino che si bombarda le orecchie di suoni altissimi per cancellarne altri. In sintesi, racconta del bene e del male, di chi riceve amore e di altri a cui è stato negato, di colori e di suoni.
Sono sempre gli stessi i colori base, e sempre sette le note: ma il risultato, dipende dagli interpreti.
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L'enigma di una Madre
Molti, compreso l’autore, lo hanno definito un romanzo sul patriarcato, ma la vicenda narrata appare più quella di una famiglia disfunzionale che quella di un padre-padrone. Al posto di quest’ultimo c’è invece un uomo debole, incapace di controllare la sua rabbia, egoriferito all'eccesso, la cui violenza non è la conseguenza di un sistema sociale di regole, ma il portato di un vero e proprio caso clinico (ricordiamo che siamo dinanzi ad una autofiction, frutto di rielaborazione e di invenzione, e non ad un racconto autobiografico). E comunque non è certamente a questa figura che si deve guardare per cogliere il valore e il senso de L’anniversario, perché il personaggio più originale, più vero, quello su cui si sofferma e, per così dire, si tormenta la fantasia creativa dell’autore, nel tentativo di fissarla e di individuarla, è quello della madre. Succube del marito, rassegnata al suo ruolo di vittima, ripiegata nell'ombra, incapace di avere di sé un briciolo di autostima, ella appare talmente appiattita sulla figura del marito che il narratore deve porsi innanzitutto l’obiettivo di staccarla dall'immagine di lui con il bisturi della memoria, selezionando quei momenti in cui ebbe un suo ruolo autonomo, una sua peculiare fisionomia. Sul piano della scrittura è sintomatico che il narratore ricorra frequentemente alla negazione per costruirne l’immagine, ad esempio nel riferire il contenuto di una telefonata con la quale lo invitava a farsi vivo : “Ma mio padre -ripeteva- era pronto a perdonare la mia temporanea lontananza. Di sé non diceva niente, non riteneva potesse essere di qualche rilevanza. Non c’era disperazione, in quello che diceva, credo sapesse già che non c’era nulla da fare, ma andava fatto anche quell'ultimo tentativo di madre”(p.118). Si veda anche il commento ad una sua mail di tenore non diverso, spedita dopo aver subito una rapina: “Qualche ora dopo arrivò la mail di mia madre… Non si menzionava tra le persone che contavano. Non nominava il borseggiatore né la lussazione. Non nominava mia sorella o le nipoti. Chiudeva dicendo che non capiva come mai mi fossi allontanato” (p.126). L’occhio del figlio-narratore indugia su alcuni particolari che la mostrano goffa, patetica, non senza un margine di tenerezza: la caviglia sottile, la leggera, quasi impercettibile zoppia, esito della polio contratta da piccola, la sveglia portata con sé in uno dei primi appuntamenti col futuro marito, non avendo trovato l’orologio nell'ansia frenetica dei preparativi. Né sfugga l’incipit del romanzo e forse il suo momento più prezioso, quando violando le regole (assurde, ma consolidate da una inveterata sottomissione) sopravanza il marito sulla soglia nell'atto di congedare il figlio e gli domanda: “Tornerai a trovarci?" (p.12). Nulla c’era stato in apparenza, almeno durante quella cena, che lasciasse presagire la catastrofe, ma aveva avvertito prima degli altri, prima dello stesso interlocutore, l’appressarsi dell’imminente e definitiva rottura. Se la condanna del padre è netta, recisa, senza possibilità di riscatto, questa figura sottile rimane quasi enigmatica e a tratti si ha l’impressione che ella abbia piena coscienza della nevrosi da cui il marito è affetto e che il suo mettersi da parte, il suo cedere sistematico, il suo ruotare intorno a lui come l’ultimo e il più sperduto dei satelliti, sia una più o meno consapevole strategia per salvare matrimonio e famiglia. Tentativo vano e fallimentare, ma non lascia indifferenti, tra i battiti nascosti della scrittura, quell'ultima scena in cui il protagonista, osservando il suo bambino che dorme, coglie sul suo viso i tratti materni (p.127).
Lo squilibrio del padre e l’assurda negazione di sé della madre trovano una conseguenza inevitabile nella nevrosi del figlio, costretto a ricorrere ad una psicoterapeuta ottantenne, che riceve anche a Natale e prolunga al telefono le visite dei suoi pazienti quando ne hanno bisogno. Questa vecchietta sempre più striminzita nel suo camice bianco è una delle creazioni poetiche più originali del testo.
Alcuni lamentano una qualche freddezza dello stile. In realtà si tratta di quella ricerca della precisione di cui si parla nel finale e che viene annoverata tra gli insegnamenti ricevuti dalla figura sapienziale dell’analista. Al contrario, dall'intera rievocazione, traspaiono un’emozione trattenuta e l'agitarsi, come una sorta di sottotesto, di una domanda che anche il lettore si pone: fu giusta quella separazione, non fu forse eccessiva, troppo brusca, severa, punitiva? Il fascino del romanzo sta proprio in questo dubbio che si insinua tra le sue pagine e rischia di rovesciarne il senso razionalmente dichiarato. Ciò che probabilmente rappresenta la vera misura del suo fascino.
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Il dolore che insegna a rinascere
Romanzo autobiografico che vibra di verità e ferita. È la storia di un uomo che precipita nel baratro dell’alcol e della disperazione, ma che trova una via inattesa di risalita nell’incontro con il dolore altrui. Daniele, poeta e protagonista, accetta di lavorare presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. È un ambiente che potrebbe schiacciarlo, fatto di sofferenza innocente e corpi fragili. Invece, proprio lì, tra i corridoi e le stanze dei bambini malati, la vita gli si riapre: lo specchio delle esistenze minacciate diventa la sua possibilità di riconciliarsi con sé stesso. Il romanzo alterna crudezza e poesia, realismo e lirismo. Mencarelli non risparmia nulla: la fatica, i pensieri cupi, le cadute; ma la sua scrittura è attraversata da una compassione che scalda. Gli sguardi dei bambini, dei genitori, dei colleghi, illuminano la sua discesa e, paradossalmente, la sua risalita. È un libro che interroga il lettore: fino a dove può spingersi la disperazione umana, e da dove può nascere la speranza? La risposta, suggerisce l’autore, non è mai teorica, ma si trova nella concretezza dei volti incontrati, nelle relazioni che curano, nei frammenti di bellezza che resistono anche nella malattia. Qualche pagina indulge in una ripetizione di immagini e riflessioni, ma è parte della natura del testo: come se il dolore stesso avesse bisogno di tornare, insistere, ribadire. Ne risulta un romanzo potente, che colpisce e resta, ma è da affrontare solo se predisposti a cercare una testimonianza autentica e coraggiosa, se no rischia di scorrere forse anche un po' stancando. E’ la testimonianza di come l’incontro con il dolore possa diventare la più radicale forma di guarigione e va onorato con rispetto. Una lettura che scuote e che invita, in silenzio, a custodire ciò che conta davvero.
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Un viaggio verso un luogo dimenticato
Il mondo che ha creato la Taylor è uno spettacolo pieno di magia e cose inimmaginabili, con animali e persone fuori dall'ordinario e con un bagaglio di storie e leggende infinite.
In mezzo a tutte queste cose fantastiche però ci sono le passioni, le paure del diverso e tutta quella varietà di sentimenti che troviamo anche nel nostro di mondo come la vendetta, la rabbia, il perdono e la paura.
Il sognatore mi ha incantata, scoprire piano piano la realtà in cui si ambientava la storia è stato bellissimo, come pure leggere di come il giovane protagonista si avvicinava al compimento del suo destino, circondato da amici o meno, che però lo hanno aiutato a formare la sua personalità, così come è stato affascinante conoscere l'altra protagonista con tutta la sua forza le sue fragilità e i suoi compagni .
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Fantasy
INDAGINE SU UNA DITTATURA
“Per la sua cartografia delle strutture del potere e per le sue immagini acute della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo.” (Motivazione del Premio Nobel per la Letteratura assegnato nel 2010 a Mario Vargas Llosa)
“Trujillo, uno dei dittatori più infami del XX secolo, governò la Repubblica Dominicana fra il 1930 e il 1961, con implacabile e spietata brutalità. Trujillo […] era un mulatto sadico, corpulento, dagli occhi porcini, […] che arrivò a controllare praticamente ogni aspetto della vita politica, culturale, sociale ed economica della RD grazie a una potente (e ben nota) miscela di violenza, intimidazione, massacri, stupri, cooptazione e terrore. Trattava il paese come una piantagione, di cui si considerava il padrone assoluto. Di primo acchito poteva sembrare il tipico caudillo latinoamericano, ma il suo potere raggiungeva estremi che pochi storici o scrittori hanno saputo cogliere, e nemmeno, a mio parere, immaginare. Era […], un personaje così bizzarro, così perverso, così spaventoso che neppure uno scrittore di fantascienza avrebbe potuto inventarlo. Famoso […] per aver monopolizzato ogni porzione del patrimonio nazionale (cosa che lo trasformò rapidamente in uno degli uomini più ricchi del pianeta); per aver messo in piedi uno dei più grossi eserciti dell’emisfero (…); per essersi scopato ogni femmina sexy che gli capitava sotto tiro, migliaia e migliaia di donne, comprese le mogli dei suoi collaboratori; per aver richiesto, anzi, preteso una venerazione assoluta da parte del pueblo (lo slogan nazionale, per esempio, era “Dio e Trujillo”,[…]); per aver governato il paese come un campo d’addestramento dei Marines; per aver privato amici e alleati del lavoro e di ogni possedimento senza alcun motivo; e per le sue capacità quasi soprannaturali.” (Junot Diaz: “La breve favolosa vita di Oscar Wao”)
Se da una parte si può ragionevolmente sostenere che Gabriel Garcia Marquez, con “L’autunno del patriarca”, abbia scritto il romanzo definitivo sui totalitarismi che nel Novecento, come un terribile cancro, si sono avvicendati in gran parte del continente centro e sudamericano, creando un personaggio immaginario e indimenticabile, atemporale fino a sfiorare l’eternità ed eccessivo al punto da contenere in sé i molteplici tratti che hanno contraddistinto i vari caudilli del mondo reale, dall’altra non si può negare che sia stato Mario Vargas Llosa a perlustrare con instancabile caparbietà tra le pieghe della Storia per affrontare nelle sue opere le pagine più nere, ancorché meno conosciute, delle feroci dittature e delle sanguinarie autocrazie latinoamericane, da quelle di Manuel Odria nel Perù di “Conversazione nella Catedral” a quella di Carlos Castillo Armas nel Guatemala di “Tempi duri”, passando per quella di Rafael Leonidas Trujillo Molina nella Repubblica Dominicana de “La festa del Caprone”. In quest’ultimo romanzo lo scrittore peruviano ci ha consegnato il ritratto impareggiabile di una tirannia il cui aspetto più tremendo e spaventoso non è stato tanto quello delle violenze, delle torture, della corruzione e della sistematica spoliazione di un’intera nazione, quanto quello dell’asservimento assoluto di un popolo al suo capo, a cui aveva ciecamente consegnato corpi, anime e coscienze. Il culto della personalità di Trujillo, elevato al rango di un vero e proprio dio in terra (un dio terribile ma giusto, feroce ma munifico), aveva dato luogo a una acquiescente docilità e a una servile reverenza tali che i suoi sudditi, nonostante le atroci ingiustizie cui erano stati sottoposti per anni, erano giunti ad assuefarsi all’orrore (un esempio tra i tanti, stranamente poco conosciuto al giorno d’oggi, è l’eccidio di circa ventimila immigrati haitiani, passato alla storia con il nome di “massacro del prezzemolo”) e addirittura, obnubilati da una pervasiva ed asfissiante propaganda, ad amare il loro dittatore. Non è un caso che la congiura raccontata dal romanzo di Vargas Llosa, che porterà alla morte di Trujillo, non è mai stata una rivoluzione popolare (perché i dominicani rimasero fino alla fine fedeli al regime e si presentarono in massa a rendere omaggio al feretro del “Padre della Patria”) ma una cospirazione nata all’interno della classe medio-alta (rappresentanti dell’Esercito, funzionari della pubblica amministrazione), per motivi in gran parte personali (umiliazioni subite, persecuzioni familiari, ecc) più che ideali e politici. L’attentato a Trujillo è il centro intorno a cui ruota tutto il romanzo, conferendogli quell’appassionante ritmo da thriller politico, capace di avvincere il lettore e di tenerlo incollato per tutte le sue quasi cinquecento pagine. Vargas Llosa segue come un’ombra i personaggi coinvolti nell’omicidio di Trujillo, tanto nelle ore che lo hanno preceduto quanto in quelle successive della repressione e della spietata caccia ai responsabili. Ma a caratterizzare veramente il romanzo, a renderlo così unico e difficile da dimenticare, è a mio avviso la sua parte “moderna”, quella che descrive il ritorno a Santo Domingo dopo trentacinque anni di volontario esilio negli Stati Uniti di Urania, la figlia di un potente uomo del governo trujillista poi caduto in disgrazia. La donna visita il vecchio padre malato e il resto della famiglia, con cui aveva troncato tutti i rapporti, in una sorta di definitiva chiusura dei conti con il passato. L’odio di Urania per suo padre emerge lentamente, progressivamente, e il disvelamento repentino dei motivi che lo hanno provocato ha l’effetto di un pugno nello stomaco, tanta è la crudeltà di quello che è successo nel lontano passato della donna, allora ragazzina di quattordici anni, la cui verginità era stata a sua insaputa offerta dal genitore in sacrificio al Capo per cercare di riguadagnare la sua benevolenza perduta. L’abilità in qualche modo “perversa” di Vargas Llosa è di farci percepire l’orrore all’improvviso, quasi alla fine del libro, e di renderci contemporaneamente consapevoli, retrospettivamente, che quell’orrore era sempre stato lì fin dall’inizio, solo che non ce ne eravamo accorti, distratti dalle tante circonvoluzioni della trama. Così è in fondo anche per la storia della Repubblica Dominicana (ma, a ben vedere, anche delle tante dittature, siano esse centro-sudamericane o meno), la quale da un lato mostra un volto benevolo e tranquillizzante (come quello dell’ex modello Manuel Alfonso, assurto ad elegante e raffinato ambasciatore della nuova Repubblica, o quello del colto poeta Balaguer, nominato da Trujillo Presidente della Repubblica perché estraneo alle vicende più ambigue del regime), dall’altro cela al suo interno il suo aspetto irrimediabilmente luciferino, bestiale e mostruoso.
Siccome “La festa del Caprone” è un’opera di Vargas Llosa (e persino una delle sue più rappresentative, se non addirittura delle sue più memorabili) non può stupire più di tanto il fatto di trovare in essa i tratti caratteristici dei romanzi che lo hanno reso famoso, ossia la commistione di presente e passato, di storie individuali e di Storia collettiva, e persino i “dialoghi telescopici” innestati l’uno sull’altro pur avvenendo tra persone e in tempi diversi. E’ vero che qui lo stile è molto meno avanguardistico rispetto alla celebre “Conversazione nella Catedral” (addirittura nella sua prima metà il libro è rigorosamente tripartito, con le parti relative a Urania, a Trujillo e ai congiurati disposte in un rigido schema 1,2,3,1,2,3, e così via), pur tuttavia bisogna riconoscere che la maestria dell’autore nel tenere costantemente viva la suspense e nel creare spiazzanti e spericolati colpi di scena non viene mai meno. Vargas Llosa riesce inoltre magistralmente nell’intento di descrivere quell’atmosfera asfissiante e tossica di una nazione in ostaggio del suo leader e in preda al fatalismo e alla paura, un’atmosfera talmente incistatasi nello spirito della popolazione che neppure la morte del tiranno riesce a dissipare completamente, tanto è vero che la stessa Urania è costretta con amarezza a riconoscere alla fine, quasi rivivesse una sorta di incubo ricorrente di cui non ci si può mai liberare del tutto, che “c’è ancora qualcosa di quei tempi che è nell’aria da queste parti”. Questa frase può ben sintetizzare il monito che Vargas Llosa ci ha lasciato con le sue opere, vale a dire che la democrazia, la libertà e i diritti civili e politici non sono poi così scontati e definitivi, ed il passato, mai completamente sepolto, può sempre riemergere in qualsiasi momento per ristabilire il regno dell’odio, dell’oppressione e dell’oscurantismo.
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Parabola prosaica in cinque atti
Classe 1995, “Il tagliapietre” altro non è che un dramma teatrale scritto da Cormac McCarthy e ripubblicato postumo alla morte dell’autore da Einaudi. È un testo che al momento della sua pubblicazione non fu ben accolto dal pubblico, non suscitò nemmeno un particolare interesse da parte della critica. A tal proposito basti pensare che, seppur trattasi di una sceneggiatura di carattere teatrale, mai ha ricevuto una rappresentazione in teatro.
Tra le ragioni che al tempo non portarono a una sua positiva accoglienza vi sono prevalentemente tre motivi ostativi. Un primo è radicato nello stile narrativo che per quanto amato nell’autore è in questo caso fin troppo ricco e articolato a causa di una prosa biblica e a causa dell’uso di uno slang/dialetto non semplice da apprezzare, un secondo rimanda alla metafisica, già trattata dal romanziere come ad esempio in “Sunset Limited”, ma certamente non semplice da percepire e non facile da “digerire” da tutti, a maggior ragione se il prosaico si mixa con la religione sino ad assumere una sfumatura metaforica, infine la complessità dell’opera che viene pensata dall’autore quale un personaggio con doppia rappresentazione.
Dunque, “Il tagliapietre” è in primis una vera e propria sceneggiatura intrisa di dialoghi, lirismo e significati da saper cogliere. Ancora, l’atmosfera che ci viene descritta ben si fonde con gli stati d’animo dei tanti personaggi che vengono narrati. Questo favorisce la potenza narrativa che porta alla riflessione. Molteplici anche le tematiche che oscillano tra il retaggio familiare, il conflitto con la tradizione, l’individualità, la società moderna, il lavoro, le scelte di vita di ogni singolo personaggio.
Dramma in cinque atti, “Il tagliapietre” si colloca in una delle stagioni più feconde di McCarthy, subito dopo “Meridiano di sangue” e contemporaneamente alla “Trilogia della frontiera” (composta da “Cavalli selvaggi”, “Oltre il confine” e “Città della pianura”). Protagonista dello scritto è la famiglia Telfair, giunta a Louisville, Kentucky, Carolina del Sud. La pièce si ambienta prevalentemente nella cucina di casa, protagonista principale è Ben, nipote dell’ultracentenario Papaw, trentenne che ha rinunciato agli studi universitari per fare lo scalpellino e cioè il lavoro del nonno. Il testo assume la veste di parabola biblica in cui Papaw assume il ruolo dell’Altissimo e Ben il ruolo di Cristo. Big Ben, di contro, rappresenta Giuda che preferisce il cemento e gli affari loschi al mestiere del padre e del figlio. Tutto ruota attorno al mestiere che si trova all’origine del tutto. L’uscita di scena del patriarca porta inevitabilmente al peccato e alla morte. Non mancano, ancora, riflessioni sulla condizione delle persone di colore e delle donne nonché una forte retorica che a tratti risulta pesante e rende lo scritto farraginoso.
«Se non fosse stato per lui avrei fatto l’insegnante… Il mestiere non era nei libri. Ce lo tenevamo stretto al cuore. Ce lo tenevamo stretto al cuore ed era come un potere e sapevamo che non ci avrebbe tradito.»
Altra cosa che può dividere il lettore è proprio la scelta dei temi. Tra queste pagine siamo davanti a temi più tradizionali e meno “originali”. Il tratto più originale è ravvisabile, infatti, nella scelta narrativa e quindi non anche nella riconoscibilità delle tematiche.
“Il tagliapietre” è un testo che ricorda molto gli ultimi lavori dell’autore e in particolare “Il passeggero” e “Stella Maris”. È un testo dove prevale l’aspetto metafisico e il concetto di destino ineluttabile. È un elaboratore che fa riflettere ma anche soffrire perché obbliga il lettore a confrontarsi con l’anima più nascosta dell’essere umano mixando modernità e tradizione.
Non è un testo che mi sento di consigliare come primo titolo di McCarthy, è uno scritto a cui avvicinarsi dopo aver letto un poco della sua produzione. Resta però un dramma teatrale da conoscere e con cui approfondire uno degli scrittori più interessanti della nostra contemporaneità e che certamente non può mancare a chi ne ha apprezzato i vari lavori.
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Insáccatelo e cinghiatelo da solo, grazie
Anche alle persone più solari e spensierate capita di riflettere sulla propria morte, magari fantasticando sulle reazioni di amici e parenti o sul destino dei loro beni, ma solo il caro Stephen poteva arrivare a scrivere un intero romanzo su queste elucubrazioni. Come parecchi suoi lavori, "La storia di Lisey" ha infatti dei chiarissimi contorni autoreferenziali, incentrando la narrazione proprio su una coppia formata da un talentuoso ed apprezzato autore originario del Maine e sua moglie. I protagonisti scrittori sono uno stilema della produzione kinghiana, ma ammetto che la mia curiosità verso questo romanzo in particolare è nata nel momento in cui lo stesso King lo ha definito il suo preferito.
Purtroppo mentirei se mi dicessi d'accordo, ed una delle ragioni si cela proprio nella storia raccontata. La prospettiva scelta è quella di Lisa "Lisey" Debusher Landon, da due anni vedova dell'amato marito Scott, venuto a mancare prematuramente. Nel tentativo di elaborare il proprio dolore, ma soprattutto per le pressioni esterne da parte di persone che sperano di scoprire opere postume del romanziere, Lisey inizia a riordinarne l'ufficio; e questo la porta a smuovere vecchi ricordi, ma anche a rievocare fantasmi passati tutt'altro che metaforici. Tra la preoccupazione per la salute della sorella Amanda "Manda" e la minaccia di un fan dai tratti anniewilkesiani, si procede in un viaggio non sempre lineare tra i momenti più intensi e difficili del matrimonio con un uomo decisamente complicato.
Questa mancanza di linearità è il problema al quale accennavo, e non solo nell'intreccio in sé: i primi capitoli sono caotici, la trama oscilla tra l'essere dispersiva ed il farti chiedere se ci sia davvero, e generi parecchio lontani tra loro (come horror e realismo magico) vengono mescolati senza la necessaria attenzione. Il risultato è una narrazione labirintica che confonde ed ostracizza il lettore, riuscendo comunque ad affascinarlo almeno in parte per la peculiare struttura del volume, parecchio simile ad una matrioska destrutturata. Un altro aspetto che potrebbe rendere la lettura intrigante ed al contempo sfidante è la presenza di un corposo linguaggio familiare, utilizzato soprattutto da Lisey e Scott; all'inizio sembra una trovata carina per creare subito un clima di affetto e complicità tra i due, ma dopo centinaia di pagine farcite di neologismi e battutine ridonanti, l'effetto ottenuto è un po' diverso.
Passando però ai punti di forza veri e propri, abbiamo delle svolte di trama per nulla banali, una rappresentazione alquanto interessante ed allegorica della salute mentale -specie nella delicatezza con cui viene trattato un tema così sensibile-, ed una protagonista non soltanto simpatetica ma capace di emanciparsi dall'ombra creata dalla fama di suo marito. Lisey parte con parecchie incertezze e poco carisma, ma con il procedere del romanzo acquista sempre più risolutezza e coraggio nell'affrontare minacce tangibili e turbamenti psicologici. In poche parole, la personaggia perfetta per una narrazione principalmente introspettiva e riflessiva.
Altro grande pregio è dato dal focus sulla storia della famiglia Landon (e prima Landreau) e sul pericolo rappresentato da "Zack McCool". La prima è davvero piacevole da scoprire un po' per volta, con un giusto bilanciamento tra scene devastanti ed attimi di calore; il secondo non sarà all'altezza delle emozioni suscitate in "Misery", ma regala comunque dei momenti terrificanti e brutali, oltre ad una soddisfacente risoluzione. Approvato anche il comparto personaggi: come succede (quasi) sempre, il caro Stephen riesce con semplicità a delineare dei caratteri credibili e chiari nelle loro motivazioni personali.
Ad avermi un filino delusa è stata invece la poca rilevanza data a Castle Rock come ambientazione principale delle vicende raccontate. In storie come "Il fotocane", "Cujo", e perfino "La zona morta" questa città forniva un contesto molto più rilevante ed immersivo; qui invece è un mero fondale, e le informazioni inedite raccolte sono ben poco impattanti: a chi importa se lo sceriffo non è disponibile perché in luna di miele? Anche il finale ha influito significativamente sulla mia valutazione complessiva, perché gli ultimi capitoli danno l'impressione di trascinare più del necessario la storia. In definitiva, non è stata una lettura del tutto trascurabile, ma credo che l'autore abbia trattato gli stessi temi e delle dinamiche molto simili in altri titoli, con risultati sicuramente migliori.
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Alla fine non era bigamia, allora!
Ormai sono certa di poter sempre riaccendere il mio entusiasmo per la lettura con un giallo della cara Agatha: ogni volta che mi sento arenata in un libro più ostico (nel caso in questione, si trattava de "La storia di Lisey") posso ripiegare sulla sua bibliografia. Il mio rimedio in questa occasione è stato "Non c'è più scampo", l'ennesima indagine risolta dal buon Hercule, abbastanza classica nella sua struttura ma con una nuova voce narrante, oltre ad una significativa variatio in termini di ambientazione.
Lasciamo infatti la solita, nebbiosa Inghilterra e ci spostiamo in Mesopotamia, come suggerisce il titolo originale, nei pressi della città fittizia di Tell Yarimjah in Iraq. Nel vicino scavo di Hassanié il professor Eric Leidner, che è al lavoro con una numerosa squadra cosmopolita, convoca l'infermiera Amy Leatheran -ossia il nostro unico POV- per assistere la moglie Louise. La donna è fornita di un portentoso carisma, ma ultimamente sembra terrorizzata da una misteriosa minaccia, che alla fin fine si rivela molto meno immaginaria di quanto sembrerebbe in un primo momento.
L'ineffabile Poirot arriva quindi a narrazione inoltrata, e nel complesso è anche meno incisivo del suo solito, però è mi risultato abbastanza piacevole. Con la narratrice scelta va ancora meglio: impossibile rimpiangere l'adorabile imbranataggine di Hastings quando l'arguzia e l'ironia di Amy la rimpiazzano senza fatica; la sua prospettiva mi è piaciuta anche perché ricorda in più passaggi un modo di vedere la realtà molto simile a quello di Miss Marple. Lo stile è stato inoltre adattato in maniera ottimale alla personalità di questo POV, rendendolo coerente con i suoi trascorsi ed il contesto generale.
Tra gli aspetti positivi di questo romanzo ben poco pretenzioso abbiamo poi un'introduzione che motiva in modo solido il registro narrativo (trovando inoltre una chiusura soddisfacente nel finale), numerosi elementi autoreferenziali -legati al mondo dell'archeologia ma anche alle mansioni infermieristiche- che rendono più credibile la vicenda, e la scelta di una romance sulla quale una volta tanto non ho nulla da eccepire: ben bilanciata, utile all'intreccio e più che moderata nell'epilogo, dove solitamente Christie esagera un po' con il voler creare a forza tante coppiette felici.
Tenendo in considerazione la buona traduzione, l'utile elenco dei personaggi, prefazione e postfazione, in teoria anche l'edizione potrebbe essere annoverata tra i pregi; mi sembra però corretto segnalare che nelle poche pagine introduttive è stato incautamente incluso un grosso spoiler ad un altro lavoro della cara Agatha... fortuna che l'avevo già letto! Sulla risoluzione di questa indagine non vengono invece fornite informazioni di troppo, e personalmente devo ammettere che mi ha lasciata un filino combattuta. Perché se da un lato la spiegazione di Poirot non lascia interrogativi in sospeso e crea un interessante ribaltamento delle dinamiche, dall'altro mi ha dato l'impressione di essere alquanto macchinosa e non del tutto verosimile.
Il tipico monologo dell'investigatore belga porta su carta anche la mia maggiore riserva su questo titolo, oltre a sottolineare ancora una volta quanto siano incapaci le forze dell'ordine nell'universo christieano. Al di là di delle solite osservazioni degradanti più che datate sulle culture extrabritanniche (doppiamente offensive, se consideriamo l'atteggiamento predatorio dell'archeologia colonialistica), qui troviamo una palese apologia della violenza di genere; a rendere ancor più grave questo aspetto è la decisione di mettere delle simili osservazioni in bocca a personaggi molto positivi: capirei fosse il modo distorto di vedere la realtà dell'assassino di turno, ma sentire certi commenti dal "buon" Hercule mi ha davvero intristito.
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Una favola molto orwelliana
A quattordici anni dalla pubblicazione in lingua, ad undici da quando io ho iniziato a recuperare la serie e ad uno (prima) dell'uscita dell'adattamento cinematografico, finalmente ho trovato il tempo di leggere "I segreti del bosco proibito". Primo capitolo in una trilogia middle grade, questo volume catturò all'epoca la mia attenzione principalmente per merito delle illustrazioni di Carson Ellis -artista nonché moglie dello scrittore-, che dalla copertina all'ultima pagina passando per risvolti ed intestazioni di capitolo arricchiscono l'intero volume, oltre a donargli un'atmosfera in perfetto equilibrio tra la giocosità dell'infanzia ed un tono più serio, a tratti perfino cupo.
Pur immersa in un chiaro contesto fantastico, la vicenda comincia nella Portland dei giorni nostri, dove la dodicenne Prue McKeel assiste impotente al rapimento del fratellino Mac ad opera di una turba di corvi. Il bimbo viene trasportato in volo nella cosiddetta Landa Impenetrabile -una zona boscosa ad ovest della città, corrispondente al quartiere reale di Forest Park-, dove la ragazzina decide di avventurarsi per salvarlo, accompagnata suo malgrado dal compagno di classe Curtis Mehlberg. In poco tempo, i due vengono divisi e si trovano coinvolti in modo diretto nelle lotte intestine tra i bizzarri abitanti del luogo; in particolare nella contrapposizione tra il (fin troppo) civilizzato Bosco Sud ed il caotico Bosco Selvaggio, al centro di questo mondo surreale.
Questa ambientazione favolistica è uno dei punti chiave del romanzo, e potrebbe attirare i lettori tanto quanto respingerli: in un primo momento, io sono rimasta spiazzata dalla presenza di animaletti parlanti di ogni sorta, che si andavano delineando come dei comprimari abbastanza puerili; andando avanti ho però realizzato la presenza di chiari parallelismi tra queste creature e delle figure ben più realistiche. Inoltre questa scelta permette di includere temi concreti e rilevati, adeguandoli però al pubblico di ragazzini per il quale è pensato il libro, in modo che siano comprensibili e vicini alla loro prospettiva.
Anche il tono ed il lessico risultano del tutto adatti al target, ma non per questo semplicistici: ho notato anzi il tentativo di includere concetti e termini complessi, con un'intenzione sfidante e propositiva verso chi legge. La prosa del caro Colin è inoltre caratterizzata da un buon utilizzo dell'umorismo -seppur a piccole dosi- e da un ottimo ritmo narrativo, perché la grande quantità di informazioni da fornire a protagonisti e lettori viene introdotta con gusto e nei giusti tempi. Tra i punti di forza troviamo inoltre l'intreccio, d'effetto e coerente, che pur essendo un po' lontano dai miei gusti di adulta sono riuscita a trovare gradevole.
Il maggior pregio del romanzo si può però individuare nei suoi personaggi. Prue e Curtis sono degli eccellenti protagonisti, con una caratterizzazione coerentemente solida e dei difetti dai quali partire per potersi migliorare; specialmente Curtis, che in un primo momento non fa proprio una gran figura, ottiene poi la sua chance di riscattarsi agli occhi del lettore. Sono poi presenti diversi comprimari interessanti, ma a conquistarmi è stata senza dubbio l'antagonista principale, della quale si possono comprendere le motivazione senza per questo volerla rendere simpatetica ad ogni costo, una lezione che gioverebbe a tante storie (in teoria) più mature.
Oltre alla mia ovvia disaffinità con il target, mi è invece dispiaciuto leggere alcuni passaggi emotivi trattati in maniera affrettata; penso in particolare alla risoluzione presa da Curtis ed al momento della confessione fatta dai genitori di Prue. Sono inoltre presenti diversi elementi che facilitano un po' troppo il percorso dei protagonisti, ed in generale manca dell'approfondimento nel loro coinvolgimento iniziale all'interno delle dinamiche del Bosco: troppo rapido, dato quasi per scontato dalla narrazione. Questi difetti sono comunque delle minuzie, rispetto a quanto temevo viste le mie ultime (disastrose!) incursioni al di fuori dei libri adult.
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Amore per sempre
Romanzo pubblicato da Ignazio Silone nel 1956, “Il segreto di Luca” è una lettura inaspettata, che fa trovare, nel bel mezzo della campagna abruzzese del Novecento, una storia d’amore degna degli Stilnovisti.
Luca Sabatini torna nel suo paese d’origine dopo quarant’anni. Ormai è un vecchio ma ancora sano, alto e robusto. I suoi capelli sono grigi e molto corti, la barba di alcuni giorni, i piedi scalzi. Arriva a Cisterna dei Marsi, paesino situato a 950 metri sul livello del mare in un giorno d’estate, dopo la fine della seconda guerra e varie altre calamità che qui si sono abbattute. Pochi suoi coetanei sono ancora vivi, ma quei pochi se lo ricordano bene: Luca ha scontato 40 anni di prigione, di ergastolo per la precisione, per un crimine che in realtà non ha mai commesso. Cosa è celato dietro il suo sacrificio? Quale storia struggente, avvincente o drammatica ha voluto nascondere Luca, tano da aver preferito scontare un ergastolo invece di raccontarla pubblicamente? Infatti Luca è innocente. Il vero colpevole ha finalmente confessato il delitto poco prima di morire e Luca è stato graziato e rimesso in libertà, ma senza un indennizzo da parte dello Stato per l’errore giudiziario subito e senza la riabilitazione, che richiederebbe un altro processo. Luca può però contare su alcuni vecchi e nuovi amici, il vecchio parroco don Serafino, il giovane Toni e soprattutto Andrea Cipriani, il figlio del suo migliore amico di gioventù, che non ha mai avuto dubbi riguardo alla sua innocenza. È proprio Andrea che vuole ricostruire finalmente quali sono stati i fatti e le circostanze che hanno spinto Luca a subire una pena tanto grave pur non avendo commesso il reato. E li ricostruirà, così anche noi lettori potremo conoscere quale fu il segreto di Luca.
Romanzo pieno di poesia, d’amore e di sentimento, questo gioiellino della nostra letteratura italiana del Novecento saprà farvi trascorrere qualche ora colorata di romanticismo e di malinconia.
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Cono e Serenella
Tra gli anni Trenta e Quaranta nel Vallo di Diano, a Monte Rianu, il romanzo narra la storia di Cono Trezza, figlio del mezzadro GIuseppe, e Serenella Pinto, figlia di un artigiano socialista. I due si innamorano in un ambiente prettamente contadino segnato dalla povertà e dalla crescente oppressione fascista. In questo contesto, pur essendo un gran lavoratore come il padre, la vita non è facile per Cono, che ha un carattere fiero e nobile e non accetta le ingiustizie e le prepotenze del regime fascista. Quando Cono si ribella all’arroganza del figlio del podestà, fedele al regime, la sua vita e quella della sua famiglia cambiano radicalmente. Gerardo, aiutante e amico di famiglia viene ucciso a bastonate, suo padre viene imprigionato (e non farà mai più ritorno) e lui viene deportato in un campo di concentramento come prigioniero politico.
La prima parte del romanzo si svolge tutta in paese e racconta la storia, un po’ contrastata, dell’amore tra Cono e Serenella, fino al momento in cui Cono per gelosia, quasi uccide a suon di pugni il figlio del podestà.
La seconda parte del libro avviene tutta nel campo di concentramento. Qui, in qualche modo, Cono si “salva” per il suo fisico prestante e il suo saper “fare a pugni” e viene costretto a combattere in un torneo di boxe, tra prigionieri, organizzato dai nazisti. La sua abilità lo protegge dai lavori più duri, e grazie anche all’aiuto di altri detenuti come Palermo, Gaston e Salvatore, riesce ad arrivare in finale. Ma ciò che lo tiene in vita e lo sprona è il ricordo di Serenella e la speranza di tornare da lei.
Qui si apre la profonda lotta per la sopravvivenza.
“- Mah, a me me pare che egoisti lo semo sempre stati, siamo fatti proprio così noi, per istinto, come gli animali, no? Nun te so’ spiegà. Col tempo ci siamo evoluti, qualcuno ha cominciato a senti’ de più il dolore degli altri, e mica è detto che è una cosa bona questa, perché in natura per sopravvivere ce devi passa’ sopra, al dolore degli altri. Insomma la verità è che siamo prepotenti pe’ natura, lo facciamo pe’ salvacce. Ce importa più dell’unghia incarnita del nostro mignolo che de milioni di persone che soffrono”
Spogliati nei panni e nella dignità i detenuti cadono come birilli, sotto la morsa del freddo, della fame e delle torture. E non è solo una questione di resistenza o di motivazione, perchè alla fine viene meno anche quella, è solo una questione di fortuna.
“Sasà, al mondo la giustizia non esiste, c’è soltanto chi ha fortuna e chi no”.
Passata tutta la sua giovinezza a cercar di capire e far propri gli insegnamenti del padre “le cose che non puoi cambiare devi imparare ad accettarle”, solo qui, in questa finale di boxe, Cono riesce a mettere da parte l’orgoglio di gioventù e la fame di giustizia e diventa adulto e responsabile, per il suo bene e quello dei suoi compagni.
Un romanzo di alti contenuti: libertà, dignità, giustizia, amore, amicizia, solidarietà.
Una suggestiva descrizione dell’ambiente, e una profonda caratterizzazione dei personaggi, (Cono è meraviglioso), fanno da cornice a questa storia, lirica e commovente, con uno stile narrativo che non scade mai nel patetico, e che tiene come suo punto fermo, il ricordo, la memoria.
“La memoria, per chi sa custodirla, è essa stessa radici, restituisce la vita a ciò che non c’è più, a chi non c’è più”.
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Equilibrismo tra casa e lavoro
Da diverso tempo sono interessata a leggere di persone che mi incuriosiscono per molteplici ragioni.
A volte mi offrono spunti di crescita personale, a volte professionali, a volte si tratta di persone che sono fonte d’ispirazione, a volte rispondono ad una mera curiosità di verificare quanto della loro vita sia stato romanzato e quanto corrisponda al vero (vedi la lettura sulla vita della principessa Sissi), infine a volte mi frulla una domanda e come un magnete mi attira un libro.
Ed è questo il caso.
Quando ho deciso di leggere la biografia di Michelle Obama, la domanda che mi frullava nel cervello era : qual è lo spazio che può occupare una donna, benché determinata ad affermarsi in molteplici ambiti della vita (famiglia e lavoro così solo per citarne due: l’arte dell’equilibrismo femminile dovrebbe essere studiato come fenomeno paranormale) ma che sceglie come compagno di vita un uomo vincente, un leader in queste caso direi mondiale, cioè parliamo del presidente degli Stati Uniti e che quindi richiede di per sé attenzioni e, forse, fare un passo indietro?
In questa biografia intima la ex first lady racconta i suoi 8 anni sotto i riflettori in continua lotta per cercare di portare avanti la sua relazione con il marito (eh sì perché oltre presidente degli USA è anche marito e padre) e far crescere le figlie nella più “normalità” consentita quando vivi alla casa bianca e sei circondata da guardie del corpo.
Ecco è proprio questo aspetto che ogni tanto ho trovato fuori luogo, a tratti irritante: questa ostinazione ama ricerca della normalità che addirittura la porta ad organizzare una cena in un ristorante a New York con tanto di teatro dopo cena.. in barba a tutti i poracci che si sono trovati a non poter percorrere intere zone della grande mela per ore..
Un aspetto invece che ho trovato interessante è quello in cui descrive la sua ascesa: nata e cresciuta in una realtà povera di periferia a Chicago, è riuscita a tirarsi fuori e studiare in alcuni degli istituiti più importanti al mondo (Harvard) e lavorare come avvocato in uno studio famoso e rinomato.
Interessante lo spaccato di vita che fornisce che conosco sempre troppo poco: come si viveva nella periferia degli anni 80 in un contesto che, ahimè ancora adesso presta decisamente troppa attenzione al colore della pelle e non al valore della persona.
Last but not least: pochi riferimenti alla politica, argomento che ritengo decisamente noioso e di cui sono ignorante, ma una sorta di mémoire intimo che ne rende la lettura piacevole.
COSA NASCONDONO I DISEGNI DI TEDDY
Un autore a me sconosciuto, una copertina tattile accattivante, un libro che non può essere letto efficacemente in formato elettronico perché contiene disegni che sono parte integrante della storia, lo voglio, compriamolo, sosteniamo un nuovo autore, leggiamolo. E’ partita così la lettura di questo libro ed ora sono a consigliarlo a spada tratta perché sì, merita di essere letto.
Thriller anomalo con una spruzzatina di paranormale, lascia il cervello felicemente a lambiccarsi su varie ipotesi fino ad una svolta sinceramente imprevedibile.
Un incipit che è quasi una favoletta, una ragazza problematica miracolosamente assunta da una famiglia benestante con un bimbo di 5 anni da accudire, sembra tutto perfetto, quasi troppo, la moglie che lavora con i tossicodipendenti e vuole darle una seconda possibilità, il marito prima reticente ma che ama la moglie e vuole accontentarla, la coppia perfetta.
E poi, poi un bimbo dolce ed intelligente che ama disegnare, quei disegni che cominciano a cambiare a diventare troppo complessi ed inquietanti per un bimbo di quella età, cosa ci vuole dire con quei disegni, quale segreto oscuro celano? E chi è Anya, la sua amica immaginaria? Un dedalo di briciole di pane da mettere nel giusto ordine, tanti fili da sciogliere dalla matassa, quale sarà quello giusto da seguire?
E nell’idillio, tra pasti vegani, giochi nel parco ed una nuotata in piscina, giusto una nota stonata ogni tanto, per mettere la pulce nell’orecchio, una volta in una direzione una volta nell’altra. Un Thriller, un rompicapo, cosa arriva a giustificare la nostra mente, quali labirinti di menzogne possono essere tessuti e fino a che livello possono reggere? Ci sono modi infiniti, situazioni innumerevoli e tutte portano la mente al limite del baratro, droga, genitori, passioni, amore, desideri… Quando il limite viene oltrepassato e lascia inesorabilmente il posto alla follia?
I pilastri di questo thriller sono immersi nelle emozioni umane, nei legami che si intrecciano con chi si incontra sul percorso della vita, nella visione personale delle situazioni, a volte distorta e malata, perché a volte il bene nasce più forte dal male e, purtroppo, il male può nascere da ciò che si crede amore ma è in realtà brama e desiderio.
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Roccaforte e Calvino
Uno scrittore famoso, Roccaforte, e il suo ghostwriter, Ermes Calvino, si mettono sulle tracce di un caso insolito, l'apparente suicidio una donna, Cristina Mandas, madre e moglie, stimata e rispettata dalla comunità di un paesino della Sardegna. I due scrittori cercano un'idea per scrivere un secondo thriller di successo, e il caso vuole che si ritrovino ad investigare su un vecchio delitto che scatena una serie di omicidi a cascata, il tutto per mantenere un terribile segreto.
La storia sarebbe anche carina, anche se il movente dell'assassino è anch'esso un po' labile, ma personalmente non ho tanto amato lo stile di Pulixi, un po' banale, a tratti volgarotto. Anche i personaggi sono un po' abbozzati, senza una storia solida alle spalle che dia loro il giusto carisma. Ho trovato il tutto un po' superficiale, ma visto il successo dell'autore, riporto solo la mia modestissima opinione.
Diario di un tramonto
Romanzo intimo, tenero ma che non cade nel sentimentalismo, è infatti a tratti anche spietato e si muove su un filo sottile, tra fragilità e coraggio. La protagonista, Iris, non è giovane ed ha una vita che sembra già scritta, chiusa in una quotidianità fatta di abitudini e rinunce, con sintomi anche ossessivi, pensieri a volte cupi e fantasie ipocondriache. L’incontro con Carlo, più giovane di lei, rimette in discussione equilibri che parevano ormai consolidati. È un libro che affronta senza reticenze il tema dell’età, del corpo che cambia, dei pregiudizi sociali che ancora gravano sulle donne non più giovani. Ma lo fa con una scrittura che non si abbandona mai al vittimismo: anzi, l’autrice mette in scena la forza silenziosa e la dignità di una donna che vuole ancora amare, desiderare, lasciarsi attraversare dalla vita. Iris ha cercato per tutta la vita la libertà nella solitudine e, nell’ora del tramonto, si sta accorgendo che si è privata di troppo: custodisce dentro di sé una donna molto più giovane di lei e vive ora un’età che è un’esplosione di domande mai poste. Il romanzo si distingue per il tono diretto, quasi confidenziale, che alterna ironia e malinconia. La narrazione procede con ritmo e delicatezza, scavando nei pensieri e nelle paure di Iris senza mai appesantirle, tracciando una topografia dei sentimenti molto articolata e complessa. Ciò che resta, al di là della trama, è la sensazione di aver camminato accanto a un personaggio vero, vulnerabile e testardo, che ci costringe a riflettere su quanto spesso siamo prigionieri dello sguardo altrui e sul peso dell’infelicità. Non è un romanzo privo di ombre: si legge con empatia e calore, ma qualche passaggio risente di una certa ridondanza, così come a volte la narrazione sembra avvitarsi in pensieri già detti. Ma la sostanza emotiva è autentica, ed il messaggio arriva chiaro: non c’è età che possa impedire l’amore, se lo si lascia entrare.
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Un libro che è un riparo
In questo libro dei Baltimore, l’autore rovescia il registro con cui si è fatto conoscere: dal crimine investigativo de “La verità sul caso Harry Quebert”, passa ad una saga familiare intima e malinconica, raccontata con la voce di Marcus Goldman, scrittore che cerca risposte dentro e fuori di sé. La storia è raccontata con uno stile immersivo, dove l’infanzia e la nostalgia diventano paesaggio interiore, si snoda attraverso rapporti intensi, di incrollabile amicizia e familiari, e promesse di eterna fedeltà. Salta fra due rami di una stessa famiglia: i modesti Goldman di Montclair e i scintillanti Goldman di Baltimore. I secondi incarnano l’eccellenza, l’euforia adolescenziale, finché qualcosa di oscuro, già in agguato, frantuma l’incanto. La narrazione gioca ad incastri tra passato e presente: flashback calibrati che ricompongono l’estate idilliaca, con il peso sempre più opprimente della “Tragedia” a cui si accenna, senza svelarla del tutto. Un meccanismo di suspense lento ma efficace, che inchioda il lettore in quella scia di ricordi mescolati alla consapevolezza adulta e che comunque ci insegna che molto spesso si può ricominciare a vivere quando si smette di rivangare il passato. La forza del romanzo risiede nei suoi personaggi: figure vivide, che portano con sé contraddizioni e desideri autentici. Lo stile è avvolgente, capace di emozionare senza cadere nel melodramma, a volte un po' ridondante, ma progettato per scavare nelle relazioni e nelle illusioni infrante, per insegnarci che la felicità è essere in pace con quello che si ha, e che nello stesso tempo non bisogna mai smettere di sognare, perché è una forma di rinuncia alla vita. Il libro è un invito a guardare oltre la facciata dorata della famiglia ideale. È un romanzo che ricuce i ricordi nell’oggi, con una delicatezza che nello stesso tempo ferisce e resta. Con la potenza del messaggio dell’importanza di saper perdonare e saper perdonarsi.
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Scriverne uno e bene no, eh?
Essendo non solo una lettrice, ma anche una collezionista di libri (nel mio piccolo!), trovo estremamente affascinanti i volumi ergodici, che mettono alla sfida il lettore dal punto di vista grafico e concettuale. Non sempre la mia esperienza con questi titoli è stata positiva -specie perché gli autori tendono a soffermarsi più su formato ed estetica che sull'effettivo contenuto-, ma ho voluto comunque dare piena fiducia al tête-bêche "The Turnglass. La clessidra di cristallo", che sembrava presentare un intreccio appassionante e ricco di elementi horror e mystery in linea con i miei gusti. Forse fin troppo per essere vero, e infatti...
Il libro è diviso fisicamente in due metà, leggibili rovesciando il tomo una volta arrivati al finale di ognuna. Sembrerebbe possibile scegliere da soli l'ordine di lettura, ma la mia ossessivo-compulsività mi ha portata a cominciare con la storia del dottor Simeon Lee, medico nell'Inghilterra del 1881, che vorrebbe trovare una cura per il colera; purtroppo è a corto di finanziamenti, e per questo accetta di assistere dietro compenso il parroco Oliver Hawes, suo procugino che per praticità definisce zio. Quest'ultimo vive a Turnglass House -unica abitazione sull'isolotto fittizio di Ray, vicino a Mersea nella contea dell'Essex- assieme alla cognata Florence Watkins, che tiene rinchiusa dietro una parete di vetro dopo la poco chiara morte del fratello minore James. Una premessa alquanto strana, che si ingarbuglia ancor di più quando la donna spinge il protagonista a leggere un volume intitolato "Il campo d'oro", preludio all'altra metà della narrazione.
In questa seconda parte, ci spostiamo nella Los Angeles del 1939 seguendo il pubblicitario ed aspirante attore Ken Kourian. In modo decisamente fortuito, l'uomo fa amicizia con Oliver Tooke -scrittore di successo nonché figlio dell'immaginario governatore dello Stato- e con la sorella di lui Coraline; i due abitano in un'avveniristica abitazione di vetro sull'oceano, replica dell'antica casa di famiglia nell'Essex. Dietro una patina di successo e ricchezza, questa famiglia sembra però nascondere parecchi scheletri nell'armadio; scheletri che forse la pubblicazione dell'ultima opera di Oliver, intitolata guarda caso "The Turnglass" ed ispirata all'oscuro passato della famiglia Tooke, potrebbe rivelare al mondo.
Vista la particolarità del romanzo, ritengo utile fornire la mia (ora) consapevole opinione sui due ordini di lettura, che reputo entrambi sbagliati! Più che un Giano bifronte, qui ci troviamo davanti ad una matrioska: l'ideale sarebbe cominciare dalla storia di Ken, fino al punto in cui lui arriva a leggere la storia di Simeon, concludere quella e poi tornare all'altra. Certo, ci saremmo persi una doppia copertina estremamente accattivante, ma almeno avremmo ricevuto le informazioni in modo più ordinato; è stato comunque divertente dare la caccia ai numerosissimi elementi specchiati tra le due vicende. Ho apprezzato anche alcuni dei personaggi secondari -meritevoli di un proprio POV ben più dei protagonisti-, la presenza di alcune tematiche attuali e la struttura stessa del mystery, pur avendo azzeccato le risoluzioni molto prima dell'ultima pagina.
Un altro aspetto positivo è rappresentato dalle ambientazioni, che non saranno originalissime (a livello di vibes, mi hanno fatto pensare non poco a "L'incubo di Hill House" da un lato ed a "Il grande Gatsby" dall'altro), ma riescono a delineare molto bene un'atmosfera di mistero a tratti gotica. Mettendo a confronto le storie di Simeon e Ken, devo poi dire che forniscono rispettivamente una buona dose di intrigo noir nel caso del medico inglese e di adrenalina adatta ad una vicenda più avventurosa in quello dell'attore wannabe.
Mi spiace dover dire che tante belle premesse non sono riuscite a portare oltre la sufficienza questa lettura. I principali colpevoli? protagonisti e trama. I primi dimostrano un grado di stupidità che poche volte ho incrociano sulla carta, oltre ad offrire delle prospettive spesso e volentieri del tutto anacronistiche ed a dimenticare i loro stessi obiettivi di vita tra un capitolo e l'altro, in favore dell'intreccio principale. La loro ottusità viene ulteriormente esacerbata quando si trovano al centro di scene inutili, come la capatina di Simeon all'ospedale mentre è in missione a Londra oppure quando si vede rubare il libro poco dopo, al solo fine di ritardare di poche pagine la rivelazione finale.
Le due conclusioni sono un altro punto dolente, perché risultano estremamente brusche e per nulla soddisfacenti, tanto che è lo stesso lettore a dover immaginare quale sarà il finale dei protagonisti (un confronto definitivo tra Coraline e suo padre sarebbe stato il minimo, tanto per dire!); per i comprimari invece non c'è proprio nulla da fare, dal momento che la maggior parte di loro ruota attorno a sottotrame inconcludenti, quando va bene. Più in generale la trama pare gravata da scene troncate e dialoghi vuoti; inoltre se consideriamo la storia di Simeon soltanto come una creazione di Oliver Tooke, ci troviamo di fronte ad una narrazione che poggia interamente sulle azioni di quest'ultimo. Azioni che scaturiscono da una scoperta mai chiarita e sono portate avanti con una cripticità -ancora una volta- inutile! se lui si fosse limitato ad agire in modo diretto o a parlare con chiunque, ci saremmo risparmiati in un colpo solo più di 400 pagine e quasi 20 euro!
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Il pensionato Maigret
Questo ventesimo romanzo della serie, secondo Simenon, sarebbe dovuto essere l’ultimo in quanto l’autore belga era intenzionato a proseguire la sua attività letteraria dedicandosi esclusivamente ai “romanzi duri” senza quindi dare ulteriore spazio al famoso commissario.
Ovviamente (e per nostra fortuna!) questo desiderio non ha poi avuto seguito. In ogni caso il Maigret di questo libro è un ex commissario andato in pensione ritiratosi con la moglie in campagna per godersi il meritato riposo, fino a quando il nipote entrato anche lui in polizia, si affida al famoso zio per essere tirato fuori da un guaio, essendo stato incastrato in una brutta storia di vendette trasversali tra componenti di una banda criminale.
Rispetto agli altri romanzi della serie, qui Maigret ha le armi spuntate non essendo più in attività. Recalcitrante nel dovere per forza tornare a Parigi (“Ma non era certo un Maigret pieno di entusiasmo. E neppure sicuro di sé. Per ben due volte si era girato a guardare la sua casetta che scompariva in lontananza”), una volta nella capitale dimostra comunque di non avere perso il suo buon fiuto. Sa esattamente come muoversi, che posti frequentare, facendo emergere il suo inimitabile talento nell’osservare le persone (“Il commissario studiava il suo interlocutore con la stessa passione che sempre metteva nella conoscenza di tutto ciò che era umano”).
Mirabile il confronto diretto con il capo banda, il mandante di più omicidi, nel quale pur non essendo in servizio dimostra di sapere mettere a frutto anni di interrogatori conducendo allo svelamento dei fatti. Come sempre Simenon delizia il lettore non solo con una storia altamente introspettiva ma anche con le atmosfere a cui ci ha abituati: locali notturni, ambigui pieni di un’umanità caratteristica.
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Un romanzo ben orchestrato
Non è sicuramente il migliore dei romanzi di Dicker, ma come al solito è magistrale l’intreccio: ti tiene attaccato alle pagine.
Si discosta da quelli che ho già letto dell’autore (La scomparsa di Stephanie Mailer, L’enigma della camera 622, Il caso Alaska Sanders): manco un piccolo spargimento di sangue, un cadavere ritrovato da qualche parte, una persona scomparsa, no niente, ma nonostante ciò è avvincente.
Come ogni volta che mi immergo in una sua lettura, i personaggi sono talmente ben caratterizzati che quando finisci di leggere il libro ti chiedi che stiano facendo ora…(lo fate anche voi, non sono l’unica, veeeero?).
C’è la famiglia Braun: coppia idilliaca, bella lei, affascinante lui, figli perfetti, casa da copertina e ovviamente innamorati pazzi e realizzati sul lavoro.
E poi ci sono i vicini di casa, Greg e Karine agli antipodi: trapiantati in una zona lussuosa di Ginevra, ben oltre le loro possibilità e il loro status sociale, con lavori normali e ben distanti da essere una coppia da copertina.
Ammirano, invidiano, “quasi” ne sono ossessionati da questa coppia, ma e dico MA.. è tutto oro quello che luccica?!?
Nient’affatto…!!!!
E dunque, una buona lettura!????
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