Narrativa italiana Classici Se questo è un uomo
 

Se questo è un uomo Se questo è un uomo

Se questo è un uomo

Letteratura italiana

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Primo Levi reduce da Auschwitz pubblicò il libro nel 1947. Einaudi lo accolse nel 1958 nei saggi e da allora viene ristampato e tradotto in tutto il mondo. Testimonianza sconvolgente sull'inferno dei Lager, libro della dignità e dell'abiezione dell'uomo di fronte allo sterminio di massa, "Se questo è un uomo" è un capolavoro letterario di una misura e compostezza già classiche. E' un'analisi fondamentale della composizione e della storia dei Lager, ovvero dell'umiliazione, dell'offesa, della degradazione dell'uomo, prima ancora della sua soppressione nello sterminio.



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Se questo è un uomo 2021-02-15 17:11:53 Calderoni
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Calderoni Opinione inserita da Calderoni    15 Febbraio, 2021
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Uno studio pacato sull’animo umano

Una straordinaria indagine sulla psicologia umana. Ciò rende Se questo è un uomo un memoriale differente rispetto agli altri. Primo Levi non ha voluto aggiungere nulla di nuovo sulla crudeltà dei lager nazisti, non ha voluto formulare nuovi capi d’accusa nei confronti dei suoi torturatori. Ha, invece, voluto andare più a fondo per provare a capire le cause che hanno condotto l’essere umano ad un esperimento sociale tanto terribile come quello dei campi di concentramento e di sterminio. L’autore, perciò, vuole condurre uno studio pacato, privo di odio, sull’animo umano. Ne esce un quadro ricco di spunti. Lo stile è lineare ed è completamente assente la retorica. Come dice in una recensione del 1948 Italo Calvino (Se questo è un uomo era uscito nel 1947 nella collana di saggi della casa editrice Da Silva di Torino), nella scrittura di Levi ci sono: la potenza delle immagini, l’acutezza psicologica e la sobrietà. I fatti narrati, come evidenzia lo stesso Levi, sono tutti reali e sono stati vissuti in prima persona da Levi presso il campo di lavoro di Monowitz, vicino ad Auschwitz. Levi è sopravvissuto all’orrore nazista. È stato salvato dai suoi studi da chimico, da una buona dose di fortuna, come egli stesso ha sempre ammesso, e dall’incontro con un civile di nome Lorenzo, che lo ha aiutato porgendogli alcuni beni di prima necessità e ricordandogli sempre che «era ancora un uomo», nonostante tutto. I capitoli a partire dal 1958 (prima edizione targata Einaudi, che aveva rifiutato il libro appena dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale) sono 17. È stato, difatti, inserito tra Sul fondo e Ka-Be il capitolo Iniziazione. In questo modo I sommersi e i salvati è divenuto il nono capitolo, quello centrale. È questo il capitolo più importante nella riflessione di Levi, dove evidenzia che nel lager si perde il confine tra bene e male. Il lager come una gigantesca esperienza biologica e sociale, perché vengono rinchiusi in uno stesso posto migliaia di individui costretti ad una vita costante, controllabile, identica per tutti, quindi perfetta per una sperimentazione. Levi in questo capitolo descrive la legge del lager, che riassume con le seguenti parole: «a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto». E poi parla dei prominenti ebrei, che sono un tipico prodotto del lager. Sono schiavi che ricevono una posizione privilegiata, un certo agio e una buona possibilità di sopravvivere. Per quello che ricevono, però, tradiscono la solidarietà dei compagni, sono sottratti dalla legge comune, sono odiosi e odiati e diventano con il tempo sempre più feroci, crudeli e tirannici nei confronti degli altri. E ancora nel capitolo I sommersi e i salvati ci porta quattro significativi esempi di gente comune che egli ha incontrato e osservato nel lager. Gli ultimi due meritano un’attenzione particolare: Elias, fortissimo fisicamente, ed Henri. Il primo ci dice Levi è un ladro, ha l’istintiva astuzia degli animali. È felice nel lager, perché fuori sarebbe un criminale o un pazzo mentre dentro trionfa e prospera. Il secondo, invece, sopravvive grazie alla pietà che gli serve per ampliare le sue conoscenze e amicizie; Levi ci spiega che Henri cattura i soggetti, li impietosisce e inizia a far rendere questa sua conoscenza. Ma non c’è soltanto il capitolo nono. In quello successivo, ad esempio, Levi cerca di restituirci il sentimento provato dai nazisti nei confronti degli schiavi del lager. Lo fa con lo sguardo che Pannwitz, colui il quale è chiamato a selezionare chi potrà entrare nel commando chimico, rivolge a lui: viene descritto come lo sguardo che si rivolge ad esseri di natura diversa. Sempre nel capitolo Esame di chimica il capo del commando chimico, un criminale di nome Alex, si pulisce la mano sulle vesti di Levi «senza scherno e senza odio». Un’altra scena da cogliere e su cui riflettere è quella che conclude il capitolo Ottobre 1944, il quale descrive la terribile selezione avvenuta in quel mese nel lager. Il protagonista è Kuhn che ringrazia Dio per non essere stato selezionato, ma al suo fianco ha Beppo che invece è stato appena condannato a morire. Levi conclude: «Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn». Se Lorenzo ricorda, come detto, a Levi che appartiene ancora al genere umano, invece sarà nell’ultimo capitolo, Storia di 10 giorni, che Levi riscoprirà l’umanità, quando Towarowski, uno dei pochi rimasti con lui nel campo quando avviene l’evacuazione nel gennaio 1945, propone di dare un pezzo di pane proprio a Levi, a Charles e ad Arthur che si erano spesi per lui e per gli altri presenti nello stanzone. A questo gesto Levi pensa: «Il lager è morto, gli haftilinge (i detenuti) stanno lentamente tornando uomini».

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Se questo è un uomo 2020-09-30 07:41:19 SaRA8993
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SaRA8993 Opinione inserita da SaRA8993    30 Settembre, 2020
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SENZA MEMORIA NON SIAMO NIENTE

Chi meglio di un uomo che ha vissuto l’Olocausto può raccontare le atrocità perpetrate da quello che un uomo non lo è mai stato.
Primo Levi racconta nella sua più grande franchezza la sua esperienza terribile nei campi di concentramento di Auschwitz, dove il rispetto non esiste, la dignità viene calpestata, la libertà privata, il dolore sbeffeggiato e l’anima strappata.
Una biografia che è una testimonianza di ciò che è accaduto, vissuto in prima persona da un giovane e forte ebreo che l’unica colpa che aveva era di essere ancora vivo, insieme ai suoi compagni come lui con cui aveva condiviso dolori, speranze, preghiere e paura, il racconto del mito della razza che creò il più grande massacro di tutti i tempi, dove uomini, donne e bambini vennero svuotati della loro essenza stessa si esseri umani e resi numeri, codici, come se fossero oggetti da smistare, spostare, buttare, scartare senza pietà. La speranza persevera nei piccoli brandelli di lucidità di alcuni prigionieri più deboli ma in quelli in cui la ragione è ancora viva, dentro lo sanno che la speranza nei campi di concentramento è la prima a morire.
In fondo la pietà non esiste in quell'inferno, ma nonostante tutto, Primo Levi sopravvive, La guerra è finita e lui è vivo ma non può tacere su quello che è accaduto, perciò decide di raccontare la sua esperienza in un libro che è fonte inestimabile di storia per comprendere che la memoria è la chiave di tutto: se ci dimentichiamo di ciò che è stato e di come è accaduto, perdiamo l’intelligenza di capire che tutto quello scempio non deve più accadere.
Non è un libro da recensire come tutti gli altri, non è possibile giudicare come una persona esprime i suoi pensieri, i suoi sentimenti e le sue emozioni ma è sicuramente una Testimonianza da leggere da chiunque almeno una volta nella vita.

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Se questo è un uomo 2020-04-16 15:22:12 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    16 Aprile, 2020
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Nemmeno questo è un uomo

Questo non è un romanzo, e colui che lo ha scritto non è uno scrittore, nella vita faceva tutt'altro, era un chimico; e però per i casi della vita, e di quelli più tragici, è divenuto suo malgrado un testo essenziale per la crescita intellettiva di ognuno di noi.
Un libro che non può mancare nelle competenze dei protagonisti del vivere civile, meglio ancora quando più sono giovani, facilmente ricettivi ad assorbire quanto rilevato, e sopratutto a non dimenticarlo.
Perché ricordare, mai come in questo caso, è necessario, direi indispensabile.
Primo Levi non è un romanziere, e perciò la sua scrittura non è fluida, armonica, articolata; non si perde in iperbole o allegorie del buon scrivere, non è uno scrittore in senso classico, ha uno stile asciutto, scarno, freddamente cronologico, a tratti nervoso.
Eppure descrive bene quello che è essenziale riportare, quello che desidera mostrare all'umanità intera, e così facendo emoziona, coinvolge, compartecipa i lettori nelle vicende che descrive, proprio perché non è uno scrittore, ma è molto di più: un testimone.
Direi una rarità, un diretto testimone, molto attendibile, un cronista in presa diretta, un’Oriana Fallaci presente in prima linea, sul posto degli orrori.
Una mente lucida e scientifica, in grado di riportare le vicende vissute, con sgomento ma attendibilità, attenendosi esclusivamente ai fatti crudi che lo vedono protagonista, anche se sono fatti di orrore allo stato primordiale.
Il tutto filtrato dalla sua sensibilità di comune mortale, per niente una persona fuori dall'ordinario.
Primo Levi è stato un intellettuale che ha vissuto sulla propria pelle, assai di più nella sua mente e nel suo animo lacerato, il più vile sterminio di popolo, voluto dalla follia nazista, recluso in un campo di concentramento tedesco durante gli ultimi tempi prima della caduta del Reich.
E per fortuna sua, perché come da lui stesso ammesso, fosse durato ancora un poco la sua prigionia, non sarebbe sopravvissuto per raccontarla, tanto indicibili erano le condizioni di vita in cui erano costretti non per sopravvivere, ma per trascinarsi fino all'epilogo inevitabile.
Fin dall'inizio Levi comprende di trovarsi letteralmente in un Inferno dantesco, ma senza niente di letterario o di allegorico: solo fame, botte, umiliazioni fisiche e morali, demolizione completa dei corpi e degli spiriti secondo un ordine logico, assurdo, irreprensibile e irrevocabile, banale nella sua essenza come sempre sa essere banale il Male.
La stessa ignobile, lurida, beffarda, bugiarda, laida insegna all'ingresso del campo di sterminio, o di sterminio tramite lavoro estenuante fino a consumare le persone, come vogliamo definirlo, quella tristemente nota che recita “Il lavoro rende liberi”, redatta nella lingua gutturale dei presunti superuomini, altro non è, per il colto Levi, che un preciso richiamo a ben altra, e assai più nobile insegna, la famosa “Lasciate ogni speranza o voi che entrate” all'ingresso dell’Inferno dantesco.
Così come all'opera di Dante richiama il medico che seleziona crudelmente, con asprezza e immorale malignità i deportati secondo le attitudini lavorative, deciso a trarne ogni forza lavoro fino allo stremo dei poveri sventurati: del tutto identico, nell'immaginario del recluso Levi al Minosse distributore dei dannati nei vari gironi infernali.
Lavoro fino allo stremo, e indegnità, e crudeltà, e vessazioni, e botte, e affamamento, tutto il campionario dei campi di concentramento nazisti è sciorinato addosso ai poveri sventurati, tutto è disumanamente attuato per l’annientamento fisico e morale dei prigionieri, la loro forzata degradazione a reietti, a larve umane, la maniacale progressiva persecuzione volta alla degradazione dell’uomo da parte di altri uomini, fino alla perdita, alla completa cancellazione di ogni sorta di dignità umana.
Fino all'epilogo finale, scontato, e presagito da subito allorché si viene schedati all'arrivo e identificati da un numero progressivo.
Basta poco a comprendere che è in realtà un codice, che indica il numero di prigionieri transitati per il campo, un numero assai superiore alle poche migliaia effettivamente presenti, in visibile appello quotidiano: non è difficile pervenire alla tragica conclusione.
Quello che è il dolore più grande, il vero trauma amaro, straziante, angoscioso, è la constatazione, la triste verifica di quanto accade, quanto può verificarsi a un uomo quando posto in simile atroci condizioni di vita, si riduce inevitabilmente a qualcosa di degradante, abominevole, funesto e infelice: alla perdita totale della propria umanità.
Non più dignità, nessuna decenza; nessun onore o onorabilità, meno che mai nobiltà o correttezza, per non parlare di solidarietà concordia, aiuto, mutua assistenza.
Ognuno per sé, ciascuno per sé; e la moralità dei prigionieri sopravvissuti diviene pari a quella dei propri carcerieri.
Qualcuno, come Levi stesso, si chiede i motivi, ne cerca le ragioni, continua tenacemente a credere nell'unità, nell'intesa, nel calore, nella condivisione, ma lui e altri come lui sono semplicemente sommersi dall'inevitabile, spietata indole di sopraffazione che prende coloro che, spogliati dall'ultima parvenza di umanità, desiderano semplicemente salvarsi, anche a costo di divenire, per esempio, un kapò, passare tra le file degli aguzzini a danno dei propri compagni, magari solo per una razione di cibo supplementare. I sommersi e i salvati.
Si salverà Levi da questi orrori, la scamperà, anche se lui è con tutta evidenza un sommerso, sia pure per caso, e ne porterà allora testimonianza diretta di quanto ha vissuto, quasi una forma di redenzione personale, una remissione del peccato, e ne scriverà allora accuratamente.
In prosa, come in versi.
Gliene siamo grati, tutta l’umanità deve innalzargli un monumento per aver levato la sua voce.
Anche se…talora mi viene da pensare, davanti a certe immagini. Se davvero è servito.
Perchè nemmeno questo è un uomo, dottor Levi, dopo decenni, dopo una Resistenza, costretto a emigrare stipato su un barcone sconnesso, o su un gommone sfiatato, a rischio della vita, dopo aver pagato il viaggio con fame e con botte, violenze di ogni genere, specie se donne; e tutto per…per un po’ d’erba al limite dei feudi. Forse.
Nemmeno questo è un uomo, costretto a urlare la sua rabbia contro una recinzione, a piangere con i figli al gelo sugli scogli.
Nemmeno questi sono uomini, perché non sono di razza ariana, per loro i porti sono chiusi. Sempre.
Considerate se questo è un uomo.


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...un qualsiasi testo sull'Olocausto, può bastare. Tutto il resto è condensato qui.
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Se questo è un uomo 2019-10-28 12:26:53 siti
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siti Opinione inserita da siti    28 Ottobre, 2019
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Il trionfo della ragione

Rileggere questo memoriale che riunisce in sé la fattura del documento storico e la statura di un prodotto artistico di indubbia qualità letteraria, è ancora una volta fonte di arricchimento e di scoperta, di stupore e di ambascia. Lo si dimentica col tempo, rimane certo il ricordo netto , quasi episodico, sorretto dalla struttura testuale stessa, di un dolore universale che non lascia insensibile nessuno, l’urgenza di quella meditazione perpetua alla quale ci ammoniva lo stesso Levi (“Meditate che questo è stato: /Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/(…) /Ripetetele ai vostri figli.)e una presunzione di aver già conosciuto e capito. E invece no, l’opera, all’ennesima lettura, ricorda la sua intima essenza, il suo obiettivo di fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano, paralizza e toglie il fiato, apre una notte, quella notte alla quale “occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere”. Si procede per gradi, in modo meticoloso, a comprendere lo svilimento dell’uomo, il suo annientamento morale prima che fisico; si familiarizza con luoghi e relativa nomenclatura, con la loro rigida organizzazione, con i giorni e le notti scandite da fatica e fame , riposo e sogni. Levi riesce a restituirci l’indicibile e a far comprendere la scomparsa della morale, l’ inutilità di parole quali “bene “ e “male” “giusto “ e “ingiusto” dentro un spazio deprivante e teso all’annientamento totale. È una vita ambigua quella all’interno del lager, ma Levi da buon scienziato non smette un attimo di analizzare il fenomeno e lo restituisce come i dati di un esperimento. In modo oggettivo, data la reclusione forzata di uomini di diversa provenienza e condizione, visto il regime di sottomissione al quale sono sottoposti, considerato il mancato soddisfacimento dei più elementari bisogni, lui registra che l’uomo non diventa brutale, egoista , stolto ma teso al soddisfacimento dei suoi bisogni, tutti legati a doppio filo alla sopravvivenza, che lo stesso non fa altro che ridurre al silenzio le consuetudini e gli istinti sociali. L’umanità è sepolta, la bestemmia invade l’animo quando ancora la preghiera resiste. La mente incessante osserva, analizza ed elabora, risolve. La mente vince il corpo, lo piega e lo ricostruisce. E si apre un nuovo giorno. E il nuovo giorno avrà il sapore della ragione.

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Se questo è un uomo 2019-10-22 21:50:42 cristiano75
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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    22 Ottobre, 2019
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Conoscere un Lager

Anni fa, avevo fatto una "gita" ad Auschwitz e ne ero rimasto sconvolto e pietrificato.
Poi leggendo questo libro, avevo dato un senso agli orrori commessi in questo posto dimenticato da Dio e dagli uomini.
L'autore ha il pregio, di raccontare questa immane tragedia, mantenendo sempre un tono abbastanza distaccato, freddo, non esaltato, non drammatizzato.
Sembra solo che voglia raccontare quello che succedeva, senza dover farcire il linguaggio con frasi ad effetto o superlativi, che andrebbero a nuocere il resoconto storico e umano che egli ha così fin troppo perfettamente descritto.
Il tema è molto delicato, soggetto a miriadi di interpretazioni.
Levi è stato un partigiano anti fascista, appunto deportato ad Auschwitz. Come ne sia uscito vivo è puro miracolo, come abbia avuto la forza di scrivere quello vi accadeva è qualcosa di veramente unico e grandioso, poichè le atrocità che ha visto o sopportato, a mio avviso sono qualcosa che già difficilmente uno può cercare di riportare alla mente, figurarsi mettere il tutto su carta, i dettagli, le torture, la fame, il freddo, la paura che logora. Ci vuole coraggio e grande cuore.

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Schindler's List
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Se questo è un uomo 2018-05-21 07:25:59 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    21 Mag, 2018
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PER NON DIMENTICARE

I dolorosi versi che aprono il romanzo di Levi non lasciano alcun margine di dubbio: “Se questo è un uomo” è un libro che nasce dall’impellente bisogno di raccontare, di testimoniare l’allucinante esperienza dei campi di sterminio nazisti, affinché la gente possa rammentare quel che è stato e servirsene come perenne monito contro la barbarie della guerra e l’insensata violenza dell’uomo sull’uomo. Eppure, a dispetto di ciò, “Se questo è un uomo” è un libro che non mi aspettavo. O meglio, gli orrori dei lager, che le immagini dei documentari girati dagli Alleati hanno portato fin nelle nostre case con effetti presumibilmente analoghi a quelli che avrebbero potuto avere filmati provenienti dagli spazi siderali più profondi, tanto lontane erano dal nostro sicuro ed ovattato mondo del dopoguerra, sembravano poter legittimare un romanzo dai toni biblici e apocalittici, con rabbiosi strali lanciati a piene mani contro gli odiati nazisti e panegirici inneggianti alla superiore dignità dell’ebreo perseguitato ad ogni capoverso. Invece niente di tutto questo, che pure avrei probabilmente perdonato all’autore in nome di una letteratura di impegno civile che nell’urgenza di portare il suo scottante messaggio è indotta talvolta a dimenticare il senso della misura, niente di tutto questo, dicevo, c’è nel romanzo di Primo Levi. Nonostante sia raccontato in prima persona e riporti esclusivamente fatti realmente accaduti, esso è una descrizione pacata e disincantata di avvenimenti che pure si svolgono spesso ai limiti dell’immaginabile.
L’abilità di Levi, che certo non lo farà passare alla storia come un grandissimo romanziere ma che nondimeno rende le sue opere altamente avvincenti, è quella di lasciar parlare i fatti. Una volta varcata la soglia del lager, lo scrittore non può più permettersi di essere un affabulatore, e solo in misura assai limitata rivestire il ruolo di commentatore della Storia: la scottante materia umana con cui Levi entra in contatto e che fedelmente riversa sulla pagina scritta lo rende forse simile a un documentarista, assai più efficace quando descrive che non quando sillogizza. Il suo stile è duro, scabro, privo di fronzoli, perfettamente aderente alla realtà narrata. Una sola, brusca frattura lo contraddistingue, nel momento in cui il protagonista fa il suo ingresso nell’inferno concentrazionario. Il linguaggio, che fino ad allora scorreva lineare e riflessivo, diventa all’improvviso nervoso, frammentario, spezzettato. Per qualche pagina, quasi che il ricordo di quegli avvenimenti riemergesse nella memoria di chi li ha vissuti con la violenta vividezza del passato, Levi sembra incurante delle forme e dei tempi grammaticali (si prenda come esempio la frase seguente: “…la porta si è aperta ed è entrata una SS, sta fumando. Ci guarda senza fretta… Tutti guardiamo l’interprete, e l’interprete interrogò il tedesco…”). Poi il ritmo ritorna placido e sommesso, malinconicamente consapevole del fatto che “la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”.
Vengono così rievocate, in una successione non strettamente cronologica ma dettata piuttosto da esigenze emotive, le esili e minute vicende del campo, che punteggiano le massacranti giornate di lavoro in Buna e le notti agitate nei fetidi dormitori: anche quelle apparentemente più insignificanti, quelle che sembrano dare maggiormente sull’aneddoto, sono in realtà altrettanti fondamentali tasselli della più grande tragedia umana della nostra era. Il lager si rivela infatti come la materializzazione di una cosciente e programmatica volontà di distruggere l’uomo, nello spirito più ancora che nel corpo. “Si immagini un uomo – scrive Levi – a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana: nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità”. Il lager è quindi, come afferma nel libro un vecchio ebreo tedesco, “una grande macchina per ridurci a bestie”. In quella drammatica lotta per la sopravvivenza che è diventata l’esistenza quotidiana, dove tutto è freddo e fame e botte, diventa così essenziale preservare dall’annientamento almeno la propria dignità umana. “Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso”. In un microcosmo dove tutti, e in primo luogo i propri compagni, “ci sono nemici o rivali” è però quasi impossibile conservare quest’ultimo barlume di umanità: assai più facile è lasciarsi vincere dall’indifferenza o dalla rassegnazione, o concentrarsi sul proibitivo compito di districarsi alla meno peggio tra le mille assurde regole che pilotano le vite degli individui verso un precario, informe domani.
La popolazione del lager tende spontaneamente a dividersi in due categorie nettamente distinte: i sommersi e i salvati. I primi sono gli haftlinge assuefatti al loro misero destino, uomini in cui è scomparsa ogni traccia di pensiero e di intelligenza, “gregge muto e innumerevole” caratterizzato dal “torpore opaco delle bestie domate con le percosse”; i secondi sono invece coloro che, riposto ogni senso etico, hanno saputo “organizzarsi” e, per mezzo di furti, corruzioni e delazioni, riescono ad evitare le selezioni, cinicamente ed egoisticamente consapevoli che mors tua vita mea. Levi, rivelandosi un profondo conoscitore della natura umana, respinge la comoda e consolatoria pietà verso le vittime e, con una sincerità davvero autolesionistica, mostra l’abbrutimento bestiale e il profondo degrado morale cui esse sono pervenute. Nel medesimo tempo, però, egli ci fa capire che questa condizione abietta altro non è se non l’ennesima, lancinante offesa perpetrata dalla barbarie nazista, di modo che la dignità dell’uomo calpestato e violentato fin nel profondo dell’animo viene alla fine ristabilita in maniera naturale, più nitida e consapevole, in quanto più crudamente autentica. La stessa vergogna che coglie gli individui quando sono messi di fronte alla loro vigliaccheria, soprattutto dopo le crudeli parentesi delle selezioni per le camere a gas o delle impiccagioni di quei pochi disgraziati che in qualche modo hanno saputo ribellarsi, la vergogna cioè di essere giunti al più infimo livello della condizione umana, diventa così la premessa di una testimonianza di altissimo valore morale, lascito insostituibile che Levi ha voluto tenacemente tramandare ai posteri affinché non dimenticassero mai l’immane tragedia dell’Olocausto.

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Se questo è un uomo 2018-01-27 14:40:18 Antonella76
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    27 Gennaio, 2018
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Morgen früh



A volte il silenzio è una grande forma di rispetto verso qualcosa di più grande di noi.
Per questo avevo deciso di non scrivere nulla su questo libro, su questa lucidissima testimonianza di quell'orrore senza fine che, per quanto ci si possa sforzare di comprendere, non riusciremo mai veramente a capire.
Neanche lontanamente ad immaginare.
Ma poi le parole sono arrivate con prepotenza, non potevo ignorarle.
Anche per rispetto.
Sono troppe le cose che ci mancano per un'adeguata comprensione, troppe...a partire dal senso delle parole.
Ed è esattamente quello su cui vorrei soffermarmi, quello che più mi ha segnato, perché rivoluziona completamente il concetto di "significato".
Noi siamo uomini liberi e siamo abituati ad usare la lingua degli uomini liberi.
Le parole che pronunciamo sono fortemente legate alla nostra condizione.

Pensiamo al concetto di "fame"...
La fame che conosciamo noi è quella legata ad un'abitudine, è quella di chi magari ha saltato un pasto, o addirittura quella autoimposta di chi si mette a dieta.
La fame di chi è libero anche di non mangiare.
Non potremo mai capire la fame di chi aspettava che il vicino di cuccetta morisse, per potergli togliere un misero pezzo di pane dalle mani.
Noi non sappiamo assolutamente che cosa sia...

Pensiamo al "freddo"...
Il freddo di chi stava ore e ore nudo con i piedi nella neve, di chi si ammazzava di fatica sotto la pioggia gelida, con il vento che tagliava in due e sognava un pezzo di stoffa asciutto o un minimo calore che asciugasse, già sapendo di non poterli avere.
Il freddo di chi ha conosciuto "l'inverno dell'anima".
Cosa posso saperne io, di questo freddo, di questo gelo, mentre leggo tutto ciò sotto il mio morbido e caldo piumone?
Come posso permettermi anche solo di scrivere queste righe?

Pensiamo alla "stanchezza"...
Non quella che intendiamo noi, quella che si può spazzare via con qualche buona ora di sonno, no.
Ma quella capace di uccidere, quella che, attraverso il corpo, urlava che era finita, che non ce la si poteva fare più, che il disfacimento era vicino e le forze non sarebbero bastate per superare il prossimo giorno.
Uno dei tanti, tutti uguali.

Pensiamo al "dolore"...
Noi cerchiamo di immaginare qualcosa, qualcosa di spaventoso, di terribile, di insopportabile, ma in realtà si trattava di altro.
Si trattava di qualcosa che dovrebbe avere un altro nome.
Un nome capace di racchiudere l'inimmaginabile.

Ma soprattutto, pensiamo alla "paura"...
Quella che abitava gli occhi di chi sapeva di dover morire...sì perché la paura passa sempre dagli occhi, attraversa il corpo e muore nel cuore.
Quella di chi ha perso completamente l'idea di futuro...tanto che, nel gergo del lager, "mai" si diceva "morgen früh"...ovvero "domani mattina".
Niente di strano, perchè per molti "domani mattina" non sarebbe arrivato mai.

E poi forse la parola più importante: "uomo".
Cos'è un uomo?
Cos'è un uomo a cui viene tolto tutto?
Cos'è un uomo senza i suoi vestiti, le sue scarpe, il cibo, l'acqua...il proprio nome?
Un uomo amputato dei suoi affetti, tutti?
E cosa rimane di un uomo se gli togli anche la dignità?
Se lo privi dei pensieri e della capacità di riconoscere se stesso e gli altri come "uomini"?
Niente. Assolutamente niente.

In fondo io, qui, al sicuro della mia libertà e arrogandomi un diritto che non possiedo, sto parlando di cose che non so.
Ma lui, Primo Levi, le sa bene...ed ha scelto di tramandarcele, ha speso una vita per farci comprendere l'incomprensibile, per narrarci l'immane sofferenza che ha vissuto e far sì che noi non permettessimo più, mai più, un orrore simile.
Il rispetto per lui, per la sua storia e quella di tutti coloro che sono morti e hanno subito tale orrore, passa dalla lettura di questo libro.
Dal silenzio che ne consegue o dalle parole che non possono essere trattenute.

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Se questo è un uomo 2017-07-09 10:14:41 Fabiana_R99
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Fabiana_R99 Opinione inserita da Fabiana_R99    09 Luglio, 2017
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DIPLOMAZIA E RIFLESSIONE

Qualche mese fa la mia prof.ssa di religione fece vedere a me e alla mia classe un video di una intervista a Levi e rimasi molto colpita dalla sua diplomazia e compostezza; ogni domanda aveva una completa, approfondita e precisa risposta, pronunciata senza pensamenti o giri di parole.
Avevo grandi aspettative per questo libro, ma ne sono rimasta un po' delusa.
Premetto, secondo me tra sapere e capire c'è un'abissale e fondamentale differenza. In "Se questo è un uomo" io cercavo una testimonianza struggente, capace di emozionare e tormentare il lettore, rendendolo partecipe dell'immenso dolore, provato solamente perché si crede in ideali differenti.
Con questo libro non pretendevo di capire l'inferno del Lager - mi rendo conto questo sia impossibile -, ma mi aspettavo di comprenderne almeno una parte.
Levi è un genio perché offre tutti gli elementi necessari per poter conoscere e permettere un'interpretazione personale del dolore; ora, io mi rendo conto di intromettermi in gusti personali e non mi meraviglio se molte persone saranno contrarie al mio pensiero, ma, a mio parere, il libro non fornisce altrettanti elementi per poter capire la situazione trattata. In altre parole, ora so una parte di storia dei prigionieri, ma non sono riuscita a mettermi in contatto con loro, non li ho sentiti vicini durante la lettura; questo mi ha delusa.
Io ho 17 anni, è logico che io sia curiosa e avida sia di conoscenza, sia di emozioni; consiglio a tutti lo studio di questo libro, ma credo anche che il documento sia più appropriato a una lettura adulta; i giovani hanno bisogno anche di una dose maggiore di coinvolgimento emotivo.

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Se questo è un uomo 2017-03-14 20:38:56 Valerio91
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    14 Marzo, 2017
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L'analisi atomica di una tragedia

Una di quelle letture "difficili" che vanno fatte, assolutamente. I motivi? Molteplici.
1. Preservare il ricordo di una strage disumana che non va mai dimenticata, per non ripeterla, per stare in guardia.
2. Per convincersi che non esistono atrocità impossibili soltanto perché non vengono vissute in prima persona, che uomini come noi hanno sofferto pene impensabili e non partoribili nemmeno nei nostri peggiori incubi.
3. Per apprezzare la vita, per capire quale grande dono è viverla e come possa esserci strappata facilmente dalle mani; come migliaia di uomini, donne, bambini che avrebbero voluto viverla l'hanno vista scivolare via nel sangue, nel dolore, nella disperazione, senza possibilità di appello. "Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case"…

Non c'è molto da dire, inutile ripetere riflessioni trite e ritrite, che andrebbero stampate a fuoco nella mente di ogni essere umano, grande o piccolo.
"Se questo è un uomo" e più di un semplice titolo, è quasi il simbolo di una tragedia. La lettura di questo libro non fa altro che ricordarci quello che dovrebbe essere alla base della nostra umanità, e lo fa nel modo più brutale, mostrandoci quello che accade quando queste basi vengono a mancare.
Primo Levi ci offre la sua testimonianza, paradossalmente distaccata, di quella che era la realtà dei Lager, quegli inferni in terra che hanno mietuto vittime senza distinzioni. È un'analisi quasi fredda, uno scomponimento in atomi che ci vengono mostrati singolarmente al microscopio; uno studio fatto nel modo che ci si aspetterebbe da un chimico quale era Primo Levi, che ha messo da parte la rabbia infinita dell'uomo che quelle atrocità le ha vissute e ce ne ha fornito un resoconto obiettivo.
Una cosa mai vista prima.
Pensi alla domanda: "se questo è un uomo", e sai che Primo Levi si riferisce ai prigionieri, ma in fondo anche e soprattutto agli oppressori (seppur non lo dica), agli artefici della distruzione di quegli esseri umani; ai "non uomini" che hanno sperimentato negli altri lo stesso annientamento, constatando che negli oppressi questo non può portare ad altro che alla morte.
Leggetelo.

"Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga."

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Se questo è un uomo 2016-10-24 05:58:42 Nemesi1874
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Nemesi1874 Opinione inserita da Nemesi1874    24 Ottobre, 2016
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la scelleratezza del genere umano

Ho letto diversi libri riguardo l'olocausto, ho visto documentari e ho ascoltato diversi racconti MA, Primo Levi, ha un modo lucido di narrare e analizzare le vicende e le persone che é comune a pochi scrittori. "Se questo é un uomo" é stato un viaggio alla scoperta della crudeltà umana, della cattiveria allo stato puro, dei pregiudizi infondati. Esseri umani ridotti ad essere fantasmi di sé stessi, a lavorare per tentare di sopravvive, donne non più tali e uomini non più virili. Un libro scritto per il bisogno di comunicare agli altri ciò che davvero sono stati i campi di sterminio. Consiglio vivamente la lettura di questo scritto di Levi, a tratti sentimentale per la tristezza trasmessa, a tratti critico per l'analisi sociale delle persone.

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Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi ha letto: "Avevano spento anche la luna" e "Ho sognato la cioccolata per anni"
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