L'oblio che saremo L'oblio che saremo

L'oblio che saremo

Letteratura straniera

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Medellín, 25 agosto 1987: Héctor Abad Gómez - medico, professore dell'Università e presidente del Comitato per i Diritti Umani - viene barbaramente trucidato per strada dagli squadroni della morte colombiani. È la fine annunciata di un uomo che aveva dedicato la propria vita alla difesa dell'uguaglianza sociale, ai diritti, all'istruzione e alla salute degli esclusi in un Paese stretto nella morsa di narcotrafficanti e di politici reazionari. Vent'anni dopo Héctor Abad, suo figlio - ormai affermato scrittore e giornalista -, decide di provare a raccontarne la vita, e contemporaneamente la propria infanzia e formazione, fino a quel terribile epilogo. Il risultato è un romanzo «bellissimo e commovente, e al tempo stesso la testimonianza di un reale impegno civile per la democrazia e la tolleranza», come ha scritto sulle pagine del «País» il filosofo Fernando Savater.



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L'oblio che saremo 2022-05-23 17:49:08 Menti55
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    23 Mag, 2022
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La lotta per la democrazia e la libertà

Già alcuni anni fa, attraverso una meritoria iniziativa di un quotidiano nazionale, mi sono imbattuto in questo titolo che mi ha consentito di conoscere Héctor Abad. Colombiano di nascita, nato nel ’58, Abad racconta in prima persona, attraverso la storia della sua famiglia, la Colombia degli anni 70 e 80. Il momento più drammatico del racconto è l’assassinio del padre, Héctor Abad Gomez, avvenuta nel 1987. Uomo colto, docente universitario, tollerante, equilibrato e non dogmatico, un medico inviato dall’OMS in giro per il mondo, sempre proteso ad insegnare (ma anche ad attuare) come migliorare le condizioni igienico-sociali dei paesi; un giusto che si professava “cristiano di fede, marxista in economia, liberale in politica”. Mite, dal carattere allegro, non poteva sopportare il dilagare della violenza, gli assassinii degli squadroni della morte che fecero, in quegli anni, oltre 400.000 morti non risparmiando nessun ceto sociale: attivisti di destra e di sinistra, comunisti e conservatori, docenti universitari, teologi, scrittori, medici… Ciò che mi ha colpito, in un libro peraltro molto bello, è stato innanzitutto rendersi conto di come, a volte, si conosce così poco di altri paesi, di altre storie. La Colombia è sempre stata associata, nel mio immaginario perlomeno, alla grande produzione di droga, al cartello di Medellin, alla dittatura. Scoprire un mondo fatto anche di eroi borghesi che si sono opposti a costo della loro stessa vita ad un regime autoritario e connivente con la malavita organizzata è stata una piacevole sorpresa sia pure nell’amarezza di scoprire un mondo di violenza, brutalità e morte. Riscoprire cioè che, come diceva Machado alla vigilia della capitolazione di Barcellona nella guerra civile spagnola: “Si ignora che il coraggio è la virtù degli inermi, dei pacifici – mai degli assassini –, e che alla fine le guerre le vincono sempre gli uomini di pace, mai i sostenitori della guerra. È coraggioso solo chi può permettersi il lusso dell’animalità che si chiama amore per il prossimo, che è cosa specificatamente umana”.
Il secondo aspetto che balza agli occhi attraverso la descrizione di un ventennio di storia che Abad tratteggia con la sua cronaca familiare è (ri)scoprire come alcuni valori non hanno confini, non hanno latitudini; sapere che in qualsiasi parte del mondo, ovunque esista una dittatura, un regime oppressivo esistono frange più o meno ampie di resistenza, esistono persone che si oppongono e non si rassegnano né si piegano. Nelle pagine finali Abad spiega il motivo per cui, dopo quasi 20 anni (l’omicidio del padre è del 1987, la prima edizione del libro è del 2006) racconta l’assassinio del padre, la sua storia familiare e la storia della Colombia: cercare di confutare le parole dell’amato Borges “Già siamo noi l’oblio che saremo…” (Epitaffio) invitando direttamente il lettore ad avere “memoria”. E allora mi è tornato in mente l’incipit della Apologia della storia di M. Bloc: Papà, a che serve la storia? Ed eccola in Abad una possibile risposta: “Se le parole trasmettono in parte le nostre idee, i nostri ricordi, i nostri pensieri, se le parole tracciano, attraverso i libri in cui si trasferiscono, una mappa approssimativa della memoria collettiva, se attraverso queste parole (attraverso la storia) troviamo degli alleati, dei complici, capaci di far risuonare con le stesse corde quella cassa scura dell’anima che è la mente che la nostra specie condivide allora saremo in grado di riscuotere l’anima dal sonno e fare sì che l’oblio che saremo si protragga il più lontano nel tempo lasciando che la storia viva in chi verrà dopo di noi". Perché, parafrasando Sepulveda, un paese senza memoria è un paese senza futuro.

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Libri inneggianti la democrazia, la lotta per la libertà, a chi ha amato Patria di Aramburu.
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L'oblio che saremo 2019-04-17 05:37:34 siti
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siti Opinione inserita da siti    17 Aprile, 2019
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Una storia esemplare

Richiamata da uno splendido titolo - scopro poi essere l'incipit di una lirica di Borges, la cui attribuzione è stata più volte messa in dubbio in quanto parte degli ultimi scritti senza attestazione editoriale e citati per la prima volta da questo autore colombiano - mi ritrovo a leggere un vero e proprio tributo a un padre molto amato. È un memoriale autobiografico, non dunque un romanzo, e insieme è un atto di scrittura necessario a un figlio che ha perso il genitore amato e compie il definitivo e ultimo atto di un laborioso percorso di elaborazione del lutto. La specificità dello scritto, rispetto a quella che parrebbe a prima vista una storie fra tante, risiede nel fatto che trattando un dolore personale si offre il ritratto della travagliata storia colombiana di cui il padre, annoverabile oggi fra i suoi martiri moderni, fu involontario protagonista. Era un medico poco avvezzo alla pratica chirurgica e un pragmatico dispensatore di principi di igiene, convinto, nonostante fosse un professore universitario, di avere il dovere di istruire le persone raggiungendole di persona nei luoghi più poveri del Paese. Era un idealista e si batteva per una seria riforma agraria, per l'acqua potabile accessibile a tutti, per i vaccini e per i diritti umani, professore spesso costretto all'esilio volontario per allentare la pressione ricevuta tra i palazzi dell'università in seguito al suo pericoloso esporsi che lo rendeva inviso alle classi sociali più conservatrici. La sua morte arriva preannunciata e non temuta perché, benché morissero progressivamente tutte le persone vicine a lui, egli era consapevole della sua fortuna e della sua vita felice e pur non preferendo morire, altro non poteva fare che vivere ancora come aveva sempre fatto anche se minacciato.
Lettura interessante, inizialmente eccessiva e ripetitiva nel decantar le lodi paterne per giungere a un giusto equilibrio espressivo nella parte centrale e in quella più delicata che ci consegna la rappresentazione dell'omicidio e del dolore senza cadere nel vanto o nella retorica. Lo consiglio, a me ha richiamato nomi quali Guido Rossa, Mario Calabresi, gli anni di piombo ma anche Falcone e Borsellino e la loro lotta alla mafia. Ci sono pagine in cui viene descritto lo scenario colombiano fra gli anni '70 e '80 e ci si ritrova basiti a contemplare la descrizione di meccanismi già noti e già vissuti qui in Italia e purtroppo non ancora tramontati.

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Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là
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