La donna giusta La donna giusta

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    28 Gennaio, 2020
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Declino

Sandor Marai è un grandissimo signore nei suoi romanzi. “La donna giusta” credo che sia il mio libro preferito di Marai per quanto riguarda la descrizione ambientale e storica. Quattro monologhi scritti in un ampio arco temporale, di quattro persone che si sono amate e che hanno cambiato l’uno la vita dell’altra. C’è un primo piano di lettura sull’argomento dell’amore, del matrimonio, della passione, tema molto caro a Marai e ben sviscerata con la sua innata eleganza e profondità di pensiero. E poi c’è il contesto storico e sociale che intreccia armoniosamente a quanto detto prima e rappresenta l’aspetto che più mi è piaciuto. E’ la descrizione del declino della classe borghese “vera”, che è ricca a prescindere dai soldi e che mantiene viva la fiamma della cultura pura e dell’arte. Ho trovato la voce di Marai (attraverso i personaggi di Peter e Lazar) molto malinconica e dispiaciuta nel descrivere questo tramonto per far poi spazio all’alba di nuove forme di “false” borghesie ritte soltanto sui soldi, gente grezza che crede di poter comprare tutto, o quasi. Non possono comprare quell’innata signorilità e cultura del vero borghese che al tempo stesso era anche un custode di questo modo di vivere.
La prosa è molto profonda e da luogo a molte riflessioni, forse l’unico difetto che gli posso trovare è la ripetitività, certe idee vengono spesso riprese, fatto che unito all’assenza della trama e a questo duopolio tematico può rendere la lettura un po’ più lenta nella seconda parte. Nonostante questo, resta il mio preferito.

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Monky Opinione inserita da Monky    08 Novembre, 2019
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Questione di... punti di vista

Una stessa storia d’ amore vista da tre punti di vista: lui, lei e l’ altra (che poi diventerà la seconda moglie).
Ognuno è convinto di aver vissuto il vero amore, non sapendo che per l’ altro si è stati solo un’ avventura, un’ opportunità per salire la scala sociale o una distrazione.
Amarissima analisi dei sentimenti e della vita in generale che lascia pensare a quanto spesso la realtà sia completamente diversa da come ce la immaginiamo, facendoci illudere e spesso rovinandoci la vita inseguendo amori impossibili e storie che non sono come ce le aspettiamo.
Romanzo intenso, raffinato,elegante, introspettivo che non lascia sicuramente indifferenti ma che diventa motivo di profonda riflessione per ognuno di noi.
È un libro in alcuni passaggi un po’ noioso e di non facile lettura ma che va assolutamente letto, un vero capolavoro che lascia qualcosa dentro.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    27 Luglio, 2019
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L'amore è sempre letale

“La donna giusta” di Sandor Márai narra, attraverso quattro punti di vista, veri e propri monologhi travestiti da dialoghi, un triangolo amoroso sullo sfondo di una Budapest a cavallo tra gli anni precedenti e successivi alla seconda guerra mondiale: quello che aveva coinvolto un ricco borghese, sua moglie e la donna di cui l'uomo si era perdutamente innamorato prima di sposarsi, un amore impossibile che non rimane impossibile per sempre.

Dopo aver letto “Le braci”, che considero un vero e proprio capolavoro, devo ammettere che quest'altra opera del famoso scrittore ungherese non mi ha convinta completamente.
Il testo è composto da quattro parti: originariamente Márai, nel 1941, aveva dato alle stampe il libro con solamente le prime due parti, quelle che raccontavano il punto di vista della prima moglie e del ricco borghese. Nel 1949 lo scrittore aggiunse il terzo monologo e nel 1980 fece pubblicare il libro con l'aggiunta di questo terzo punto di vista rielaborato e dell'epilogo.
Ebbene, sinceramente, ho sentito queste ultime due parti come vere e proprie “aggiunte”, giustapposizioni fin troppo artificiose ad un romanzo che nella prima parte, invece, mi era piaciuto molto. É evidente che la Vita e la Storia si sono messe in mezzo e Márai ha ritenuto opportuno aggiungere pagine e pagine (troppe, secondo il mio modesto parere) per ampliare la narrazione con elementi di critica al regime ungherese di quel periodo storico e riferimenti alla sua situazione biografica. Non discuto il valore intrinseco di queste aggiunte e posso senz'altro capire le motivazioni dell'autore ma quello che mi chiedo è: non poteva elaborare e sviluppare queste idee in un altro romanzo? Ho trovato le ultime due parti veramente lunghe, prolisse e un pochino pesanti.

Detto ciò, “La donna giusta” rimane una lettura interessante e che fornisce ottimi spunti di pensieri da rielaborare. Vengono trattati i temi cari all'autore: la passione amorosa, il tradimento, l'amicizia, con l'aggiunta di una riflessione più approfondita su classi sociali e cultura.
Esiste davvero la persona giusta? É possibile sentirsi appagati e pienamente soddisfatti dalla propria condizione familiare e sociale, se pure queste sono delle ottime condizioni? No, sembra rispondere l'autore attraverso il punto di vista di uno dei suoi personaggi.

«E improvvisamente ho capito che non c'è nessuna persona giusta. Non esiste né in terra né in cielo né da nessun'altra parte, puoi starne certa. Esistono soltanto le persone, e in ognuna c'è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c'è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l'unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce [...]»

Esiste soprattutto, direi, l'insoddisfazione. Un male di cui sembrano soffrire tutti i personaggi di questo romanzo: la prima moglie perché sente di non essere amata veramente, il ricco borghese perché si sente intrappolato nella sua vita che somiglia ad una prigione dorata, l'altra donna, perché non arriva mai a comprendere né ad amare il marito e tende a cercare (anche lei) sempre altro. Insofferenza, noia, frustrazione, si stendono come una coperta sopra la vera natura dell'uomo, sui suoi istinti primordiali che, se seguiti fino in fondo, non possono che portare comunque all'infelicità. La passione non può che essere sofferenza, eppure l'uomo non si può sottrarre alla sua forza devastante.

«E ora sto per dirti una cosa, nel caso non la sapessi già: l'amore, quello vero, è sempre letale. Mi spiego meglio: il suo scopo non è la felicità, l'idillio fino a che morte non ci separi, le romantiche passeggiate mano nella mano, sotto i tigli in fiore, attraverso i quali si intravede la fioca luce del lampione che illumina il portico, finché appare la casa che ti accoglie avvolgendoti con i suoi freschi effluvi... Questa è la vita, non è l'amore. L'amore è una fiamma più sinistra, più tragica. Un giorno si accende il desiderio di conoscere questa passione devastante. Sai, quando ormai non si vuole più nulla per sé, quando non si cerca l'amore per essere più sani, più tranquilli, più appagati, ma si vuole soltanto per essere, in modo totale, anche a costo di perire. »

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    20 Settembre, 2018
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L'amore è un grande inganno

Un triangolo amoroso, ambientato nella bellissima Budapest, raccontato dai tre personaggi che lo hanno vissuto sulla propria pelle. La penna raffinata, delicata, amaramente ironica di Sandor Marai ci regala una storia piena di sentimenti e con un approfondimento psicologico degno dei più grandi scrittori. Ma attenzione, non dovete pensare di trovarvi davanti ad un semplice, se pur magnifico, romanzo sentimentale. L'opera del maestro ungherese è infatti molto più complessa e si sviluppa su più livelli di lettura. Ci sono la lotta di classe e l'amicizia, ci sono l'arte e la cultura, la patria e l'emigrazione. C'è un quadro storico-politico preciso ed interessante che racconta di una nazione vittima del nazismo prima e dello stalinismo poi, dell'ascesa vertiginosa della borghesia culminata poi con una roboante caduta, di spaccati di vita
di una delle epoche più difficili e tormentate della storia europea e mondiale. I tre protagonisti, in altrettanti monologhi con interlocutori esterni alla vicenda (uno dei quali sarà la quarta ed ultima voce narrante nell'epilogo), raccontano in prima persona la propria versione della stessa faccenda, esternando i propri sentimenti, la delusione, la disillusione, giungendo infine, chi per una strada, chi per l'altra, alla  conclusione che l'amore è soltanto un grande inganno. Lei, Marika, donna fine, affascinante, di buona famiglia, profondamente devota ad un marito che ama in maniera incondizionata. Ma la sua devozione non viene ricambiata in pieno. Il suo rapporto con Peter, sotto una parvenza di felicità e appagamento, nasconde una pecca, una lacuna. Marika si rende conto che c'è qualcosa di irraggiungibile, di profondamente segreto e impenetrabile nell'animo del suo compagno. Quando proverà in tutti i modi a scoprire l'arcano segnerà definitivamente la fine del suo matrimonio e delle sue illusioni. “Non c’è nessuna persona giusta. Non esiste né in terra né in cielo né da nessun’altra parte, puoi starne certa. Esistono soltanto le persone, e in ognuna c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c'è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l'unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce”. Lui, Peter, sposato con una donna senza difetti, se non uno: non è la persona che lui ama. Già, perché Peter, borghese di alto rango, colto, ricco, raffinato, con un profondo animo d'artista pur senza nessun talento particolare per qualsiasi tipo di arte, è innamorato della sua cameriera, Judith. Alla fine la sposerà, dopo aver divorziato da Marika, ma le cose non andranno come lui sperava. "La passione non ha niente di festoso. Questa forza truce, che incessantemente crea e distrugge il mondo, non interpella coloro che tocca, non chiede se a loro fa piacere o no, non si preoccupa granché dei sentimenti umani. Dà tutto e tutto pretende; esige uno slancio senza condizioni, alimentato dalla stessa energia primordiale della vita e della morte". L'altra, Judith, la figlia di contadini che ha passato l'infanzia in una fossa tra fango, topi e scarafaggi, la giovinezza a fare la cameriera nelle case dei ricchi e infine, nell'età adulta, si trova dall'altra parte della barricata, tra quei borghesi che a lei sono sempre sembrati irraggiungibili. Sposa l'uomo che ha servito per anni, ma non è l'amore a spingerla. Per lei sposare Peter è un atto politico, un gesto rivoluzionario. Significa prendersi, anche a costo del sotterfugio, dell'inganno, del più calcolato cinismo, una rivincita sulla vita, sulle iniquità del sistema, sul destino beffardo. Ma anche lei dovrà ammettere la sconfitta quando capirà che ciò che ha fatto non è servito a niente. "Ti confesso che il motivo principale per cui odiavo i ricchi è che riuscivo a portargli via soltanto i soldi. Il resto, che poi è il vero senso e il segreto più profondo della ricchezza, quella diversità che mi stregava tanto quanto il patrimonio... quest'altra cosa non me l'hanno voluta dare. L'hanno nascosta talmente bene che nessun rivoluzionario riuscirà mai a strappargliela... L'hanno nascosta meglio della roba preziosa dentro le cassette di sicurezza delle banche estere, meglio dell'oro sotterrato nei loro giardini".

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siti Opinione inserita da siti    17 Agosto, 2017
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AZ IGAZI

“Az igazi (“quello giusto”con valore neutro) era intitolata la prima versione - apparsa in Ungheria nel 1941- di questo testo, e solo due erano le voci che narravano il triangolo amoroso attorno a cui ruota la vicenda. Per l’edizione tedesca del 1949 Márai aggiunse il terzo monologo che, rielaborato nel 1980, fu dato alle stampe insieme all’epilogo. ..”
L’edizione Adelphi presenta il romanzo nella sua integralità e la nota iniziale è doverosa onde evitare di tacciare il romanzo quale dispersivo, disorganico, prolisso, qualità invero che gli sono proprie ma che non lo connotano affatto. A mio parere occorre semplicemente tenere conto della genesi su riportata e della volontà dell’autore. È insomma un romanzo che vive di giustapposizioni ma che al contempo si nutre di una sua funzionale economia interna seppur con qualche criticità che lo scalza dal podio del capolavoro. Leggerlo è doveroso perché fonte inesauribile di riflessioni, non tutte condivisibili, a dirla tutta, la mia edizione è diventata un prototipo di libro orecchia, diciotto su quattrocentoquarantuno pagine, equamente distribuite nelle quattro sezioni. Si tratta in breve di diversi punti di vista su una medesima vicenda, ne veniamo a conoscenza mediante il racconto che i protagonisti fanno ai loro interlocutori in un dialogo che vira al monologo, uno degli interlocutori diviene poi a sua volta il narratore dell’epilogo.

Una prima moglie, un marito, una cameriera, un musicista; rispettivamente la storia di un matrimonio, di una passione sopita, di una scalata sociale, e del succo di tutta la storia.

Marika appartenente alla borghesia ungherese sposa Peter e si dedica a lui, brillante borghese amante della cultura e dei libri; si accorge che lui non le appartiene completamente nello spirito; scopre che vive una tensione irrisolta avendo pensato in gioventù di poter abdicare al suo ruolo sociale inseguendo la pulsione che lo spingeva verso la giovane cameriera proletaria giunta dalla fossa di famiglia dove era uso coltivare meloni. Marika tenta di salvare il suo matrimonio nonostante sia minato anche dalla perdita del loro figlioletto , senza riuscirci; ama il marito ma è condannata a non riuscire a vivere con lui: “Amare non è sufficiente”e non solo … non esiste nemmeno la persona giusta, tanto meno può esserla quella a cui noi tributiamo il nostro amore, ogni persona è bene e male, possiede un pizzico del giusto che andiamo a cercare, non esiste la persona che ci può dare quella felicità totale alla quale agognamo.
Peter è invece un uomo schiacciato dalla sua identità sociale; è ricco, ligio al dovere, irrisolto, tendenzialmente solitario, costretto alla vita sociale, imbrigliato e vigliacco. Prima del matrimonio è incapace di assecondare la passione per la giovane cameriera Judit Áldozó, : “all’epoca ignoravo tante cose, ad esempio che quando un essere umano obbedisce alla legge del proprio corpo e della propria anima non è mai ridicolo.”. Fallito il primo matrimonio finalmente la sposa ma lei si rivela altra persona, fallisce presto la loro unione. Lui matura una visione distruttiva dell’amore: “Amare significa semplicemente conoscere appieno la gioia e poi morire.”

Judit Áldozó è una giovane proletaria, a Budapest conosce un altro mondo fatto di pulizia, profumi, modi gentili, ossessioni e nevrosi incomprensibili, ricchezza materiale ed estrema povertà d’animo. Si spaventa, si difende ma progressivamente si fa fagocitare da quel mondo fino a divenire una signora anche lei pur non tradendo mai la sua vera essenza plasmata dall’ estrema povertà delle origini. Sposa Peter e lo annienta. Il suo monologo appare stridente e perfettamente contrapposto a quello della prima moglie: Marika ha vissuto l’amore, quello vero pur fallendo nel vincolo matrimoniale, Judit si rappresenta invece nel suo squallore umano, incapace di amare.

L’epilogo è affidato al musicista che entra in contatto con lei dopo il suo trasferimento a Roma e narra la sua storia a Peter stesso anch’egli fuoriuscito dall’inferno ungherese dopo l’assedio di Budapest e l’avvento del regime comunista. Questa sezione come parte del monologo di Judit dedicano ampio spazio alla rappresentazione dell’orrore della città assediata, i ponti divelti , Buda e Pest separate , il terrore del regime; appaiono dunque slegati dall’intimità dei primi due monologhi per tentare una sorta d ricognizione aerea sul destino dei singoli inquadrati in una Storia di più respiro, una tragedia infinita segnata dall’orrore della guerra posta lì come ad appianare ogni miseria umana.
Trasversale ad ogni pagina di questo bel libro l’amore per la lettura e la cultura:” … la cultura è quando una persona … o un popolo … sono pieni di gioia immensa!”
E il succo di tutta la storia? È il concetto di democrazia contenuto nella bellissima immagine finale, impossibile anticiparla.

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68 Opinione inserita da 68    01 Gennaio, 2017
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Insondabile desiderio di verità o semplice rappres

In " La donna giusta " la vita si mostra per quello che è, una messinscena protratta e di una imperfezione assoluta, il cui soffio vitale cerca di catturare e definire, fallendo miseramente, il senso più oscuro, le molteplici facce, i contorni ed i misteri di una complessa e struggente relazione d' amore ( a più volti ).
Questa sfugge ad ogni oggettivo mostrarsi, ne' può essere circoscritta all' interno di classi sociali, luoghi o spazi temporali.
Una storia, quattro atti, una sceneggiatura scarna, teatrale, melodrammatica, quattro monologhi , improvvisati, interconnessi, luoghi e tempi diversi, legati da un sottile filo e da una stessa trama ogni volta plasmata, ridefinita e distorta dall' occhio di ciascun protagonista.
Un primo matrimonio consumatosi presto, un possibile tradimento, un secondo matrimonio destinato al fallimento, poi solo vite dissolte, partenze, ritorni, domande irrisolte e risposte probabili.
Ma che cosa realmente si cerca, e che cosa è nascosto, quale verità oltre i fatti e le relazioni intraprese?
E la guerra, lo sfondo storico, quale ruolo riveste, e l' adesione ungherese al modello del socialismo sovietico, l' espatrio, la lotta di classe, la dicotomia borghesia-proletariato, e la contemporaneità con l' avvento del capitalismo, con nuovi arricchiti e vecchi ricchi impoveriti ?
La storia è madre e giudice degli accadimenti, li modifica, noi come siamo cambiati, e che cosa ci fa pensare di avere perduto il nostro io, aspirazioni, desideri, gli altri, o, per contro, non li abbiamo mai posseduti?
Gli eventi assumono i connotati del possibile, vogliamo raccontare quella che..." crediamo essere la verità "... ed emergono i sentimenti svelati.
Vi è un mondo alto-borghese ( quello di Peter ) della prima metà del secolo costruito su rituali, consuetudini, leggi non scritte, buone maniere, cultura nozionistica, incastonato in una perfetta quotidianità solo apparente, in una forma che non riconosce altro da se' se non le proprie regole, quel mantenimento dello status quo che si fonda sull' accumulo ed una solitudine conservatrice e preservatrice. È un mondo ossessionato dalla completezza in cui " ... si vive e a poco a poco si muore in modo leggiadro senza scomporsi, con stile da bravo borghese.... ".
È poi c' è chi vorrebbe entrare a tutti gli effetti in quel mondo ( Marika ) e si sente esclusa pur facendone parte, ed allora ricerca l' esclusività con il ricatto affettivo ( il proprio figlio ), un desiderio d' amore che finisce per essere puro egoismo, che travalica l' anima per nutrirsi di se'.
La verità a cui aspira le è negata perché manca di umiltà e di conoscenza di se'.
C' è chi è nata povera ( Judit ), ha fatto la fame, è entrata in quel mondo come donna di servizio e tale e' rimasta ( " .... non li ho mai amati, ma solo e sempre serviti... " ), ne assorbe i contenuti ( esteriori ), lo imita, lo disprezza ma cerca di esserne parte, ruba dal suo interno, ignorando che comunque ne sarà sempre esclusa. Aspira alla borghesia, ma è schiava dei propri sfrenati desideri e di una vanità che le precluderanno la pace interiore.
E poi c' è l' arte e l' artista ( Lazar ) accompagnato da un distaccato sarcasmo e dall' idea che la cultura in fondo non c' entri nulla con tutto questo, ne' con un semplice apprendimento nozionistico, ma sia parte di un respiro più ampio, una gioiosa presenza, una esperienza condivisa. Un giorno, ahimè, la gente avrà solo le conoscenze, un semplice accessorio.
Ma " ....chi è in fondo uno scrittore, una nullità. Non ha né titoli, ne' potere, ne' gradi... ".
Dopo la guerra ed il socialismo una inversione di rotta, quell' espatrio obbligato e negli anni, emigrati in America, l' impoverimento dei ricchi, un neo-proletariato, inserito in una neo-realtà capitalistica, gaudente, in grado di darci quello che abbiamo sempre sognato, semplici oggetti, in realtà impoveriti nell' animo, alla mercé di un cronico indebitamento e di un cinismo devastatore.
In tutto questo quale ruolo ha l' amore? Ne rimane il filo conduttore, tesse la trama e guida i sentimenti dei protagonisti, tra gelosia, vanità, desiderio di rivalsa.
La vita, invero, resta insondabile, complicata, inarrivabile, cangiante, ed il tentativo di carpirne e definirne segreti e menzogne è destinato a fallire, perché le cose semplicemente accadono e la percezione è soggettiva, diversa, caduca, la realtà è di altro vestita.
L' animo umano trabocca di segreti e non va violato, l' amore si compie nella loro accettazione, nella rassegnazione, è paziente e sa attendere, così come la ragione può solo disciplinare i sentimenti, modificarli ma non cambiarli.
Una certa rassegnazione, allora, ci coglie, non è una chiarezza assoluta, solo poche sensazioni vissute, l' esperito, quel viaggio attraverso la storia e le proprie emozioni.
Soli, abbruttiti, cambiati, così diversi, stanchi, impoveriti, non ci resta che allontanarci con un sentimento comune, oltre qualsivoglia distanza spazio-temporale o culturale, o improbabile verità, la certezza di avere condiviso il nostro letto, e parte dei nostri giorni, con un' unica donna, che ci ha uniti per sempre, la " donna giusta ".
La lettura di Marai raggiunge in " La donna giusta " ( 1949 ) l' incastro dei molteplici temi della propria complessa esperienza letteraria.
È un puzzle composito, ma ogni capitolo potrebbe rappresentare un singolo racconto, l' ultima parte è stata aggiunta successivamente e si percepisce. È complicato entrare e definire gli sconfinati temi della sua ricerca, ogni pagina nasconde un mondo, prevalentemente di sentimenti, ma anche di storia ( non solo personale ) e di politica oltre che di indagine sociologica e psicologica.
Da un punto di vista prettamente letterario e lirico ho preferito altri testi, ( in primis " Le Braci " ma anche " L' eredità di Eszter " e " La sorella " ), ma questo romanzo senza dubbio spicca per ricchezza di temi e contenuti oltre che per completezza d' insieme.

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bluenote76 Opinione inserita da bluenote76    04 Settembre, 2015
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Esiste la persona giusta?

Quello che penso di questo libro voglio dirlo subito e senza giri di parole: è magnifico.
Un libro dallo stile limpido, smagliante, di grande eleganza ma mai stucchevole e che, come tutti i libri veramente importanti, si presta a parecchi livelli di lettura.
È certo un grande romanzo di passione e tradimenti; di sentimenti estremi e di personaggi tormentati strutturato in monologhi in cui la stessa storia viene narrata dal punto di vista dei diversi protagonisti. Ma sarebbe troppo ingiusto e riduttivo farlo passare esclusivamente come un romanzo d’amore, anche se la stupefacente capacità di approfondimento psicologico di Márai che — narrando in prima persona si identifica di volta in volta negli uomini e nelle donne dei diversi Io Narranti della storia — basterebbe già, a mio parere, a fare di questo romanzo una grande opera.
Ma questo è solo uno dei tanti possibili livelli di lettura di “La donna giusta”, che è anche, e per certi versi, forse soprattutto un libro su un mondo in trasformazione, sul sentimento di appartenenza ad una classe sociale la borghesia, sulla solitudine e sulla cultura, temi che vengono declinati attraverso le voci dei quattro personaggi monologanti di cui tre protagonisti della storia.
Ilonka, la moglie piccolo borghese, donna bella e intelligente che ama e desidera catturare l’anima del marito amato. E’ lei che dipana e sviluppa il tema dell’amore e che ad un certo punto dice “Ho capito che non c’è nessuna persona giusta. Esistono solo le persone ed in ognuna c’è un pizzico di quella giusta”.
Peter, il marito, borghese colto e raffinato, personaggio onesto e tormentato, innamorato dell’arte ma incapace di creare. E’ la voce di chi sente di appartenere alla borghesia colta ed illuminata (“non quei borghesi da strapazzo, che portano tale titolo soltanto in virtù del loro denaro o perchè sono stati in qualche modo promossi sulla scala sociale […] Io mi riferisco ai veri borghesi, a quelli che hanno creato qualcosa e lo conservano” ). Peter è la voce solitudine, quella “… solitudine profonda, intensa, che circonda ogni spirito creatore come l’atmosfera avvolge la terra.” Eppure “si continua a sperare. E’ davvero difficile arrendersi di fronte a questa realtà sconfortante, rassegnarsi al fatto di essere soli, terribilmente e disperatamente soli” […] ” …Forse un grande artista è in grado di tollerare una solitudine di quel genere: è costretto a pagare un pezzo terribile, ma entro certi limiti viene risarcito dalla sua opera”
Judit, la sottoproletaria diventata serva, terza voce narrante. Scaltra, bellissima, intelligente, orgogliosa. Di lei Peter si innamora, per sposar lei abbandona la moglie, è da lei che viene derubato da quasi ogni suo bene.
Eppure, è al personaggio di Judit, questa serva che diventa padrona ma che poi ridiventa povera senza farne una tragedia che Márai affida il ruolo di cogliere i significati ultimi e profondi di quello che è la cultura: “la cultura è quando una persona o un popolo sono pieni di una gioia immensa! Dicono che una volta i greci hanno avuto una cultura perchè tutti loro sapevano gioire. Prova ad immaginarti un popolo che vive nella gioia e questa gioia è la cultura!”
Ci sono poi, immediatamente riconoscibili per chi abbia letto i due volumi di memorie di Márai “Confessioni di un borghese” e “Terra, terra!…” lampi autobiografici che squarciano il romanzo e che si colgono
soprattutto in due personaggi: Peter (il marito) e Lázár, uno scrittore … che ha smesso di scrivere perchè — osservando l’apocalisse e gli orrori dell’occupazione nazista prima e di quella sovietica poi — si consuma sulla domanda ” i libri sono mai riusciti a rendere migliore qualcuno?” ed ha smesso anche di leggere niente più altro che dizionari di lingua ungherese.
Sia Peter che Lazar lasciano per sempre l’Ungheria quando si instaura il regime sovietico; entrambi consapevoli delle profonde trasformazioni cui viene sottoposta la loro appartenenza di classe e di cultura; della messa in discussione delle loro radici più profonde. Sono i due alter ego dello stesso Márai. Non a caso Peter parla di Lázár come del “testimone oculare” della propria esistenza.
Sándor Márai (1900-1989) è uno scrittore che amo profondamente. E’ uno di quelli che io chiamo “i miei scrittori”.
Era ungherese, profondamente antifascista ed anticomunista. Lasciò l’Ungheria nel 1948 (“La donna giusta” è del 1941) con l’instaurarsi dell’occupazione sovietica e non vi fece più ritorno. Le sue opere (romanzi e volumi autobiografici) rimasero inediti e sconosciuti mentre era vivo poichè gli scritti ungheresi molto raramente venivano tradotti all’estero ed egli, da parte sua, rifiutò di curare la loro pubblicazione in patria durante il regime sovietico.
Viaggiò molto in Europa (Parigi, Roma, Berlino, Napoli) e poi negli Stati Uniti, sempre struggendosi nella nostalgia non tanto della sua terra quanto della sua lingua madre, l’ungherese, lingua ostica e difficile da parlare e da tradurre (“la sola lingua che il diavolo rispetti”), lingua assolutamente minoritaria e pressocchè sconosciuta al di fuori dei confini magiari ma che per Márai rappresentava davvero la sua “madre patria” perduta.
echè uno scrittore è davvero senza patria se è consapevole del fatto che la lingua in cui scrive non viene compresa…
Morì suicida negli Stati Uniti, a San Diego, nel 1989. Si racconta che prima di uccidersi telefonò per chiamare un’ambulanza. “C’è un cadavere da portar via”, disse all’operatore che aveva risposto al telefono.

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pupa Opinione inserita da pupa    23 Agosto, 2014
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L'amore non basta

Pensavo di non emozionarmi ancora dopo aver letto le braci di Marai, ma mi sono dovuta ricredere nella lettura de la donna giusta. È un libro dove l’amore s’intreccia con la vita sociale, il ritmo del tempo con i luoghi diversi, quattro monologhi racchiusi in quattro sezioni, che scandiscono le inquietudini di una nazione in un formidabile intreccio di esistenze formato da linee immaginarie convergenti.
Una prorompente e allo stesso tempo semplice domanda pare suggerire sin dall’inizio l’autore: si chiede se esista il grande e assoluto amore, quello che resta indistruttibile e perenne lungo il corso degli anni e degli eventi e soprattutto se sia in grado di valicare le differenze sociali e svolge il tema attraverso quattro voci narranti.
Una donna vissuta in campagna, di lignaggio popolare basso, dai modi rozzi e goffi, propri di chi lavora la terra e da quest’ultima trae i frutti, diventa cameriera in casa di una famiglia benestante e altolocata. Il giovane Peter, prediletto e coccolato rampollo di casa, si accende d’improvviso amore, s’innamora di questa domestica, vivendo metà della sua esistenza nell’attesa di coronare il suo sogno. La vita non sempre è prodiga e accondiscendente dei desideri altrui e così la sua famiglia gli “impone” un matrimonio con una donna d’eguale condizione sociale. L’unico modo per realizzare il suo desiderio, quello di sposare Judit, è di trascurare il mènage coniugale facendolo naufragare. L’ex moglie, Marika, dal proprio punto di vista, esprime i suoi disappunti coniugali ad un’amica ponendo in evidenza i propri tratti di donna abbandonata, mai amata e tradita, anche se solo nei pensieri. In modo casuale Marika scopre il piano perpetrato dal marito grazie all’accidentale ritrovamento di un pezzetto di nastro e questa strisciolina di tessuto sarà il suo personale filo di Arianna attraverso i meandri di una verità scomoda e lacerante. È la metafora di un personaggio minore che esprime una condizione sociale affermata.
Peter ripercorre i tratti salienti della propria vita, di abbiente e benestante cittadino ricco borghese, custode dei valori a prima vista inalterabili ed immodificabili della società cui appartiene, alle prese con l’amore verso una contadinotta, cameriera della madre, relazione che comporterebbe uno scandalo sociale. Egli, lentamente, si disfa di tutti gli inganni e fronzoli sociali per sposare Judit, ma quel che scoprirà sarà una grande e dolorosa delusione. Judit, ormai lontana da Budapest racconta la storia al suo nuovo amante, un musicista, al quale è affidata anche la quarta ed ultima parte della vicenda.
Storia bella e profonda, gestita con maestria da Marai, è scorrevole, leggibile come tentativo di arrampicata sociale della contadina Judit in un mondo dorato quello di una vita agiata e lussuosa. Tra i quattro personaggi fa capolino un amico di Peter, uno scrittore affermato, di cui Judit sembra essere innamorata: forse è la persona più enigmatica, lo scrittore, consapevole e fautore del graduale disinteresse delle persone verso forme più elevate di comunicazione. Questo personaggio, sebbene appaia in misura più marginale nella vicenda è quello che invece fa da perno e riesce a portare la vicenda dalla sfera intimista a quella più ampiamente sociale in un Paese di fronte ad un radicale cambiamento, la fine di una società fondata sulla borghesia sostituita dal comunismo portato dai soldati russi, con tutto quello che ne conseguì per la società ungherese. E mentre Judit fa crollare i bastioni del mondo borghese, distruggendo dapprima il rassicurante matrimonio di Peter con Marika, e poi rubando tutto quello che può dai beni del marito, la Storia fa crollare le mura della città stessa. A questo punto interviene il legame con lo scrittore, legame sterile, i due non si toccano nemmeno, Judit passa le ore ad ascoltare le parole o i silenzi dell’uomo, che le parla dell’arte, del suo disfacimento in una società sempre più legata ai bisogni materiali. Ed è qui che la donna, dimentica dei beni e delle ricchezze della borghesia, anela ad un livello superiore, quel che è mancato nei secoli al popolo, ai contadini come lei e la sua famiglia, è soprattutto l’istruzione, l’arte, il bello.
Questo è ciò che accade ai protagonisti del romanzo di Marai e si capisce così che da solo, l’amore non basta, ma anche che la ragione non può far nascere o morire un sentimento. ?Al massimo, può “disciplinarlo”. ?Eppure…alcune passioni possono essere più forti della ragione e dei giorni che passano: ardono e bruciano tutto. ?Si dice che da qualche parte viva “la donna giusta”… ?Credo possa dipendere dal fatto che il mondo delle persone innamorate si riduce quasi sempre ad un viso, ad un nome. ?Il loro è uno sguardo assente e la vita appare indifferente. ?Si può pensare che un sentimento d’amore possa in qualche modo dominare un animo, fino al punto di impedirgli in seguito di amare ancora? ?Davvero si può pensare che un amore sia eterno? ?Capita che… improvvisamente un giorno ci si liberi da questo torpore e si riprenda a “vedere”. ?Ciò che prima sembrava un presente insopportabile, diventa un passato un po’ sfuocato, mano a mano lontano e ciò che bruciava, non fa più male. ?D’un tratto si riscopre il mondo, semplicemente perché prima, mente e anima erano concentrate su di un altro essere, che ora non c’è più. ?Certo, gli amori veri non si dimenticano… ?Tuttavia può accadere che improvvisamente la nostra esistenza diventi un terreno spazzato da un’alluvione e tutto finisce con l’essere trascinato via, perché l’amore vero è sempre letale e forse…non ha come vero scopo la felicità, capace com’è di creare una passione con una forza incontrollabile! ?Ma una vita che sia veramente degna di essere vissuta, non può rinunciare a questa passione!! ?Desiderare….cercare sempre la propria completezza… ?solitudini… ?vivere insieme a qualcuno senza conoscerlo veramente, perché non si può pensare di “possedere” tutto, anche i segreti nascosti dell’altra anima. ?No, non esiste la donna o la persona giusta, ma un po’ di giusto in tutte le persone, perché è inevitabile scoprire che in nessuna c’è tutto quello che speriamo, ci aspettiamo. Non esiste una persona che da sola possa darci la felicità che inseguiamo. ?Ma in ogni caso è inevitabile, quando si ama qualcuno, che si abbia il batticuore al solo vederlo. ?Ciò che veramente cerchiamo, fino alla fine della nostra esistenza, è il mondo di quando eravamo bambini. ?Il ricordo dell’attesa per qualcosa che deve ancora venire. ?L’amore in fondo è anche questo: momenti in cui due esseri si cercano, nell’attesa e la speranza create dalla magìa dell’attrazione. ?Perché dietro ogni bacio, c’è sempre quel senso estremo di felicità che non scende a patti con nulla.
La grandezza di questo romanzo, oltre alla sua bellezza e perfezione narrativa sta nel raccontare la Storia attraverso una vicenda apparentemente d’amore, di desiderio, di attesa che mostra in filigrana le attese di una nazione intera.

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pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    29 Giugno, 2014
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PERDERE L'AMORE (e non solo)

Quattro monologhi, ambientati a Budapest, Roma e New York, secondo un itinerario simile a quello dello stesso autore.
Quattrocentotrenta pagine, non tutte indispensabili, tre diverse stesure tra il 1941 e il 1980, un torrente impetuoso di parole, una cascata di osservazioni suggestive e di frasi da ricordare. A proposito di cosa?
Ecco, questo è il punto. Ho l’impressione che il buon Marai abbia gradualmente cambiato discorso, e che ci sia stata una svolta piuttosto netta tra i primi due monologhi (quelli dell’edizione 1941) e i successivi due.
Nel primo monologo, in un’elegante pasticceria di Budapest una signora della buona borghesia ungherese racconta ad un’amica la storia del fallimento del suo matrimonio. Si parte proprio così, tipo “posta del cuore”, tra una soffiatina di naso, un po’ di cipria, una tazzina di tè e un gelato, “sai cara” e “prego cara”.
Scorrono le pagine e ci si addentra nei meandri dell’amore,dei dubbi, delle illusioni, della lotta e della sconfitta, con considerazioni non banali sull’animo umano. Tutto interessante, ma si capisce che non si può andare avanti quattrocento pagine in questo modo.
E infatti, a pagina 61 irrompe il nastro viola, che ci introduce un personaggio che difficilmente dimenticheremo: Judit. Con lei entrano con scena altri temi cari a Marai: l’attesa, la feroce determinazione, disciplina, rinuncia, dissimulazione e autocontrollo che richiede ogni paziente, tenace e lunga attesa, e poi la forza che c’è nel sangue e nei muscoli, nella fibra di chi “vuole tutto” e che riempie di tragica grandezza ogni gesto, ogni parola, ogni attimo della sua vita.
Assistiamo ad una lotta, ma fino a qui sembra che il terreno di scontro sia soltanto sentimentale. “Da qualche parte vive sempre la donna giusta ”dice l’anziana suocera che ha imparato a muoversi e a vedere nel buio del silenzio e della rassegnazione. Ma il primo monologo si chiude con una riflessione diversa: la persona giusta non esiste, in qualche modo amiamo sempre la persona sbagliata, eppure non possiamo smettere di amare.
Cambio di scena, passano gli anni e Peter, l ’uomo conteso da due donne, racconta la sua versione dei fatti ad un amico in un bar di Budapest: un monologo lungo parecchie bottiglie di vino. Il panorama si allarga, l’atrofia sentimentale si accompagna alla solitudine, al malessere esistenziale e alla decadenza di quella buona borghesia che, fiaccata dal benessere e dalla propria stessa cultura, sarà travolta e fagocitata dalle forze nuove del ventesimo secolo. Se il sottotitolo del primo monologo potrebbe essere: “la verità, vi prego sull’amore”, in questa seconda parte potremmo fare il pieno di citazioni intelligenti e vissute sull’essere umano e sul suo destino terreno. E Judit Aldozo in questo quadro dove i deboli soccombono e i forti si prendono tutto, la bambina cresciuta in una buca sotterranea infestata dai topi, la tigre che si muove flessuosa e sorniona nella “giungla piena di impetuose cascate quale è la parte più vera della vita” assume i connotati di una invincibile dea della catastrofe.
Nel 1941 la guerra arriva anche in Ungheria e proprio in quell’anno “Az igazi” (quello giusto, senza distinzione tra genere femminile o maschile) viene dato alle stampe, composto soltanto dai primi due monologhi. La prima versione del romanzo ci consegna una Judit smarrita da quanto possano essere vuote, amare e inappaganti le vittorie a lungo cercate, ostinatamente perseguite. Alla fine esce di scena con “lo stesso sguardo silenzioso, interrogativo e distaccato di quando l’avevo vista la prima volta, nell’ingresso”.
Il terzo monologo è quello scritto nel 1949, dopo la guerra, le distruzioni, i saccheggi, le vendette, l’ordine nuovo, che in Ungheria significò la “democrazia del popolo”, le purghe, le cospirazioni, i tradimenti, le fughe, gli espatri, tutti contro tutti e si salvi chi può.
Questa volta tocca a Judit parlare. E non racconta soltanto di una vittoria vana, di un sacrificio inutile. E’ una Judit invecchiata, sconfitta, che ha perso tutto e che in un alberghetto di Roma, tra le braccia di uomo più giovane, sfoglia malinconicamente le pagine della propria vita. L’orizzonte si allarga ancora. La prospettiva diventa meno intima, più collettiva. Poveri contro ricchi, borghesi contro proletari. L’odio sociale, il desiderio di rivalsa, la fame, la cattiveria, l’assenza di pietà come armi per la sopravvivenza in un mondo allo sbando dove contano soltanto la forza e l’astuzia, essere sani e vigorosi, non intossicati dalla cultura e rammolliti dagli agi e dalle buone maniere. Insomma Judith Aldozo non aggiunge solo una terza versione dei fatti: è soprattutto la prima a parlare a guerra finita, in un mondo nuovo.
Questo spostamento di attenzione dall’intimo al sociale è testimoniato anche dalla parabola compiuta dallo scrittore Lazar, l’intellettuale, l’amico di Peter. Personaggio inquietante ed enigmatico, con sensibilità e intelligenza fuori dal comune, nei primi due monologhi Lazar è colui che ha lo sguardo capace di penetrare nel cuore di Peter, di Judit, di tutti, e capisce prima degli altri. Sebbene qualche volta si abbia il dubbio che parli sul serio, per la sua stravaganza e la tendenza a prendersi gioco degli altri, è un uomo che ancora crede nella propria missione, quella di custode del vecchio ordine, contro le pulsioni autodistruttive della stessa borghesia.
Nel racconto di Judit,conosciamo invece un Lazar molto diverso, più scoperto, senza maschera, un uomo che vuole “prendere le distanze dal mondo … da tutto ciò che conta per il genere umano”, che considera la parola come veleno e che legge soltanto vocabolari, perché è ormai convinto che la cultura, come le olive farcite al pomodoro, è destinata a scomparire. “E’ possibile che anche in futuro da qualche parte si venderanno olive ripiene al pomodoro. Ma sarà ormai estinto quel genere di persone che avevano coscienza di una cultura. La gente avrà soltanto delle conoscenze, e non è la stessa cosa. La cultura è esperienza, mia cara signora, un’esperienza continua, costante, come la luce del sole. La conoscenza è solo un accessorio. Ecco perché sono lieto che almeno lei abbia fatto in tempo ad assaggiare le olive.” E ancora: “Nel mondo prossimo venturo chi è bello sarà guardato con sospetto. Come pure chi ha talento. E carattere. Non lo capisce? La bellezza sarà considerata un affronto. Il talento una forma di provocazione. E il carattere un attentato!”
E infine, il quarto monologo, pubblicato soltanto nel 1980. Nel bar di New York dove ha trovato lavoro, l’amante di Judit racconta ad un connazionale i tempi duri dell’Ungheria dei gruppi di produzione, dei ministri che studiavano a Mosca, della polizia politica, dei tribunali speciali.
Il nuovo mondo si è ormai affermato e “lo sporco proletario” può permettersi il lusso di accompagnare a casa “il signor dottore” con la sua bella macchina nuova. E bearsi anche della casa, della tivvù e persino della cesoia elettrica per tagliare l’erba, che non si usa, perché non c’è il giardino, ma si tiene nella veranda, per lo status.
Judit invece aveva capito e imparato bene la lezione: “ho la brutta sensazione che non sarà come dicono … Alla fine, a quegli altri rimarrà sempre qualcosa che non vogliono mollare. E che non gli si può levare con la violenza … Non lo si ottiene nemmeno dopo anni e anni passati a scaldare il banco all’università … Proprio non capisco. Ma ho il sospetto che ci sia ancora qualcosa che i signori non ci vogliono dare …”
Sarà forse quella capacità di sorridere, qualunque cosa accada. Quel sorriso, che i ricchi probabilmente imparano “in una specie di università segreta” probabilmente può spiegare perché le vittorie di chi è cresciuto in una buca in mezzo ai topi sono sempre effimere, mentre chi porta la camicia da tre generazioni riesce sempre, inspiegabilmente, a conservare “aplomb” e distacco (e odore di fieno!) anche percorrendo un ponte tra gli sfollati o scomparendo a New York oltre la Centesima strada, “là dove comincia la terra dei mori…” Rispetto alla pasticceria di Budepest in cui il romanzo si apre, tanta strada.
La scelta di sviluppare la storia attraverso quattro monologhi indubbiamente l’arricchisce di significati, di sfumature, di dettagli diversi, che per essere colti pienamente richiedono almeno una seconda lettura.
L’osservazione da quattro punti di vista diversi è molto interessante, ma in questo modo si tende frequentemente a descrivere e spiegare ciò che con altra tecnica narrativa si sarebbe mostrato e raccontato direttamente. Insomma non è romanzo particolarmente adatto a chi ama i libri cosiddetti “scorrevoli”: la struttura dei monologhi, la lunghezza, la ripetitività, il continuo gioco di specchi, lo caratterizzano invece come romanzo piuttosto barocco e tortuoso.
E davvero ci sono preziosismi che si scoprono solamente con un’ottima memoria oppure con una seconda lettura. Ad esempio all’inizio del monologo di Peter e alla fine di quello di Judit (a duecentosessanta pagine di distanza) si trova la medesima osservazione sulla cultura, che al tempo degli antichi greci coinvolgeva gioiosamente tutto il popolo, persino i vasai, espressa con parole soltanto leggermente diverse. L’apparentemente forte Judit non sa che in fondo è stata plasmata un po’ anche dall’apparentemente debole Peter.
“Le Braci” mi aveva stregato immediatamente per la tensione narrativa, per la capacità di incatenare il lettore e costringerlo a stare chinato in avanti, col fiato sospeso e l’orecchio teso, attento a non farsi sfuggire una sillaba di quello splendido soliloquio notturno.
“La donna giusta” ti scava invece lentamente, goccia a goccia, in modo ammaliante e a tratti soporifero. Però probabilmente, anche se è ancora presto per dirlo, è destinato a rimanere più in profondità.

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Chi ha letto le Braci, ed è rimasto impressionato dalla semplice capacità di andare dritto al bersaglio, probabilmente può avere più fiducia e resistere meglio nei momenti in cui questo romanzo si avvita un po' su sè stesso e si ha la momentanea impressione di aver smarrito la strada.
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    09 Aprile, 2014
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I fatti e le ' verità '

Questo bel romanzo del grande scrittore ungherese è suddiviso in quattro monologhi; è però interessante sapere che è stato scritto in tre momenti storici molto diversi: le prime due parti sono state pubblicate nel 1941; il terzo monologo viene aggiunto nel '49; l'opera completa, con la revisione di quest'ultimo e l'aggiunta dell' Epilogo finale, compare nel 1980.
Vediamo che i diversi momenti storici sono rispecchiati e filtrati dalla sensibilità e dal vissuto dell'autore, nei differenti momenti narrativi.
I primi tre lunghi capitoli si rifanno sostanzialmente alla medesima storia, raccontata dal diverso punto di vista dei tre protagonisti. L'Epilogo è affidato ad un quarto personaggio, che compare già precedentemente.
Il fatto centrale consiste nelle vicende di un giovane uomo della ricca borghesia di Budapest, sposato con una donna colta e bellissima, il quale mantiene vivo, benché inizialmente in modo che non trapela, un forte sentimento per la governante della casa natìa.

Il primo monologo è della moglie, ormai separata, del nostro protagonista, ora rasserenata ma segnata da profonde ferite.
A raccontare, nel secondo capitolo, è il marito, che fa entrare prepotentemente in scena Judit, l'ex governante, già comparsa precedentemente, che qui assume un ruolo non secondario, con un approfondimento psicologico notevole: diventata ricca, "voleva sempre qualcos'altro", comprava di tutto ("solo gli affamati si scagliano con la stessa foga su una tavola imbandita"), ma non era mai appagata ("aveva capito che ogni tentativo di riscatto individuale è inutile").
Con il terzo monologo, quello di Judit stessa, si è ormai nel dopoguerra; l'Ungheria è diventata comunista filosovietica.
Lei, fuggita a Roma, ricorda sia la vita privata precedente, sia il culmine della guerra, la devastazione e i caos socio-politico della patria lontana. Qui l'autore (anch'egli scelse la fuga in Occidente) sembra quasi identificarsi nel descrivere orrore e disfatta, tanto le immagini sono vivide e realistiche.
Molto interessante l'approfondimento psicologico del personaggio: "Ero anch'io una bambina malata di nervi (...). Anche noi abbiamo dei segreti, non solo i ricchi"; "Il motivo principale per cui odiavo i ricchi è che riuscivo a portargli via soltanto i soldi. Il resto (...) non me l'hanno voluto dare" : allude alla signorilità, alla cultura.
A proposito di questa, ha però captato (e qui pare attingere dall'autore stesso) che " la cultura è quando una persona...o un popolo...sono pieni di una gioia immensa!(...) in giro ci sono solo esperti, che però non sanno dare quella gioia che è la cultura". Lo scrittore pare aprire ad un sottile umorismo: "Ormai i libri sono così tanti che sembra non esserci quasi spazio per il pensiero".
Infine, l'Epilogo è situato nella New York dello sfrenato consumismo. L'autore, attraverso l'ultimo monologo, sembra infondere al personaggio anche un po' del proprio atteggiamento critico, sia nei riferimenti agli orrori del comunismo ungherese, sia verso l'opulenza soverchiante americana. Con sarcasmo fa dire, alla poco accorta voce narrante, che pure chi non è ricco si sente un signore perché i borghesi vogliono vendergli di tutto, e sostenere che il proletariato abbia vinto in questo modo!

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Gioiese Opinione inserita da Gioiese    20 Marzo, 2014
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Ben oltre l'intreccio amoroso tra quattro persone

Ammetto di essermi avvicinato a questo libro per puro caso... dopo aver letto una citazione su internet, che è questa: "Improvvisamente ho capito che non c'è nessuna persona giusta. Non esiste né in terra né in cielo né da nessun'altra parte, puoi starne certa. Esistono soltanto le persone, e in ognuna c'è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c'è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l'unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce, tutto…".
"La donna giusta" è un romanzo molto vasto ed intenso nei temi che tocca. L'ambientazione è storica e realistica, siamo quasi per tutto il romanzo nell'Ungheria (Budapest) della prima metà del '900, e soltanto alla fine, con l'epilogo, ci si sposta a Roma e New York. La storia di base è il matrimonio tra Marika e Peter che dopo molti anni e la nascita e la morte di un bambino, finisce a causa dell'amore di Peter verso un'altra donna, il suo primo amore, che in cuor suo non aveva mai dimenticato, neanche durante il matrimonio.
Questa è la trama in poche parole, ma la particolarità di questo romanzo è che questa stessa vicenda viene raccontata quattro volte, in quattro versioni diverse, da quattro persone diverse. Ecco che allora ogni fatto, ogni episodio, cambia di prospettiva, di significato, e di valore in base a chi lo racconta e ci si rende conto che i quattro personaggi non hanno vissuto la stessa esperienza, ma ognuno la propria esperienza soggettiva! Il lavoro di Márai è straordinario perché riesce ad interpretare alla grande quattro personaggi così diversi per estrazione sociale, carattere e modo di fare e riesce a raccontare in pratica sempre lo stesso episodio senza annoiare mai, anzi, porta il lettore a voler andare sempre più avanti per cogliere tutti i particolari di questa storia.
E non è tutto. In questo romanzo di Marái l'amore non è assolutamente l'unica cosa di cui ci parla; infatti i temi principali di questo capolavoro sono sicuramente, oltre all'amore, la solitudine dell'uomo; che si ritrova nel marito che nonostante un'intimità piena con la donna con cui è sposato da anni, non riesce ad aprire la propria anima completamente: "In ogni vero uomo c'è una certa ritrosia, come se egli volesse precludere una parte del suo essere, della sua anima, alla donna amata, come se le dicesse: «Ti concedo di arrivare fino a qui, mia cara, e non oltre. Ma qui, nella settima stanza, ci voglio restare da solo». Le donne stupide impazziscono di rabbia. Quelle intelligenti si intristiscono, si lasciano prendere dalla curiosità, ma alla fine se ne fanno una ragione." "Un giorno anche noi diventiamo adulti, e scopriamo che la solitudine, quella vera, scelta consapevolmente, non è una punizione, e nemmeno una forma morbosa e risentita di isolamento, né un vezzo da eccentrici, bensì l'unico stato davvero degno di un essere umano. E a quel punto non è più tanto difficile da sopportare. È come poter vivere per sempre in un grande spazio e respirare aria pura." Un altro tema fondamentale è la differenza tra le diverse classi sociali, il fatto che le persone di ceto più alto dovevano necessariamente sposarsi tra loro, per questo Peter non potè da giovane sposare la serva Judit. Si parla anche di cultura, rappresentata dallo scrittore nichilista secondo il quale la cultura sta andando piano piano a perdersi: "«Perché la cultura è ormai alla fine. […] Morirà, resteranno qua e là solo singoli ingredienti. È possibile che anche in futuro da qualche parte si venderanno olive ripiene al pomodoro. Ma sarà ormai estinto quel genere di persone che avevano coscienza di una cultura. La gente avrà soltanto delle conoscenze, e non è la stessa cosa. La cultura è esperienza, […]. Un'esperienza continua, costante, come la luce del sole. La conoscenza è solo un accessorio»." Ed infine tratta le ultime fasi della seconda guerra mondiale e quello che ha provocato in Ungheria.
Tantissime sono le frasi che ho amato e dico che questo romanzo è un capolavoro. Mi porta a desiderare di lettere altri libri dello stesso autore.

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Pia Sgarbossa Opinione inserita da Pia Sgarbossa    16 Mag, 2013
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LE 4 FACCE DELLA VERITA'...QUALE LA PIU' GIUSTA ?

Marai, Marai...quanto mi hai parlato con questo tuo libro!
Quattro monologhi intensi, profondi; quattro modi diversi di presentarmi la versione sostanzialmente di un fatto : un matrimonio e il suo fallimento.
E io con la pazienza "matura" di chi ha accumulato molteplici esperienze di vita, ti ho ascoltato in silenzio.
Mi sono ritrovata in una pasticceria in Ungheria , dove Marika, la moglie, ha raccontato ad un'amica
( ??? ) il suo amore per Peter, suo marito, di quanto abbia combattuto per cercare di tenerlo a sè, di quanto abbia sofferto quando si è resa conto che tutti i suoi sforzi erano vani e con un'ineguagliabile forza, abbia saputo arrendersi di fronte all'impossibile.
Subito dopo Peter si è raccontato in un caffè ad un amico, parlandogli dell'amore che aveva provato fin da subito per Judit, la giovane governate che era giunta alla sua casa; ha confessato la sua mancanza di coraggio di rompere gli schemi della tradizione per inseguire quel sentimento che , ne era assolutamente convinto, era ricambiato. Un amore che diventerà poi la causa del fallimento del suo matrimonio...dopo anche un risveglio di coscienza, dettato dal ritrovamento di un pezzo di nastro viola trovato nel suo portafoglio... dopo una telefonata ricevuta da Judit.
Eccoci poi in una stanza d'albergo di Roma, dove Judit si racconta al suo nuovo amore, un batterista ungherese...un artista fuggito da Budapest.
Lei , che proveniva dalla miseria più assoluta e sotterranea, aveva iniziato ad infatuarsi di Peter solo dopo avergli stirato le preziose mutande con ricamato lo stemma di famiglia. Odiava quell'ambiente di borghesi fatto di perfezionismo, di ritualità, di silenzi, di mancanza di manifestazioni di affetto puro e sincero...di una vita portata avanti con programmaticità maniacale.
Lei, stranamente non ci parla del pezzo di nastro viola...nè della telefonata : una dimenticanza? Un non voler ammettere ?...e sembra vivere la sua vita come un'eterna lotta, quasi una forma di vendetta...nulla riesce a soddisfarla...tutto si trasforma prima o poi in noia e apatia...anche il suo matrimonio con Peter...
E infine eccoci a New York, dove il batterista che ora di lavoro fa il barista, cerca di tirare le somme ; anche lui ci offre la sua versione dei fatti...ma...quali fatti?...quale la verità?
Mi piacerebbe poter parlare con Marai...e resto con i miei dubbi, con le mie domande , col mio desiderio di sapere...e vorrei anche poter dire la mia opinione.
Invece no!
Farò come il personaggio che fa da sfondo integratore a tutti e quattro i monologhi :lo scrittore Lazar.
Si, farò come lui:"Stava zitto come se stesse tacendo qualcosa. E con quale forza sapeva tacere! La stessa che gli altri impiegano per gridare".
Si, come dice anche un mio caro amico: "Il più bel tacere non fu mai scritto".
Perchè diciamoci la verità: come si può capire quale sia la verità più giusta? Chi dei quattro personaggi ci ha dato con maggior obiettività la sua percezione dei fatti?
Certo io ho parteggiato per l'uno o per l'altro...ma a questo punto capisco che anche io andrei a dare un'opinione del tutto opinabile e influenzata dalla mia esperienza di vita...perciò non mi sento di assolvere nessuno...di non condannare nessuno...e terrò in serbo nel mio cuore le mie conclusioni.
P.S.: interessanti gli argomenti sviscerati in questo libro: la lotta di classe, la borghesia. Il proletariato,la devastazione della seconda guerra mondiale , il consumismo del dopoguerra in America e in particolare le dissertazioni sui concetti di letteratura e cultura...


P.S.: su una cosa potrei rispondere a Marai. Oggi nella scuola viene posta un'attenzione particolare al rapporto tra maschio e femmina con un lavoro di educazione affettiva e sessuale; in certe scuole a partire dalle prime classi; in quasi tutte in classi quinta.Quindi la situazione è migliorata sicuramente.

Buona lettura e soprattutto buon ascolto!
Pia

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A chi ama ascoltare; a chi è interessato a conoscere l'animo umano.
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Maso Opinione inserita da Maso    15 Aprile, 2013
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Un quartetto di voci

Màrai, che grande scrittore. Veramente molto notevole, non c’è che dire. In particolare, “La donna giusta” mi è stato consigliato da una persona che mi ha detto: “…non conosci Màrai se non hai letto questo…”. Ed effettivamente è così. Avevo provato un subitaneo colpo di fulmine dopo aver letto “Le braci”, continuato con vivissima soddisfazione leggendo “La sorella”. Ma, amandolo fin da subito, non mi ero ancora reso conto di cosa sapesse fare esattamente, di quanto sapesse essere incisivo. E’ proprio con questo romanzo che mi si sono aperti gli occhi sulla fulgida aura di verità e di conoscenza dell’animo umano che mette in mostra questo grande autore. Se nei libri precedentemente letti, alquanto fugaci rispetto a questo, avevo trovato concetti illuminanti, suddivisi in concetti scontati ma espressi meravigliosamente e concetti profondi che mi hanno fatto riflettere, qua ho trovato una miniera di considerazioni celate tra le voci di quattro differenti personaggi. Quattro voci che parlano solitarie, in un fluire sorprendentemente becketiano, e che rimembrano la loro storia per insegnarci qualcosa tramite la decadenza di uno status secolare. Allegoricamente, una sapienza, quella che ci viene donata, che come fenice nasce dalle ceneri del suo decadimento assieme a quello della borghesia. Sono infatti gli ultimi tizzoni di quest’ultima, tiepidi ancora per poco, che vengono raccontati impietosamente dalle voci di queste quattro figure, che trovano una collocazione precisa in una storia che non viene raccontata. Almeno non in modo ufficiale. Viene raccontata e si delinea nella nostra mente grazie alle quattro versioni separate, differenti, ufficiose, personali, monologiche, di Marika, la moglie, Peter, il marito, Judit, l’amante, e infine, nell’epilogo, dell’amante dell’amante. Tutti loro interpretano un ruolo nella vicenda, tutti vengono descritti da tutti, in un modo o nell’altro, e grazie a questa metodologia descrittiva acquisiscono incredibilmente maggiore veridicità, verosimiglianza e rilevanza psicologica di fronte ai nostri occhi. Sentire quattro campane invece che una è un metodo straordinariamente più efficace per far risaltare l’oggetto della discussione, la cui esistenza ci appare quindi più imparziale perché descritta da più parti differenti. Leggendo i quattro monologhi si acquisisce una conoscenza graduale e man mano più paritaria dell’accaduto (immaginato), in cui le lacune generali della prima voce vengono riempite dalle altre, in cui quello che sembra giusto, granitico e indiscutibile nel primo caso, viene confutato dalle opinioni discordanti e altrettanto meritevoli delle seguenti. Una sorta di storia che nega se stessa esistendo solo nelle personalissime versioni di chi l’ha vissuta. Un modo affascinante di narrare, che ha, inoltre, il merito di non essere solo un esercizio di stile ben riuscito, ma un concentrato critico e lucidissimo sulla morte di una classe sociale, assieme a usanze, convenzioni, ipocrisie, ingiustizie e pregiudizi. L’agonia di quella borghesia che non riesce più a reggersi in piedi, nonostante gli estenuanti sforzi degli ultimi eletti che tentano in tutti i modi di continuare a lottare, sacrificando coscientemente la spontaneità della vita per ingabbiarsi in sfarzi e grandure anacronistiche, per difendere ciò che rimane di una gloriosa appartenenza. Agonia che viene vissuta in modo diverso dai quattro personaggi, trovando più o meno rilevanza all’interno delle differenti narrazioni, e fungendo da “basso continuo” per una parallela e più evidente storia di sentimenti. Anzi, storia di non sentimenti. Quelli che mancano, quelli che Peter, ricco rampollo di industriali borghesi, non riesce ad avere per una moglie perfetta e amorevole. Quelli, repressi dalla ragione, che prova per la persona che ha nascosto nel suo portafogli un piccolo pezzetto di nastro viola. Quei sentimenti che la moglie Marika invece prova, pronta a sacrificare tutto per essere ricambiata. Quei sentimenti che sembra provare Judit prima di rivelare la vera se stessa. Due donne che gravitano attorno al loro cento di gravità emotivo, che è anche centro narrativo per raccontarci il ricco corollario di sentimenti che possiede l’uomo. Nell’epilogo poi, la voce dello spettatore di questa vicenda, esterno e portatore di esperienze crudeli e tangibili che donano un contesto reale alla storia, un contesto bellico come quello dei bombardamenti su Budapest e sull’Ungheria (dove si svolgono le vicende) avvenuti durante il secondo conflitto mondiale. La trama è intrecciata, godibile, intelligentemente progettata e utile a raggiungere il proprio fine all’interno di questo romanzo complesso che, come un prisma scompone la luce per mostrare lo spettro cromatico, scompone la storia per dare voce a personalità variegate, con le proprie ragioni, il proprio agire, le proprie ambizioni e il proprio vissuto, nella tensione ultima per il raggiungimento di uno scopo, che sia quello della libertà dalle ristrettezze morali, di un sentimento autentico che doni gioia alla vita o della scalata sociale verso un’identità, ormai solo una nostalgia, già morta e lasciata indietro dal progresso e dal cammino della storia.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    05 Febbraio, 2013
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Incomunicabilità dei sentimenti

Questo libro racconta la stessa storia (la fine di un matrimonio) da quattro diversi punti di vista ( di moglie, marito, amante e amante dell'amante). La cosa interessante è come cambiando l'angolazione la storia si trasformi e il significato di ogni singolo episodio risulti completamente stravolto. Ognuno dei personaggi vive una vita parallela a quella della persona che ama e di quello che passa nell'animo dell'altro riesce a farsi solo un'idea vaga e distorta. Sembra anzi che chi più ama meno sa, chi più ama più fraintende: un esempio significativo può essere il nastro viola che per ognuno dei protagonisti ha un diverso valore e significato simbolico). Nessuno riesce mai a penetrare nella mente altrui e se ci riesce è solo perché l'estraneità alle passioni glielo permette. L'amore sembra allontanare gli uomini, come una calamita che funziona al contrario. E nessuno ama mai allo stesso modo. Si potrebbe dire che nella coppia se uno ama troppo, il suo amore inibisce quello dell'altro in un meccanismo a feedback negativo. Perciò la donna giusta sicuramente esiste, ma è impossibile pretendere di essere l'uomo giusto per quella donna. Uno dei due dovrà sacrificarsi nella eventuale vita insieme.
La qualità narrativa del libro è sorprendente. L'autore riesce a calarsi in ognuno dei protagonisti, a cambiare voce, tono, modo di sentire: riesce a cambiare pelle senza alcuna difficoltà in un modo che io non ho mai visto in nessun altro scrittore.
Il romanzo può avere anche una diversa chiave di lettura, meno intimista. Il rapporto con l'amante può anche essere visto come rapporto d'amore/odio tra classi sociali, e il libro può essere anche considerato un pretesto o l'occasione per parlare della guerra e delle vicende ungheresi.

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katia 73 Opinione inserita da katia 73    09 Gennaio, 2012
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La donna giusta

E’ stata dura ma ci sono riuscita, sono arrivata alla fine di questo libro, ed è una grande soddisfazione.

Credo che Marai non sia per tutti, e non lo dico da snob , probabilmente non è nemmeno per me, sicuramente è per un lettore esigente e capace di concentrarsi molto nella lettura, quindi per me la soddisfazione di averlo finito è stata doppia, se lo avessi affrontato anni fa non credo che sarei arrivata a leggere l’ultima pagina.

Il fatto è lo stesso (un uomo e una donna che si sposano, poi si lasciano, lui sposa un’altra donna e perde anche lei) ma le emozioni che questi eventi provocano nei tre personaggi sono molto differenti, ed è forse proprio questo il punto di forza del libro , strano , a volte ti viene da pensare “ma riferisce alla stessa storia ?”, ognuno la vive e la interpreta in maniera differente.

Il primo monologo, quello della prima moglie abbandonata è veramente un capolavoro, le pagine sono così “cariche” di frasi bellissime che non ti staccheresti più dal libro, questa donna ,che racconta ad un’amica la storia del suo matrimonio naufragato, ti sembra di vederla e di toccare le sue emozioni, è impressionante come si entri dentro il libro, soffri un po’ con lei, per questo grande amore mancato, ma in cui non ha smesso di credere fino alla fine, ed è fortissima la sua decisione finale di “lasciarlo andare” e di ammettere che quell’uomo non le era mai appartenuto

Anche il secondo monologo è bellissimo, lui racconta ad un uomo in un bar la sua vita, il matrimonio con la prima moglie, che però non ha mai veramente vissuto, non è mai entrato appieno dentro quella storia, probabilmente per lui era solo transitoria , in attesa dell’altra, di quello che credeva il suo grande amore e unico desiderio, e poi perché Pèter era un uomo solo, anche se viveva in mezzo alla gente, nessuno riusciva veramente a entrare nella sua vita.

Il terzo monologo, quello di Judit l’ho trovato molto meno appassionante, anzi, se devo dirla tutta a volte noioso. Judit è l’altra, quella che Pèter ha aspettato per anni , è stata sua per poco tempo perché spesso la rabbia verso gli altri e verso se stessi avvelena quello che di buono ci potrebbe essere, i rancori mai sepolti non sono una buona compagnia per una coppia.

Decisamente interessante anche le descrizioni della vita di quell’epoca, la lotta sociale, la netta distinzione tra l’alta borghesia e il ceto medio, che non scompare nemmeno di fronte allo scoppiare della guerra.

Sicuramente un libro da consigliare, non di facilissima lettura certo , ma un vero toccasana per l’anima e la mente.

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floria di tosca Opinione inserita da floria di tosca    30 Dicembre, 2011
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La donna, direi...

Mi risulta difficile scrivere qualcosa per recensire questo testo.
E' un libro sul valore del libro e delle parole.
Posso dire che leggerlo, nei suoi tre personaggi, nei monologhi e nell'effetto sorpesa che sempre Marai nasconde, sin dall'inizio, ha messo molto in crisi il senso del mio accostamento alla lettura.
Crisi positiva, s'intende, ma pur sempre crisi.
E allora mi nutro di parole e pensieri e citando il grande Petrarca - che ancor prima di Marai aveva rapito il gusto e la ragione della mia passione per carta e scarabocchi - mi sento di dire che :"I libri ...li interrogo e mi rispondono. E parlano e cantano per me. Alcuni mi portano il riso sulle labbra o la consolazione nel cuore. Altri mi insegnano a conoscere me stesso e mi ricordano che i giorni corrono veloci e che la vita fugge via. Chiedono solo un unico premio: avere un libero accesso in casa mia, vivere con me quando tanto pochi sono i veri amici."
Marai è solo un gran copione ?! :)

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Argento Opinione inserita da Argento    02 Settembre, 2011
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Esiste la donna giusta?

Una storia, quattro voci narranti, lunghi monologhi per raccontarla da diversi punti di vista. Marai ci narra la vicenda e tu sei lì a leggere, ma ti senti come se fossi seduto in un elegante caffè di Budapest, o anni dopo, in un altro caffè di Budapest, o a Roma, in un albergo e dalla finestra si vede sorgere il sole, o molti anni dopo a New York, per sentire l’epilogo della storia. Stai lì incantato e incatenato pagina dopo pagina, ad ascoltare la donna che racconta del suo amore, di suo marito, che ha perso perché un giorno ha trovato per caso nel portafogli un pezzo di nastro viola. Così intuisce che nella sua vita c’è un’altra donna. Ma nonostante tutto continuerà ad amarlo, perché crede che “tutto nella vita passi, tranne che l’amore”. Nel secondo monologo è il marito della donna che parla e narra del suo matrimonio finito, perché amava un’altra donna che per lui era diventata “come un veleno mortale”. E questa donna, che racconta la sua versione nel terzo monologo, ci fa capire come l’amore possa trasformarsi in ferocia, avidità, desiderio di vendetta, contro tutti o forse solo contro noi stessi. Il quarto monologo è forse il meno appassionato, ma non per questo il meno bello. A raccontare è l’amante della seconda donna, un esule ungherese trasferitosi a New York in cerca di fortuna. Lui conosce la versione della seconda donna, la freddezza con cui l’ha raccontata ma anche la tenerezza con cui lo ha amato. E assiste, per caso, all’epilogo della storia.
Marai parla dei sentimenti, del matrimonio, dell’amicizia,(bellissimo il personaggio di Lazar, l’amico scrittore, anch’esso testimone silenzioso e bizzarro di tutta questa vicenda), come se essi nonostante la necessità, quasi la bramosia di provarli, sfuggissero e lasciassero solo un guscio vuoto nell’anima. E prendendo a pretesto il lungo evolversi della storia ci racconta anche vicende politiche e sociali, gli orrori della guerra,la bellezza della sua città, con leggerezza e realismo.
“Welcome, gentlemen. You are served, Sir.”

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