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Diagnosi e destino
 
Diagnosi e destino 2018-11-26 12:53:22 DanySanny
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    26 Novembre, 2018
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Verba non volant

È impossibile parlare senza riferirsi a qualcosa che è oltre le nostre parole e che di volta in volta può nascondersi nelle pieghe della nostra biografia o nel più ampio respiro sociale dei termini. La lingua è sì mimetica, ma continuamente è anche “l’intenzione” di una rete complicatissima di implicazioni. Contemporaneamente, le moderne neuroscienze hanno oramai appurato che la psicoterapia è efficace nella misura in cui le parole da sole, in un certo modo, modificano le connessioni neurali del soggetto: verba non volant. In virtù di queste premesse (che permettono di oltrepassare il classico sterile divario tra psicologia e psichiatria perché la parola a tutti gli effetti è terapia), i termini che scegliamo di usare portano con sé un potere luminoso, taumaturgico, ma anche scuro, vischioso, negativo. In questo senso la diagnosi, esito del “tormento clinico”, nomina con una parola quello che prima era solo un malessere indefinito, incerto. E questa malattia che si fa parola ha un peso enorme sulla vita di chi la riceve: dal sospiro di sollievo di una banale influenza al dolore di una malattia cronica, debilitante, magari causata da qualcosa che ancora non consociamo, con un nome esotico, inquietante, travolgente. Le malattie spaventano perché spesso hanno dei nomi che fanno paura.

Senza andare troppo lontano, il cancro. Già Umberto Veronesi consigliava di non usare la parola cancro in ambito diagnostico, perché dire cancro significa riportare alla luce il peso sociale della patologia, il ricordo di lutti che tutti, purtroppo, hanno subito, la sua inarrestabile avanzata, la sua morsa stretta. La medicina purifica le parole, ma la società vive con i fantasmi e gli incubi che le abitano. Susan Sontag, autrice di un riflessione imprescindibile sulla malattia nella società, sostiene che le malattie debbano essere esautorate di tutte le implicazioni metaforiche che esse portano con sé. Eppure il malato non è avulso dalla società in cui vive e con questo peso metaforico deve necessariamente convivere. E allora quale parola? Tumore già è meno inquietante, ma più corretto ancora sarebbe neoplasia, più tecnico, più recente, meno simbolico. O almeno così si consiglia. Se la parola è terapia, allora dire al paziente “ha una neoplasia” o dire “ha un cancro” è certamente diverso. Ma non ancora sufficiente. La letteratura ci ricorda che chi non ha nome, chi non ha parola, automaticamente diventa spaventoso, perché la parola è anche uno strumento di razionalizzazione del reale. D’altronde nel caos primordiale è la parola di Dio che dà forma alla cose. L’Innominato di Manzoni, It di King e Colui-che-non-deve-essere-nominato della Rowling sono tutti esempi di male che permea lo spazio lasciato bianco dalle parole. E allora per vincere questo spazio scuro, occorre conoscere il nemico, parlarlo fino a non percepirlo più come soverchiante. Occorrerebbe capire che il cancro non è una questione metafisica, oscura, ma una massa di cellule che cresce in modo incontrollato e che lo fa per delle precise alterazioni genetiche che la svincolano dall’equilibrio di un organismo multicellulare. Riportiamo le parole alla loro concretezza, alla loro fisicità, smitizziamo la paura, che è un cattivo alleato nella cura. E allora certo, usiamo la parola neoplasia quando facciamo una diagnosi, ma educhiamo anche a capire cosa è una malattia. Perché non c’è coraggio senza conoscenza.

Vittorio Lingiardi, psichiatra, psicoterapeuta, docente universitario, confeziona un libro agile, ma molto ricco di spunti, che apre una riflessione essenziale sulla diagnosi, vista come il frutto di un'integrazione difficile, di un processo che è sì scientifico, ma anche indicibilmente umano. E così, tra riferimenti puntuali e stimolanti, tra le pagine di Sontag o quelle di Woolf, tra le riflessioni di Wittgenstein e gli strumenti di difesa dei pazienti, proiezioni, sublimazioni, negazioni, Lingiardi ci consegna un vademecum che ci ricorda il peso di una professione in tensione tra le istanze del paziente e le necessità del medico. Un libro che a tratti pecca di una certo gusto per la poeticità un po' "baricchiana" e forse scritto di fretta, ma che, specie nelle prime due sezioni, ci consegna gli strumenti per dare la giusta consistenza alla diagnosi. Perché a volte il furore diagnostico ce lo fa dimenticare, ma l'uomo non è la sua malattia.

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siti
26 Novembre, 2018
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Penso invece che l'uomo sia la sua malattia, nel momento in cui essa si manifesta è parte di te e tanto grande è il male quanto esso ti priva della tua identità precedente, quella di uomo sano.Purtroppo il dolore, soprattutto, ha una capacità di annientamento che neanche la più efficace delle comunicazioni gli può competere. Scusa il pessimismo, poi certo ammiro i medici che usano la parola per comunicare bene, ma quante volte dietro una diagnosi si cela anche una falsa empatia o peggio una speranza di cura e di guarigione.
In risposta ad un precedente commento
DanySanny
27 Novembre, 2018
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L’argomento è difficile e credo molto dipenda dalla prospettiva, quella del medico o quella del paziente. Sopra scrivo dalla prospettiva di chi le diagnosi le deve fare, dalla prospettiva di chi deve ricordarsi che non sta curando solo la malattia, ma anche l’uomo che porta quella malattia. Troppo spesso i pazienti finiscono per essere visti solo come una diagnosi, un esercizio clinico. Per il resto sono d’accordo, per primo penso che anzi ci siano dolori per cui ogni parola è inadeguata e che anzi meritano solo silenzio. L’uomo è anche la sua malattia, ma non va appiattito a quella.
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