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Le parole possono essere una questione di vita o di morte. Soprattutto quando si parla della nostra salute: nei testi scientifici e nelle cartelle cliniche, nelle confezioni dei medicinali e nei mass media o nelle riviste specializzate, nell’incontro tra medico e paziente e nelle semplificazioni del linguaggio quotidiano. Quella dei medici – sempre sospesa tra comunicazione verbale e scrittura – è una lingua che dovrebbe essere massimamente analitica, precisa, rigorosa, ma non nasconde mai le sue componenti umanistico-letterarie. Una diagnosi indecifrabile, infarcita di sigle arcane, può servire a tenere a distanza i profani, ma può anche nascondere una realtà drammatica dietro il velo dell’eufemismo. Non è dunque un caso se in nessun’altra scienza le parole hanno avuto tanta importanza quanto nella medicina: basta guardare il numero dei lemmi medici ospitati in un vocabolario italiano. Luca Serianni esplora il linguaggio dei medici e della medicina sotto diverse angolazioni, tra presente e passato: segue i percorsi che portano alla nascita dei termini tecnici, ci aiuta a capire la tipologia dei tecnicismi e il modo in cui arrivano al grande pubblico, illustra lo iato tra il nostro modo di vedere le cose e quello dei medici antichi, evidenzia la differenza tra i vecchi e nuovi ciarlatani e la corretta divulgazione, soppesa il rapporto tra le lingue nazionali e l’inglese, che è ormai diventato la koinè della comunità scientifica. Un treno di sintomi è una lettura insieme istruttiva e ricca di sorprese, che affronta in uno dei suoi nodi più sensibili l’intreccio tra il nostro corpo e le parole che usiamo. Essere consapevoli della lingua con cui descriviamo e studiamo dolori, malesseri, patologie, diagnosi e cure può senz’altro servire a migliorare il rapporto tra medico e paziente.



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Un treno di sintomi 2008-06-04 10:53:45 galloway
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galloway Opinione inserita da galloway    04 Giugno, 2008
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Quali sintomi onomaturgici avvertite?

Non avrei mai pensato che i sintomi delle malattie viaggiano come i treni, e con questi sintomi viaggiano le parole che ad essi si riferiscono. In effetti, a pensarci bene, il linguaggio, tutti i linguaggi dell’esistenza umana, seguono percorsi che portano alla nascita di nuovi termini che diventano tecnici e specifici nel momento in cui descrivono situazioni nuove e diverse. Nascono a tale scopo rapporti e confronti con il nostro modo di vedere oggi e quello degli antichi, mettendo in evidenza differenze tra vecchi e nuovi modi di parlare, sia all’interno della stessa lingua che in rapporto alle altre lingue. E’ il caso della lingua dei medici, i più indicati a leggere sintomi ed individuare terapie nella rincorsa dei malanni che affliggono noi pazienti.

Il nuovo libro del prof. Luca Serianni, Ordinario di Storia della lingua italiana presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esplora il linguaggio dei medici e della medicina sotto diverse angolazioni, tra presente e passato, segue i percorsi che portano alla nascita dei termini tecnici, aiuta il lettore a comprendere la tipologia dei tecnicismi ed il rapporto che intercorre tra il nostro modo di vedere le cose e quello dei medici antichi, evidenzia la differenza tra i vecchi e i nuovi ciarlatani e la corretta divulgazione, soppesa, infine, la relazione tra lingue nazionali ed inglese, ormai diventato idioma ufficiale della comunità scientifica.

Quella dei medici – sempre sospesa tra comunicazione verbale e scrittura – è una lingua che dovrebbe essere massimamente analitica, precisa, rigorosa, ma non nasconde mai le sue componenti umanistico-letterarie. Una diagnosi indecifrabile, infarcita di sigle arcane, può servire a tenere a distanza i profani, ma può anche nascondere una realtà drammatica dietro il velo dell’eufemismo. Non è dunque un caso se in nessun’altra scienza le parole hanno avuto tanta importanza quanto nella medicina: basta guardare il numero dei lemmi medici ospitati in un vocabolario italiano.

“Un treno di sintomi” è una lettura insieme istruttiva e ricca di sorprese, che affronta l’intreccio tra il nostro corpo e le parole che usiamo, con la certezza che essere consapevoli della lingua con cui descriviamo e studiamo dolori, malesseri, patologie, diagnosi e cure possa senz’altro servire a migliorare l’intesa tra medico e paziente.
Detto ciò è vero che il linguaggio dei medici rigurgita tecnicismi a ogni pié sospinto. E se a fare la parte del leone ci si potrebbe attendere che fossero i tecnicismi in senso stretto, in altre parole i "termini medici", si scopre che in realtà il vero grande peccato della lingua dei medici sono i tecnicismi collaterali, "che svolgono una funzione simile a quella che, in anatomia, il tessuto connettivo svolge rispetto ai singoli organi: un'impalcatura di termini a debole tasso di tecnicità per collegare le varie parti del discorso in un insieme di registro omogeneo".
Ed è qui che si entra nella galleria degli orrori che farebbero accapponare la pelle al buon Graziadio Isaia Ascoli, tanto per restare in epoca manzoniana e per citare un linguista che si occupò della cosa. Qualche esempio? Il paziente sente un dolore, ma per il medico lo accusa o lamenta; il paziente va di corpo ma per il medico l'alvo è regolare. E qui inizia una serie di osservazioni di cui fare tesoro, tanto più vere quanto più difficili da estirpare perché, come un virus, hanno ormai infettato gran parte della popolazione in camice bianco e qualunque tipo di vaccino sembra impari alla lotta.
Si comincia con gli aggettivi di relazione, per cui si parla di manifestazioni anginose invece che di angina, di patologia abortiva invece che di aborto, per proseguire con la microsintassi per la quale si ha l'elisione dell'articolo, per cui la lingua diventa anonima e più simile a una lista della spesa: forse i medici non si accorgono, ma sopprimono quasi sempre l'articolo indeterminativo (un esempio? "basse concentrazioni di ozono possono determinare ostruzione delle vie aeree" in cui l'articolo un' è considerato pleonastico).

E non va meglio per le preposizioni e le locuzioni preposizionali, il cui uso o è scorretto (per esempio a con valore modale al posto di di o da) oppure inutile (per esempio a carico di, a livello di, del tutto pleonastici, questi sì). Ma a giocare il ruolo di ariete sono i tecnicismi collaterali lessicali, quasi sconosciuti nei testi medici fino al Settecento e via via più presenti, fino all'epidemia odierna. Qualche esempio? Nel libro i più frequenti sono snocciolati nell'arco di una quindicina di pagine in cui il lettore potrà trovare da pregresso a paucisintomatico, da impegno a remissione, da sostenuto a conclamato.

Tanta varietà (o tanto imbastardimento della lingua?) nasce anche dalla onomaturgia dei medici, coniatori a getto continuo di termini derivati per lo più da radici di altre lingue. Sono sei quelle contemplate da Serianni, che vengono a innestarsi sull'albero linguistico medico in periodi successivi e con alterne fortune: grecismi, latinismi, arabismi, francesismi, germanismi e inglesismi.
A differenza di quanto si potrebbe pensare la componente greca come radice di termini medici è moderna, risalendo per lo più all'Ottocento e Novecento, mentre nei testi medioevali e fino al Settecento a giocare il ruolo più rilevante è il latino, peraltro lingua ufficiale per i libri di testo del tempo rivolti ai medici in tutta Europa.

L'influenza degli arabi, invece, presente nel Medioevo tende ad annacquarsi già nel Seicento, tanto che oggi le parole arabe usate in medicina si possono contare sulla punta delle dita di una mano. Ruolo ben diverso è quello svolto dal francese che, dominante nell'Ottocento, segna tuttora la lingua tecnica medica per lo più attraverso i cosiddetti xeno-latinismi e xeno-grecismi, ossia parole francesi derivate da radice latina o greca e importate in Italia (tanto per fare un esempio: cardiologia o lipidi).

Discorso a parte meritano il tedesco - la cui influenza è stata fugace - ma soprattutto l'inglese, divenuto ormai la lingua ufficiale della scienza e anche di quella medica, il cui influsso è talmente vivo oggi da considerare parte della nostra lingua parole d'oltremanica usate tale e quali nella lingua comune. Senza considerare che forse l'influsso più negativo non viene tanto dai lemmi ma dalla costruzione delle frasi, dall'ordine delle parole, per cui si tende a preporre il soggetto al predicato quando non necessario: per esempio "i seguenti effetti indesiderati sono stati descritti durante l'uso..." al posto di "sono stati descritti i seguenti effetti...".

Imbarbarimento, si diceva? I dubbi vengono e riguardano anche la fonetica e gli accenti. Se si facesse un questionario i medici probabilmente si spaccherebbero in questo caso in due partiti, l'un contro l'altro armato: "si scrive eziologia o etiologia? si pronuncia èdema o edèma? si dice lo asma o la asma?". Nelle pagine si trova la risposta a questi dubbi che hanno accompagnato il cammino di ogni studente di medicina e che l'hanno portato a difendere a spada tratta l'accentazione, il genere o la grafia indicatigli dal professore che più si ricorda tra quelli avuti.

E' questa la parte più curiosa e attraente del volume, che appare invece carente sotto l'aspetto dell'analisi del linguaggio medico usato nella divulgazione sia verso il grande pubblico sia verso i professionisti della salute. Si rimane infatti a una patina superficiale, a uno studio non approfondito rispetto al resto del libro, oltre a trovarsi di fronte ad affermazioni semplicistiche che è difficile condividere, specie quando si sostiene con candore disarmante che ci si concentrerà solo sulla pubblicità medica di inizio Novecento e non sull'attuale perché questa "è regolata da una legislazione molto severa, al punto che non si può parlare di vera e propria propaganda commerciale: il pubblico ne è destinatario (con molte restrizioni) solo per i prodotti vendibili senza prescrizione medica e, anche quando è rivolta allo specialista, la pubblicità di un farmaco è filtrata dalla rete capillare degli informatori scientifici che, per l'appunto, sono professionisti che svolgono la funzione di aggiornare il medico, sia pure nell'interesse di una casa farmaceutica". A parte il colpo di coda finale, si trascura tutto il potere delle aziende farmaceutiche che arrivano al grande pubblico attraverso operazioni di comunicazione ben più subdole e quindi difficilmente contrastabili della pubblicità diretta.

Merita invece un cenno la conclusione del lavoro di Serianni, in cui il medico, sotto il profilo della lingua, viene avvicinato più a un giurista che ai suoi colleghi scienziati delle altre discipline: come il giurista è infatti attento a calibrare il significato dei termini che usa, ricorre a vocaboli che poi ricadono nella lingua comune e usa molti tecnicismi. E, si potrebbe aggiungere, ama egualmente stupire l'uditore per le parole che usa. D'altra parte non si può non essere affascinati ricordando che il volgare formicolio può essere etichettato come "mirmecismo": ma nessuno più lo sa. L'autore di questa recensione una volta scrisse questo termine come motivo di richiesta per una visita neurologica di una paziente. La visita è stata fatta ma il collega neurologo a mano ha appuntato una nota sul foglietto tornato indietro con la paziente: "Che cos'è questo mirmecismo? Ma soprattutto, chi è che usa questi termini?".

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