Narrativa straniera Fantascienza Ma gli androidi sognano pecore elettriche?
 

Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Ma gli androidi sognano pecore elettriche?

Ma gli androidi sognano pecore elettriche?

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Come sarebbe un mondo privo di vita? Un mondo dove gli unici esseri organici oltre ai pochi umani sono un bene di lusso? Un mondo dove la differenza fra replicanti e umani è così sfumata da diventare impercettibile? Questo è il mondo di "Ma gli androidi sognano pecore elettriche?" di Philip Dick, romanzo cyberpunk ispiratore del celebre "Blade runner" di Ridley Scott.



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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? 2021-02-21 11:29:26 Teo_Corti
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Teo_Corti Opinione inserita da Teo_Corti    21 Febbraio, 2021
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La Palta scaccia la Nonpalta

"Nessuno può battere la palta, tranne che per un po' di tempo e forse in un posto solo, come nel mio appartamento per esempio, dove ho creato una specie di equilibrio tra la pressione della palta e della nonpalta, finché dura. Ma poi morirò o me ne andrò, e allora la palta riprenderà il sopravvento. È un principio universale valido in tutto l'universo; l'intero universo è diretto verso uno stato finale di paltizzazione totale e assoluta. Tranne naturalmente che per l'ascesa di Wilbur Mercer."

Nel gennaio di un futuristico 1992 la Terra è ridotta a un luogo decadente e inospitale, a causa dell'Ultima Guerra Mondiale, di cui ormai la gente ha perso la memoria delle cause e degli esiti. L'unico ricordo, sempre vivo, è la polvere radioattiva che ha causato la moria di quasi tutte le specie animali, a partire dai volatili, e continua a danneggiare tutti gli organismi viventi. Per questa ragione la maggior parte delle persone sono emigrate nelle colonie su Marte, mentre la Terra, che sembra ancora divisa in un blocco americano e in uno sovietico (si sente che il libro è degli anni Sessanta), è abitata da poche migliaia di testardi che, pur non avendo nessuna ragione per restare, non se ne vogliono nemmeno andare. Su entrambi i modi, gli esseri umani sono affiancati da androidi in tutto identici a loro (l'unica differenza fisiologica sembra risiedere nel midollo spinale) il cui scopo è quello di assolvere ai compiti degli umani stessi. Inoltre, ognuno è moralmente obbligato a prendersi cura di un animale. Vista la continua diminuzione di animali vivi e il conseguente innalzamento del loro prezzo, il possederne uno è diventato uno status symbol e la maggior parte delle persone deve accontentarsi di un surrogato elettrico.

I protagonisti sono due. Rick Deckard è un cacciatore di taglie del dipartimento di polizia di San Francisco, il cui compito consiste nello smascherare e ritirare (uccidere) gli androidi sfuggiti al controllo che si spacciano per esseri umani. Il principale strumento del suo lavoro è il test Voigt-Kampff, che consiste nel misurare la reazione istintiva del soggetto a domande pensate per toccare la parte più viscerale della coscienza. Dai movimenti dei bulbi oculari e dei muscoli involontari il test permette di identificare il soggetto come umano o androide. Rick è caratterizzato in maniera piuttosto frettolosa, a pennellate veloci: è sposato e svolge il suo lavoro per guadagnarsi da vivere, senza porsi troppe domande. Molto più profonda è l'analisi del secondo protagonista, John R. Isidore, autista del furgone di una clinica per animali elettrici, che si occupa del prelievo degli animali malati (guasti) per portarli in officina. È uno dei tanti esseri umani classificati come "speciali" per non aver passato l'esame per il livello minimo consentito delle facoltà mentali e chiamati ironicamente "cervelli di gallina". Questa etichetta gli preclude diverse occasioni di integrazione sociale sebbene sia un animo istintivamente sincero e altruista. La sua semplicità genuina tuttavia gli nasconde la crudezza della realtà in cui vive e lavora, facendo sì che gli altri lo maltrattino o sfruttino. È una sorta di antieroe sveviano che legge con occhi inesperti il rapporto con le altre persone e manifesta apertamente le proprie speranze e i propri timori senza calcolare l'impressione che in questo modo trasmette. Forse è per questo che è decisamente più semplice empatizzare con lui piuttosto che con Deckard.

La vicenda narrata è molto lineare: nel corso di una sola giornata, il 3 gennaio, Deckard è chiamato a ritirare 6 androidi del nuovo modello Nexus-6, scappati al controllo e confusi tra gli umani. Sia lui sia Isidore avranno modo di confrontarsi con questi androidi e cercare di capire le motivazioni della loro fuga, le ragioni dietro alle loro azioni e la volontà di essere trattati come esseri umani. Le scene di azione si contano veramente sulle dita di una mano e sono sempre descritte in modo piuttosto sbrigativo, ma questo non infastidisce, dal momento che non costituiscono il fulcro del racconto.

La forza del romanzo sta infatti nell'analisi psicologica degli androidi. Come tutti le grandi storie di fantascienza, non parla di futuro ma di presente, non parla di robot ma di uomini. Quando il Voigt-Kampff verrà messo in discussione, Deckard sarà forzato a chiedersi dove sta la linea di separazione tra essere vivente e androide, che poi significa chiedersi che cosa ci renda umani. Se anche loro sono in grado di avere aspirazioni, apprezzare la cultura e persino amare, c'è davvero una differenza rispetto a noi? Ma allora perché Rick proprio non riesce a mandar giù l'idea di avere una pecora elettrica? E riuscirà Isidore a trovare negli androidi l'amicizia e il conforto che gli umani gli precludono?

Parallelamente al filone psicologico e forse sovrapposto a questo si svolge una trama quasi religiosa. Gli esseri umani posso usare delle scatole empatiche per vivere un'esperienza extracorporea, in cui contemplano l'ascesa di un vecchio, Wilbur Mercer, che scala una montagna per sfuggire a una minaccia vaga e oppressiva. La figura di Mercer, che finita l'ascesa cade nella fossa della morte per poi riprendere a salire verso la cima, sembra essere allegoria del Cristo che muore e risorge, ma senza prospettiva di salvezza: una volta raggiunta la cima c'è la fossa e così via. Contrapposto a Mercer è il comico e presentatore televisivo Buster Friendly, incarnazione della mondanità e frivolezza, anch'egli simile a una creatura eterna visto che il suo programma sembra andare sempre in onda e lui non stancarsi mai di fare battute sempre nuove e sempre argute. E come Mercer sembra avere anch'egli un annuncio messianico da condividere, che aleggia sospeso sugli eventi per tutta la narrazione. Buster costituisce la figura di riferimento degli androidi, quasi fosse la loro divinità, visto che essi non possono fare esperienza della fusione con Mercer perché incapaci di utilizzare le scatole empatiche. Proprio questo fatto sembra suggerire che la risposta alla domanda esistenziale sulla differenza tra essere vivente e androide stia nella capacità di provare empatia, di saper condividere con i propri simili gioie e dolori. Eppure il finale del libro sembra demolire anche quest'unica certezza.

Ma gli Androidi Sognano Pecore Elettriche? è in conclusione un romanzo cupo, impegnativo, quasi metafisico, anche se la scorrevolezza della prosa, lineare e priva di dettagli inutili, permette una lettura piuttosto rapida. Impegnativi sono i temi, gli interrogativi aperti che non possono chiudersi, il mondo frammentato che non trova principio unificatore. È forse questo il tema più caro a Dick, che ama ribaltare la prospettiva con cui si guarda la realtà più volte nel corso dei suoi romanzi (basti pensare all'altro grande capolavoro che è Ubik), così che il flusso degli eventi può essere regolato soltanto da quella rivisitazione del Secondo Principio che ho voluto mettere come apertura.

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altri romanzi di Dick, o comunque conosca lo stile dell'autore e sappia che più che essere un libro sulla caccia a robot ribelli questa è una profonda analisi della condizione umana.
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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? 2020-03-28 06:52:21 lalibreriadiciffa
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lalibreriadiciffa Opinione inserita da lalibreriadiciffa    28 Marzo, 2020
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Contiamo le pecore... Elettriche.

Siamo nel 1992 e San Francisco è una delle poche città ancora popolate sulla Terra perché la maggior parte della popolazione è migrata verso le colonie extra mondo per scappare dal pianeta in seguito ad un conflitto nucleare. Il protagonista è Rick Deckard che vive a San Francisco con la moglie, Iran. Per sopravvivere fa il cacciatore di androidi. Infatti in questo mondo futuristico immaginato da Dick, non esistono solo umani ma anche esseri artificiali identici agli umani: androidi.

Parto subito con il dire che apprezzo molto Dick, avendo letto svariati suoi libri e sono convinta che scriva bene. È sintetico, diretto ed efficace. In particolare, le scene d’azione sono rapide, zero dettagli inutili e fanno provare al lettore l'ansia che stanno provando i personaggi. Quando mostra la parte più sentimentale usa delle immagini intense, usando molti dettagli. Quello in cui forse pecca sono i dialoghi. Qualcuno risulta un po' senza senso, per esempio, quello tra Dick e Iran, ad inizio libro in cui litigano senza motivo.

La trama non è facile, senza grossi sconvolgimenti. L'ho trovata lineare fino alla fine.
Per quanto riguarda i personaggi: Rick è caratterizzato in modo discreto ed è il "classico protagonista"; Isidore secondo me è reso decisamente meglio, all’inizio appare sottotono ma poi nel corso della storia vira al meglio; i personaggi secondari sono abbastanza caratterizzati, nulla di particolare; Iran, Phil Resch e Rachael hanno una propria personalità ben definita.

Come in molti romanzi di Dick la componente ideologica ha un ruolo rilevante, ci sono vari spunti di riflessione che vengono sviluppati fino alla fine del romanzo. È proprio questo aspetto che mi fa confermare che Dick non scriva prettamente di fantascienza, ma alla fine raccontare storie con un senso. Il primo tema è la ricerca del divino, nella distopia che fa da sfondo a questo romanzo, la divinità principale è Wilbur Mercer, che invita la gente a collegarsi a una sorta di sentimento collettivo attraverso le cosiddette scatole empatiche. Da una parte Mercer e in contrapposizione Buster Friendly, personaggio nominato e mai mostrato dal vivo (come il Grande Fratello in "1984" di Orwell), comico conduttore di una trasmissione che tenta in tutti i modi di demolire la pseudo-religione di Mercer. Non parlo del pensiero finale che Dick trova attraverso Rick, ma questo viene "spiegato" al lettore alla fine del libro, lasciando intendere come và a a finire.

Fin dalle prime pagine intuiamo il fastidio che Rick e Iran provano per il fatto di non possedere un animale reale e di doversi accontentare di una pecora elettrica, ma questa prospettiva viene ribaltata con l’arrivo del rospo. Non aggiungo altro per non fare spoiler ma qui troviamo il nucleo centrale del romanzo. C’è soltanto la vita così com’è e smette di avere senso parlare di giusto e di sbagliato in base a criteri precostituiti, c’è soltanto l'individuo.

E fin qua più o meno funziona tutto. Cosa invece non va? Ho trovato elementi non chiari o trattati in modo troppo sbrigativo. Ad esempio il finale della vicenda di Isidore, narrato come se fosse un evento marginale e fatto raccontare dal punto di vista di un altro personaggio. Sono anche presenti, come dicevo più sopra, un po’ di dialoghi surreali e qualche evento avviene in modo così repentino che non si riesce a capire che cosa sia successo.

Alla luce delle mie considerazioni non posso andare sopra le quattro stelle per questo romanzo, che rimane comuqnue una buona prova e che merita di essere letta.

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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? 2019-10-14 20:59:14 Clangi89
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Clangi89 Opinione inserita da Clangi89    14 Ottobre, 2019
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"Ma la tua pecora è autentica?"

In un mondo battuto dal vento, annientato da una polvere radioattiva, la palta, di cui non conosciamo l'origine ma che tutto copre e che ha sterminato le forme di vita animali, cosa può restare dell'uomo in quanto tale, della sua essenza? L'uomo che è stato artefice, nonché principale complice, della desolazione che ora lo circonda come può pretendere di annientare l'altra forma di "nonvita" che egli stesso ha creato con lo sviluppo degli Androidi?
Le prime vittime che la pestilenza radioattiva ha attaccato sono stati gli animali, dagli uccelli ai pesci, dagli insetti ai rettili, un massacro impietoso. Gli animali sopravvissuti sono catalogati in appositi listini dai prezzi esorbitanti e per coloro che, rimasti sulla Terra per motivi fortuiti e fuorvianti, non possono permettersi tali somme resta la triste opzione di comperare animali finti. Il tutto malgrado il fatto che "possedere un animale fraudolento riusciva pian piano, non si sa come, a demoralizzare chiunque. Eppure da un punto di vista sociale era una scelta obbligata, se mancava l'animale vero".
La catastrofe è quindi palpabile ma l'uomo dalle mille risorse materiali, manageriali e consumistiche non manca di farsi attendere. Dal canto loro gli esseri umani sono stati pertanto caldamente invitati a suon di pubblicità martellanti e diffuse su un unico canale televisivo e radiofonico, ad emigrare su Marte con allettanti prospettive di una vita migliore nella terra promessa. Una vita, laggiù, arricchita dagli Androidi. Questi ultimi si svelano essere robot costruiti ad arte, anzi, più che robot, sono umanoidi all'apparenza del tutto simili agli umani ma programmati per vivere al massimo 4/5 anni perché permane un aspetto inimitabile in laboratorio: la riproduzione cellulare.
L'emigrazione spaziale lascia perplessi. Sulla Terra restano soggetti "speciali" catalogati ai margini, secondo discutibili scale di valori e persone che hanno ancora un qualche interesse o necessità professionale a rimanere senza tuffarsi nello spazio siderale con la compagnia di Androidi dall'aria perfetta e studiata. Su questa Terra però gli umanoidi sono intrusi, vengono banditi da ogni nazione ed in ognuna di esse diversi cacciatori di taglie come il nostro protagonista Rick Deckard danno la caccia ai "cosi" per "ritirarli" (alias annientarli).
A questi Androidi manca una sola caratteristica umana: l'empatia. Proprio su questa peculiarità l'autore ci spinge a riflettere. Con che diritto l'uomo pensa di essere empatico dal momento in cui non ha saputo tutelare le diverse forme di vita terrestri? Mentre assistiamo velocemente a come gli uomini (esseri umani? Forse) si sono organizzati per sopravvivere in una orrenda landa desolata scopriamo che c'è una dottrina religiosa che va di moda, il Mercerianesimo, e che placa le menti sulla falsa riga del consumismo; ci sono scatole che regalano felicità e sentimenti di condivisione perché la condivisione, quella vera data dal contatto umano, sembra dileguata. Come non collegare queste scatole alle realtà virtuali che oggi ci circondano, ricche di falsi sentimenti da elargire a profusione a persone sole quanto isole!
La scrittura onirica, fantascientifica dallo stile distopico dell'autore non approfondisce i dettagli della trama come forse ci si potrebbe attendere, tuttavia spinge il lettore a voler scoprire cosa accadrà a Rick Deckard, al suo sogno di un animale vero ed alla sua pecora elettrica. Proprio quest'uomo che da la caccia agli umanoidi arriva a chiedersi se è eticamente corretto e fino a che punto ci stiamo affezionando alle macchine, ai circuiti elettrici/elettronici e tecnologici quotidiani provando per le questi una forma di empatia. Il lettore è spinto a non capire più chiaramente se i personaggi che si susseguono nell'arco di due giornate, sono veri o frutto di invenzioni robotizzate ed automatizzate.
Gli umanoidi che appaiono superiori agli uomini ma che da questi ultimi cercano di imitare il loro limite, l'umanità e di superarsi. Gli umani che invece cercano i sentimenti e le emozioni che paiono ormai appiattiti, annullati dalla palta e ridotti a scatole alle quali affidare gioie e dolori per modulare la felicità.
L'autore ci fa toccare spesso la disperazione e la solitudine perché "quando ci si deprime fino a quel punto, non ce ne importa più niente. Si precipita nell'apatia, perché si è perso qualsiasi senso del proprio valore. Non importa sentirsi meglio perché ormai non si vale più niente".
Un libro che nella sua velocità di narrazione si abbina al ritmo che la nostra realtà ci impone, tutto veloce, spesso annebbiato da uno strato di polvere al quale non sappiamo o non vogliamo andare oltre. Allora, proprio allora, il posto vuoto lasciato dalla nostra noncuranza verso la vita vera, naturale, ambientale e biologica viene soppiantata dalla funzione. Una falsa illusione che nei circuiti che ormai ci circondano tutti i giorni, qualunque cosa facciamo, ci sia la prospettiva del futuro migliore, del tanto sperato ed immacolato progresso. Ma dove sta il progresso nel momento in cui rischiamo di perdere il punto di vista umano? Un progresso che ci dona molto ma che va calibrato e modulato.
Una strana sensazione di polvere addosso che attraversa tutto il libro spinge a guardare i colori ed il cielo che in realtà ci circondano con sentimenti differenti. Questo perché "una volta, pensò, avrei visto le stelle. Anni fa. Ma ora non c'è altro che polvere, sono anni che nessuno vede più le stelle, perlomeno dalla Terra", come non pensare di alzare gli occhi al cielo e di ammirare la terra e fare qualche passo, purché sia fatto, nella prospettiva migliore.
Sull'orlo di un precipizio l'autore ci fa correre e sprigiona in noi tanti spunti fortemente attuali che toccano i temi ambientali, etici, commerciali ed economici. Un libro che si legge, un racconto che confonde e smarrisce tra la realtà e la finzione tecnologica, tra le cellule, i sentimenti ed i circuiti che si intrecciano e si mischiano inesorabilmente.

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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? 2019-09-20 22:06:41 cristiano75
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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    21 Settembre, 2019
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la Palta ovvero la polvere

Questa frase "palta" l'ho letta e mi si è aperto un mondo. Anche oggi a distanza di anni, dalla prima lettura di questo meraviglioso libro, da cui è stato tratto uno dei più grandiosi film mai creati, che quando sono in casa, in un ristorante, in un cinema e vedo la polvere depositata un po ovunque, mi dico che il grande scrittore di fantascienza aveva proprio ragione: niente e nessuno può porre rimedio alla palta, alias la polvere.....io passo un panno su un mobile, ebbene dopo un ora la palta è tornata già a occupare lo spazio.
Può sembrare strana questa digressione, ma questa polvere perenne è quella poi che marca il destino degli uomini tutti e che è di biblica memoria: alla polvere torneremo.....e quindi palta eravamo e palta alla fine saremo.
Un po come il protagonista, che vive in una dimensione che non si comprende sia reale o frutto di una immaginazione innestata dagli uomini.
La sua missione è quella di "ritirare" una determinata serie difettosa di umanoidi, ma il suo interrogativo è: sono anche io una macchina oppure sono umano?
Il libro è di scorrevole lettura, ne è stato tirato fuori un adattamento cinematografico, potente e visionario.
L'autore si domanda quale sia il destino degli uomini. Se le macchine alla fine avranno un totale sopravvento sulla storia. Egli immagina un mondo in cui praticamente le persone vivono in un caos di luci, macchine, animali elettrici, piante finte, costruzioni a forma di astronavi, auto che solcano i cieli, rapporti sociali praticamente nulli e una pioggia perenne (nel film) che rende cose e persone difficilmente distinguibili.
Anche il titolo è un gioco di parole, che può significare tutto e allo stesso tempo nulla.
Alla fine la soluzione di tutto arriva proprio dalla palta o polvere. Infatti ogni nostro tentativo di conquistarci l'eternità è un posto fra gli Dei non è altro che un vano desiderio di sfuggire all'ineluttabile destino da cui proveniamo.

Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris (Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai)
Bibbia, Genesi 3,19

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Odissea nello spazio
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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? 2019-05-15 18:00:16 Rollo Tommasi
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    15 Mag, 2019
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Se questo è l'uomo

“Rick rimase a fissare per parecchio tempo la civetta che sonnecchiava sul trespolo. Gli vennero in mente mille pensieri, pensieri sulla guerra, sui giorni in cui le civette erano come piovute dal cielo; si ricordò di quando durante la sua infanzia si era scoperto che una specie dopo l’altra era scomparsa e di come i giornali ne parlassero ogni giorno – le volpi un mattino, i tassi il seguente, finché la gente aveva smesso di leggere questi perpetui annunci mortuari degli animali.”

In un mondo dove la sete della terra è placata da continue piogge di polveri radioattive, gli animali sono stati i primi ad “andarsene”, una specie dopo l’altra.
Quelli che rimangono sono quasi tutte copie, più o meno credibili, più o meno in grado di simulare il comportamento dell’animale corrispondente: copie commissionate dai proprietari e pagate secondo il prezzario del listino Sydney. Perché un animale elettrico in casa è lo status-symbol per eccellenza. Ma anche l’illusione di tornare a tempi andati, in cui la vita non era ancora ridotta a mera sopravvivenza, temperata dai modulatori d’umore Penfield e dal Mercerianesimo, il credo religioso di molti.
I lavori più duri sono stati delegati ad androidi, i replicanti creati dalle industrie Rosen e perfezionati sino al modello Nexus 6, praticamente indistinguibile da un normale essere umano se non per l’assenza di empatia. Per questo, la loro circolazione è permessa soltanto sulle colonie. I “cacciatori di taglie” hanno l’incarico di procedere al “ritiro” (un eufemismo che sta per eliminazione) nel momento in cui un androide viola la regola.
Rick Deckard entra in gioco quando un gruppo di otto replicanti scappa sulla Terra. Tre sono stati già ritirati dal collega Dave Holden, ma uno dei restanti cinque lo ha ridotto in condizioni critiche. Del resto, che altro modo hanno gli umanoidi di rivendicare il proprio diritto ad una “vita”? E, d’altra parte, che scelta ha Deckard se vuole mantenere il menage familiare con sua moglie Iran (e magari sostituire la loro pecora elettrica con una vera capra nubiana)?
La caccia ai replicanti ha inizio.

“Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” è scritto da Philip K. Dick nel 1968, e – pur nutrendosi dell’inconfondibile visionarietà dell’autore – manifesta un rigore e una conseguenzialità di eventi non sempre presente nei suoi romanzi. Una “robustezza” necessaria alle tematiche trattate, che viene percepita in pieno dal regista statunitense Ridley Scott. Quando, nel 1982, egli trasforma il romanzo in film e porta sullo schermo “Blade runner”, non immagina che la visione sua e di Dick diverrà quella maggiormente rappresentativa del futuro dell’umanità nell’immaginario collettivo occidentale.
Sfrondato dagli aspetti religiosi e da eccessivi riferimenti all’ “androidismo” degli animali, recupera forza il tema della sopravvivenza umana, del rispetto della vita in ogni sua forma, esplodendo, oltre ogni esplicita intenzione di Dick, nella volontà di ribellione a Dio e alle sue leggi (impersonata dall’androide Roy Batty). La resa dei conti dell’uomo con se stesso, con la propria natura, si compie sotto la pioggia sporca che bagna il tetto di un anonimo edificio, sublimandosi nelle celeberrime “lacrime nella pioggia” e nel volo improvviso di una colomba (vera o elettrica?) verso il cielo. Diverso dal finale descritto nel libro, che per il resto è ritenuto più distante dal film di quanto lo sia realmente.
Ergendosi sulle spalle di un “talento divergente” come quello di Philip K. Dick (“un visionario tra i ciarlatani” lo definiva il collega Stanislaw Lem), Ridley Scott riesce in qualcosa di pressoché irraggiungibile: fondere filosofia, disperazione e poesia in un’unica visione, materializzando uno dei pochi capolavori universali sulla condizione umana. Qualcosa che è, insieme, bellezza e monito.

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i capolavori di Dick (Ubik, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, etc.) e a chi non smette mai di guardare e riguardare Blade Runner...
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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? 2016-06-22 07:18:38 Francj88
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Francj88 Opinione inserita da Francj88    22 Giugno, 2016
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La disfatta della creazione

Questo romanzo di Philip K. Dick è ambientato in un futuro distopico in cui gli uomini convivono con gli androidi in comunità sparse per la galassia. La Terra è diventata quasi inabitabile per via di tempeste di sabbia che hanno portato alla desertificazione di parte del globo, nonché danni cerebrali a una vasta porzione di uomini rimasti sulla Terra. Nelle colonie gli androidi, ormai sempre più sofisticati, vengono impiegati come forza lavoro ma, alcuni di essi, decidono di scappare e fare ritorno sulla Terra dove agenti speciali, come il nostro protagonista Rick Deckard, hanno il compito di “ritirarli”, ovvero eliminarli.

Il problema è che questi androidi, specialmente i nuovi modelli Nexus 6, sono talmente simili agli esseri umani che diventa difficile individuarli. Lo strumento utilizzato per verificare se un individuo è un androide o meno è quello di sottoporlo ad un test sull’empatia. Pare infatti che gli androidi non siano in grado di provare partecipazione emotiva nei confronti di altri esseri viventi, tanto meno verso altri androidi. Questo è il futuro verso cui tende l’umanità? Una progressiva perdita dei valori umani di empatia e solidarietà non solo verso il prossimo, ma verso qualsiasi essere vivente? Perché forse il punto è che non sembrano essere i nuovi modelli Nexus 6 sempre più simili all’uomo, ma al contrario sembra essere l’uomo in procinto di somigliare sempre più ad un androide, una macchina senz’anima.
D’altronde il concetto di empatia è presente nel racconto anche sotto forma di pseudo-religione: il mercenearismo, che fa leva su questo legame empatico e sulla condivisione universale dell’esperienza da parte degli uomini, come se facessero parte di un’unica entità. Ma se casualmente viene fuori che questo Mercer, il Dio/Profeta dell’empatia non è altro che un ubriacone e a fare questa scoperta (ironia della sorte) non è altro che un androide, allora cosa resta all’uomo? La consapevolezza che non esistono ideali nè verità assolute e ciò porta ad un quesito ancora più angosciante: cos’è che ci rende umani? Quando l’evoluzione tecnologica avrà raggiunto un livello tale da permettere agli androidi di somigliare in tutto e per tutto agli esseri umani, empatia compresa, come sostanzieremo e giustificheremo il nostro antropocentrismo?

Nel romanzo di Dick sembra che l’uomo sia diretto verso la sua stessa distruzione. Di certo in una società come la nostra, in cui il progresso tecnologico sembra ormai inarrestabile, viene spontaneo chiedersi se e quali debbano essere i limiti da porre al progresso scientifico per evitare che nel nome di tale progresso l’uomo compia qualcosa si irreparabile. Curioso è anche il fatto che nell’ universo descritto da Dick il vero bene di lusso non sia possedere oggetti tecnologici o androidi ma animali veri, esseri viventi (da qui l’ironico titolo).

Questo romanzo, permeato da un cupo pessimismo, per quanto si legga velocemente per via della scorrevolezza data anche dalla brevità dei capitoli, richiede in realtà una lettura attenta, tante e complesse sono le tematiche messe in gioco. “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” è un capolavoro della fantascienza ma non solo, potrebbe essere considerato un vero e proprio trattato di sociologia. Il film che ne è stato tratto, Blade Runner, uscito nel 1982 (a quasi vent’anni dalla pubblicazione del romanzo) e diretto da Ridley Scott è anch’esso un capolavoro nel suo genere ma, essendo liberamente ispirato al libro, è da considerarsi un’opera a parte. Il regista è riuscito a coglierne l’atmosfera cupa con le ambientazioni notturne e la fotografia fredda e futuristica ed è riuscito a dare una mirabile caratterizzazione agli androidi protagonisti, ma l’opera di Dick contiene degli elementi che a mio parere lo pongono tra quei libri che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita.

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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? 2015-04-09 08:57:25 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    09 Aprile, 2015
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Uomo. Animale. Androide.

Per molti leggere di un universo in cui gli uomini convivono con gli androidi, in cui l’umanità ha colonie sparse per la galassia e l’essere robotico è la fonte di compagnia/servitù per eccellenza per il nostro genere di appartenenza è un qualcosa di inconcepibile, implausibile. Eppure sempre più la tecnologia si sta muovendo verso questi lidi, verso questi nuovi traguardi, tanto che le opere di autori maitre del settore quali Asimov e Dick, seppur appartenenti a due tipi di fantascienza distinti, non sono più così improbabili, inimmaginabili, anzi.. Come noto “ma gli androidi sognano pecore elettrice” è il romanzo da cui è stato tratto il celebre“Blade Runner” e se dunque siete amanti della tipologia è il testo adatto a voi.
Le vicende narrate si svolgono interamente nell’arco di una giornata estremamente lunga e faticosa per il protagonista, il cacciatore di taglie Rick Deckard; 8 nuovi androidi modello Nexus 6 illegalmente fuggiti da Marte hanno fatto ritorno sulla Terra e suo compito è quello di ritirarli (eliminarli) quanto prima. Il problema è che questi prototipi sono perfette riproduzioni degli organismi autentici, le differenze sono minime e dunque sempre più complesso è individuarli, non commettere l’errore di colpire un corpo notoriamente considerato vivente anziché un prodotto della scienza.
Non solo, la Terra è descritta come un luogo distrutto da una polvere che cade dal cielo come pioggia, questa ha primariamente colpito le cavallette, di poi gli uccelli ed infine tutti gli altri abitanti del pianeta, nessuno escluso, anche l’uomo infatti non è immune da suoi effetti tanto da, una volta esserne venuto in contatto, essere classificato quale “un cervello di gallina” o un “cervello di formica”, catalogazione a cui segue l’essere ridotto a lavori dove è richiesta la minima intelligenza e l’interdizione al migrare verso altri corpi celesti. La popolazione mondiale è perciò decimata, la maggior parte si è trasferita su Marte o altre colonie e i restanti vivono dediti al “mercerianesimo” una pseudo religione che fa leva sul legame empatico ed il cui messia altro non è che Mercer, da qui il nome della fede. Ma chi è questo Dio? Non è altro che un ubriacone, non è altro che mercificazione (Mercer non significa infatti Mercy bensì merchandise) e come fa l’organismo autentico a prendere consapevolezza di tale assunto? Grazie, ironia della sorte, all’androide che svela all’umanità che non esistono ideali assoluti a cui tendere, che ciò che è bene per uno non è necessariamente bene – ne tantomeno male – anche per l’altro, che in definitiva gli uomini non sono poi così veri perché credono ciecamente nella finzione, così, per partito preso senza interrogarsi sull’autenticità.
Un aspetto che viene particolarmente evidenziato nel testo è il legame con gli animali. Mentre nella nostra società il benessere è rappresentato dall’oggetto in sé per sé (dall’avere il telefono di ultima generazione al SUV superaccessoriato) nel mondo dispotico di Deckard questo è costituito dalla proprietà di un animale vero e non elettrico. Il “catalogo Sidney” offre la stima dei prezzi di ciascuno di questi, e il nostro protagonista non è immune dal desiderio di possederne uno vero tanto che decide di concludere il lavoro, nonostante tutti i dubbi morali che lo assalgono durante lo scorrere degli avvenimenti, soltanto per poter coronare tal desiderio.
Il romanzo è intriso di neologismi, numerose sono le questioni che vengono poste al lettore che pagina dopo pagina indirettamente arriva a chiedersi cos’è veramente l’umanità, cosa rende umani e cosa no, quanto inficiano la coscienza e la consapevolezza su tale requisito, quanto alla fin fine gli androidi siano semplici prodotti di laboratorio e non anche qualcosa di più. Considerazioni a cui va aggiunto il fatto che attualmente ciò che ci permette di porci sul “piedistallo” è appunto il possesso di qualità quali l’intelletto, la conoscenza, la coscienza rispetto agli animali, nostri attuali metri di paragone. Qui la domanda sorge spontanea. E se lo scenario mutasse e dunque la società non fosse composta soltanto dal binomio uomo-animale ma a questo si aggiungesse il fattore androide, prodotto di laboratorio capace di dimostrarsi più utile in determinati incarichi, più versatile nello svolgimento di molteplici funzioni, su quali elementi potremmo fondare la nostra pretesa di superiorità? Quali caratteri potremmo addurre al fine di evidenziare una loro appartenenza al solo genere macchina ed una nostra qualità preponderante sull’organismo cibernetico? Dick ci suggerisce una risposta e questa è l’empatia, la capacità di immedesimarsi negli altri, nei loro sentimenti, nelle loro emozioni, gioie e sofferenze, e lo fa a tratti con particolare rudezza (basti pensare alla mutilazione del ragno dinanzi a J.R. Isidore).
Eppure lo stesso autore sembra volerci suggerire, tra le righe ,che anche questa qualità è un qualcosa che non ci dà una sicurezza totale in quanto gli androidi, descritti quali soggetti con una propria individualità, intelligenza, capaci di fare del bene quanto di complottare per raggiungere scopi talvolta moralmente discutibili, non è detto che non acquisiranno mai tale caratteristica così come, il loro altro handicap identificato nella brevità della vita per ancora l’incapacità di riprodurre le cellule, non è un ostacolo invalicabile poiché il loro creatore uomo con le scoperte scientifiche riuscirà a correggere anche queste piccole imperfezioni. E quando anche questo traguardo sarà raggiunto, cosa ci differenzierà davvero da loro? Niente. L’umanità si sarà auto-annientata.
Il testo va assaporato, non è una di quelle opere che possono tranquillamente leggersi in un paio di giorni perché con significato relativo, è composto da capitoli brevi, scelta che permette alla mente del lettore di restare sempre vigile.

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a tutti a prescindere dall'appartenenza o meno al genere di fantascienza.
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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? 2014-02-23 13:52:32 Giovannino
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Giovannino Opinione inserita da Giovannino    23 Febbraio, 2014
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Il cacciatore di androidi

C'è poco da fare, ultimamente sono fissato con la fantascienza, nonostante da sempre sia un tema che non amo particolarmente, però questo periodo ho deciso di dargli una chanche, ed eccomi che dopo Asimov scelgo Dick. Logicamente, come molti di voi sapranno, parliamo di due tipi di fantascienza molto diversi nonché di due periodi storici altrettanto distinti. Se infatti possiamo definire Asimov come il padre della moderna fantascienza forse è più giusto definire Dick come il principale esponente del ciberpunk letterario. Ero andato in libreria per prendere Ubik, sua opera più famosa, ma non avendola trovata ho scelto "Ma gli androidi sognano pecore elettriche?", altra sua opera famosissima dalla quale poi Ridley Scott ha tratto il capolavoro "Blade Runner" (film che ho visto 3 volte...). Il romanzo è ambientato in un futuro distopico in cui gli uomini convivono con gli androidi, la terra ( o almeno le periferie più povere) è piena di una polvere chiamata "palta" che cade dal cielo come pioggia e che a lungo andare nuoce alla psiche degli umani, e gli esseri umani sono dediti ad una pseudoreligione chiamata mercerianesimo, che li tiene in legame empatico. Insomma, un futuro tutt'altro che positivo...in tutto ciò, un cacciatore di taglie di nome Rick Deckard viene incaricato di "ritirare" (leggi "eliminare") 7 androidi super avanzati della serie Nexus 6 che hanno mandato all'ospedale (in fin di vita) il capo del nostro Rick. Logicamente non mancheranno gli imprevisti ed i colpi di scena, ma soprattutto non mancherà l'amore, che in questo caso coinvolge il protagonista ed un'androide facendoci pensare "Sono poi così tanto lontani dagli esseri umani questi androidi?", a voi la risposta. Il libro è molto simile al film, Scott tende solo ad accentuare un pò di più il legame sentimentale "uomini-androidi" ma per il resto, soprattutto gli scenari, sono identici. Un elemento che manca nel film e che invece da il titolo al libro è proprio la presenza degli animali elettrici, che Dick tende ad associare al benessere del futuro. Come infatti per noi il sintomo del benessere può essere considerato una fuoriserie da 60000 euro o una casa di 200 mq, nel futuro di Dick il benessere è rappresentato da un animale vero e non elettrico, visto che gli animali viventi (un pò come gli umani) sono in via d'estinzione. Ogni animale ha un prezzo indicato sul "catalogo Sidney" e questo fattore, non presente nel film, è invece il motore del nostro libro, infatti Rick decide di portare a termine il suo lavoro solo per poter intascare i soldi della taglia e finalmente acquistare una pecora vivente al posto di quella elettrica che ha. Il libro è scritto in maniera semplice e scorrevole nonostante i mille neologismi. Ho trovato anche molto intelligente il fatto di dividerlo in capitoli brevi così da mantenere sempre alta la concentrazione del lettore. Insomma in conclusione un bel libro che sono riuscito ad apprezzare pur non essendo un amante della fantascienza, adesso sotto con Ubik!

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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? 2013-12-12 14:46:30 Valerio91
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    12 Dicembre, 2013
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Do androids dream of electric sheep?

"Cosa stai leggendo?"
"Ma gli androidi sognano pecore elettriche?"
"Che?!?"
"Il libro da cui è tratto il film Blade Runner."
"Ah Bello!"
Questa era la conversazione tipo che avevo con chiunque mentre leggevo questo libro.
Si perchè questo libro è indissolubilmente legato al film, anche se con questo ha in comune poco più che l'idea di base. L'ambientazione è, come spesso accade nei romanzi di Dick, un pianeta Terra ormai desolato, dai colori cupi, grigio e ormai quasi inabitabile. Le forme di vita animali (oltre l'uomo) sono estinte quasi completamente, sostituite da androidi che ne riproducono perfettamente le sembianze, ma che solo pochissime persone possono permettersi. Avere un animale domestico è infatti un pò il sogno proibito di qualsiasi abitante della Terra (il protagonista possiede una pecora sintetica malfunzionante che non vede l'ora di sostituire), tanto è vero che nel test di Voight-Kampff, per riconoscere un umano da un androide, la reazione alle domande riguardanti animali è un fattore molto importante.
Ma perchè la necessità di distinguere uomini da androidi? Perchè il compito dei cacciatori dei androidi è proprio quello di eliminare i replicanti potenzialmente pericolosi, ma questi ultimi sono talmente perfetti da rendere difficile una distinzione con gli esseri umani. Il nostro protagonista, Rick Deckard, è proprio un cacciatore di androidi, incaricato di eliminarne sei del tipo Nexus 6 di ultima generazione, fuggiti dalla colonia extramondo di Marte.
Philip K. Dick ha uno stile inconfondibile, che si può respirare a pieni polmoni anche in questo libro, davvero allo stato puro. Avessi dovuto leggere queste pagine senza sapere chi fosse l'autore, lo avrei capito senza ombra di dubbio. Le atmosfere scolorite e desolate, i temi profondi e anche la sua scrittura non impeccabile ma efficace.
Proprio come il film, il libro pullula di argomenti interessanti che però bisogna saper cogliere con una lettura attenta. Prima di tutto Philip K. Dick non manca di ostentare la mancanza di fiducia nei confronti dell'umanità di preservare il proprio pianeta, anche in questo caso la nostra povera Terra ha fatto una ignobile fine, così come l'ecosistema che la popolava, una delle poche cose che riuscirà a sopravvivere saranno proprio i "distruttori", gli esseri umani.
L'argomento chiave che sembra legare molto Blade Runner e questo libro, è la difficolta di discernere la differenza tra uomo e androide. A contribuire enormemente a questo riguardo è il personaggio di Rachel, androide dotato di ricordi preinnestati allo scopo di renderlo convinto di essere un umano, una convinzione talmente profonda da innestare il dubbio anche in Deckard, riguardo sè stesso. Chi avrebbe potuto dargli la certezza di essere davvero umano e non semplicemente convinto di esserlo?
Ciò che però incute più timore è la domanda che il libro sembra quasi porti esplicitamente: se l'avanzare dell tecnologia portasse noi esseri umani a diventare sempre più "androidi"? D'altronde i personaggi e lo stesso Deckard lasciano a una macchina il compito di decidere quali sentimenti provare, un modulatore di umore. Se andando troppo avanti nel progresso sconsiderato sacrificassimo la nostra umanità e diventassimo sempre più delle macchine, smettendo così di vivere davvero la vita? Philip K. Dick ci pone questo interrogativo principale in questo libro geniale che non poteva ispirare nient'altro che un capolavoro quale è Blade Runner.

Non manco mai di mettere una citazione alla fine di ogni recensione che scrivo, ma mi perdonerete se metterò la celeberrima tratta da Blade Runner:
"Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire."

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Chi ha visto Blade Runner.
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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? 2013-07-11 10:44:42 Todaoda
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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    11 Luglio, 2013
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La disneyana distruzione dell' umanità

Che cos’è l’umanità, che cosa ci rende umani? La coscienza? L’intelletto, la consapevolezza, l’auto consapevolezza di appartenere ad una specie animale superiore? E in cosa si manifesta esattamente questa superiorità?
La risposta parrebbe facile dal momento che sono proprio la conoscenza e le opere dell’intelletto, che ci permettono di definirci umani, l’evoluzione: la possibilità intrinseca di definire noi stessi come esseri pensanti ci permette di elevarci sopra le altre specie animali. I pesci non possono, così i felini, i volatili e ogni altro genere di animali, è questo che ci rende umani, superiori, evoluti.
Ma se in un futuro non troppo lontano lo sviluppo tecnologico permettesse di creare delle macchine, umanoidi, in tutto e per tutto identiche a noi, con le nostre sembianze, il nostro cervello, il nostro carattere, cosa ci differenzierebbe ancora da loro, e se queste macchine, proprio come i computer si rivelassero più adatte a svolgere certi incarichi, lavori o compiti, tanto da farci dubitare della nostra superiorità nei loro confronti, tanto da arrivarne a stimarne l’intelligenza, da arrivare a giudicare la loro intelligenza, superiore alla nostra, che cosa ci permetterebbe ancora di differenziarci? Oltre ovviamente ad un esame bioptico; in che cosa potremmo vantarci ancora di prevalere?
Questa è la domanda di Blade Runner, esatto il film, non il libro da cui è tratto, non “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”.
Il paragone è essenziale per capire il testo, quanto naturale data la superiore notorietà della pellicola rispetto al libro, quanto ahimè inevitabile dal momento che oggi giorno nessuno che incominci a leggere questo libro non ha visto prima il film ed essendo il film appunto tratto dal libro, essendone una semplificazione, forse per apprezzare meglio la complessa profondità della fonte originale è bene cominciare dalle cose più semplici, appariscenti e note.
In che modo dunque potremmo ancora distinguerci? Questa è la domanda che si pone Ridley Scott affrontando i temi immaginati da Dick, e la risposta che adotta, la stessa trovata dall’autore, è una risposta semplice ed esaustiva: l’empatia.
L’unica cosa che ci potrebbe permettere ancora di distinguere tra uomo e macchina sarebbe l’empatia, il sentimento, la sensazione che per antonomasia è sinonimo di umanità, quell’istintiva immedesimazione spontanea nei confronti dell’essere che abbiamo di fronte, la possibilità di capirlo, capirne e condividerne i sentimenti, le gioie tanto quanto le sofferenze.
Questo è il totem attorno al quale potrebbero riunirsi, rinforzare le fila, gli uomini se invasi da esseri sovraumani, questa sarebbe l’unica possibilità per definirci ancora superiori.
Ma anche le macchine al nostro pari hanno sentimenti positivi e negativi, ridono, piangono e uccidono, proprio come talvolta gli uomini, e lo fanno anche bene, complottano contro di noi piani arzigogolati, intelligenti, fini, quindi non sono semplicemente dei simulacri perfetti degli esseri umani, delle copie, al contrario hanno una loro individualità, sono divertenti, noiosi, scaltri, sciatti proprio come noi e talvolta sono anche abili assassini la cui spinta omicida è legata al naturale, logicissimo e assurdamente umano istinto di sopravvivenza, quindi in fondo qual è la differenza?
Non importa noi, uomini, siamo comunque migliori poiché fin tanto che gli androidi non capiranno cosa sia l’empatia, non la proveranno, non potranno mai sapere cosa significa essere realmente vivi…ma se alla fine, lo capiscono?
Se alla fine, in un ultimo ansito di vita, il peggiore di tutti, proprio il più cattivo, ha la sua illuminazione, capisce l’empatia, ed anzi in una sorta di paradossale trasposizione della crocifissione di Gesù Cristo, si sacrifica lui stesso per salvare un singolo essere umano…a noi cosa resta?
“Solo lacrime nella pioggia.” Poiché loro in tutto e per tutto diventano migliori di noi. Questo è il significato del film, forse il più bel film di fantascienza mai stato fatto... D’accordo, ma il libro?
Il libro parte da questa premessa e si evolve fino a raggiungere con un’escalation di sarcastico nichilismo quella che potrebbe essere definita la disneyana distruzione dell’umanità.
Nel film Roy Baty, l’androide, urla (letteralmente ulula) la sua rabbia cieca, il suo sconforto e la sua delusione nei confronti del genere umano, genere umano che la creato e l’ha tradito in quella sorta di rivisitazione Frankensteiniana moderna che è la pellicola di Ridley Scott, nel libro invece è l’agente Deckard, il cacciatore di taglie, l’uomo, che urla e ulula la sua rabbia e il suo dolore nei confronti del genere umano, del suo stesso genere che ha creato dei mostri da cui è attratto, che ha creato una società in cui lui è costretto a fare qualcosa che non vuole, che in definitiva ha creato lui stesso. E se per l’androide di Rutger Hauer c’è una redenzione, c’è comunque una scintilla nobilitatrice tipica dell’essere umano, per quello di Dick, per quello di carta stampata, non c’è alcun che e tanto meno, e questo è ancora più comicamente e tragicamente nichilistico, non c’è alcun che neppure per l’uomo che dopo aver compiuto il suo dovere non sa più cosa pensare, a chi affidarsi, di che illudersi e sconfitto dalla vita torna a casa a dormire.
In Blade Runner l’uomo ha tradito il pupazzo specchio di se stesso, in “Ma gli andoridi…” l’uomo tradisce se stesso. E l’umanità tutta ulula il suo muto sconforto scoprendo che le sue creazioni, quei simulacri disneyani così perfetti, utili ed attraenti che sono gli androidi e il loro mondo luccicante, non sono altro che caricature estremizzate degli uomini e che gli uomini le hanno create per non guardare in faccia la realtà, per non capire che dentro al costume di topolino che ti accoglie a braccia aperte in realtà c’è un rifiuto della società, un essere finto fatto della medesima “palta” con cui è fatto tutto il resto, della medesima polvere in cui tutto è destinato a trasformarsi.
Nel mondo di Dick persino Dio non è altro che palta, il Mercer – merciful simbolo dell’empatia, dell’estrema identificazione, dell’ultimo tendere umano, non è nient’altro che finzione, un vecchio ubriacone deificato da uomini senza scrupoli grazie a qualche altro specchio, qualche luce e qualche trucco. E il comico sadismo sta proprio nel fatto che non è l’uomo a scoprirlo (in tal modo potrebbe ancora elevarsi, evolversi) me è lo stesso Topolino a farglielo notare, l’androide televisivo perfetto e simpatico, la sua stessa creatura, è lui che gli rivela che Mercer non sta per Mercy ma per merchandise, per mercificazione, è lui che rivela agli uomini che perdevano tempo ad assurgere ad un ideale fittizio, è lui che rivela all’umanità che non esistono ideali a cui tendere e tantomeno ideali assoluti, che ciò che è bene per uno è male per un altro, che in definitiva gli uomini sono finti come gli androidi, poiché credono nella finzione così come credo in Topolino senza voler accettare, pur rendendosene conto che è solo uno stupido pupazzo con un uomo infilato dentro.
Che società è quella creata dall’uomo se per sopportare se stesso, se per vivere ha bisogno di proiettare la propria immagine su un omino di latta, su un androide, su un pupazzo? E che futuro potrà mai avere?
La distruzione disneyana dell’umanità.
Qui sta la sostanziale differenza tra il film e il romanzo. Nel film l’androide, il Topolino solo apparenza, riesce a salvarsi mostrando di avere un cuore, di essere vivo, nel libro affronta la morte accettandola passivamente pur essendo un’ ingiustizia; nel film è carnefice e redentore di un mondo di balocchi, nel libro è carnefice e martire di un mondo di palta.
Topolino dunque è finto, in realtà è una macchina assassina che incarna le colpe dell’uomo, gli animali sono finiti, congegni meccanici da revisionare ogni anno, poiché quelli veri muoiono inadatti a vivere in un simile mondo, il mondo stesso è destinato alla distruzione per colpa dell’uomo e Dio, l’ultimo ideale, quello in cui tutti si vorrebbero incarnare è finto anch’esso, nient’altro che un barbone alcolizzato, e allora che rimane a noi?
Nulla, solo il deliquio dei sensi e il sonno.
Questo è Ma gli androidi sognano pecore elettriche, un profondo e disperato grido di denuncia nei confronti di una società quella post bellica degli anni cinquanta – sessanta che sente ancora sulle spalle le colpe di quella precedente, di quella che ha scatenato su se stessa due guerre mondiali, che sente sulle spalle il peso delle proprie colpe, con la guerra in Vietnam, e che è costretta a rifugiarsi in sterili immagini di finti animali parlanti per non osservare cosa è diventata.
Questo è il messaggio di Dick: il primo passo per la de umanizzazione è Disneyland, il secondo saranno le pecore elettriche, il terzo gli androidi, il quarto la morte: la totale scomparsa del genere umano non tanto per cause fisiche ma per una progressiva assenza di volontà, per una progressiva rinuncia a credere, agire sperare, finché la società, la nostra stessa società, ci estrometterà poiché inadatti, poiché troppo deboli e stupidi, finché le’uniche cose che ci rimarranno saranno il sonno e i sogni beati di bambini senza età e senza coscienza che osservano solo i topolini e non notano il luridume che vi sta dietro.
Che cosa sono dunque gli uomini, cosa sono diventati in questa società? Si chiede infine Dick. Solo pietre che rotolano senza volontà, per nulla dissimili dagli androidi, per nulla dissimili da ogni altra dannata cosa. E a che servirebbe vivere se neanche ci rendessimo conto di essere vivi? Servirebbe solo per appagare quell’istinto che ci spinge a rotolare nel nulla illudendoci del significato delle nostre azioni, proprio come gli androidi.
L’anti umanesimo di una società che per sua stessa costituzione vorrebbe definirsi umana e che per sua stessa condanna è destinata alla distruzione. Tutto si crea e tutto si distrugge e quel che resta di noi è solo polvere, “palta” e gli scheletri inutili di Topolini senz’anima ovvero di ciò che eravamo stati un tempo.
Questo, tutto questo è il messaggio di Ma gli androidi... un romanzo illuminato e potente, complesso e stridente che in appena duecento pagine riesce a porre delle domande e dare delle risposte che sono diventate simbolo di un intero genere letterario e cinematografico, simbolo della capacità creativa di un genio, e dell’utopica denuncia della stupidità autolesionistica di una società che in se contiene i semi della beatitudine ma per qualche ridicola ragione riesce solo a contemplare i germi della propria dannazione.
Un romanzo di culto, ormai entrato nell’immaginario collettivo di diverse generazioni di lettori, scrittori e cineasti, un romanzo talmente omnicomprensivo da racchiudere in se tutta la fantascienza moderna, impegnata e la critica sociale degli ultimi cinquant’anni, un romanzo che, per troppi anni dimenticato, ora, se letto senza prestare attenzione, potrebbe persino apparire deludente….
A onor del vero è innegabile che, data l’odierna ritrovata rinomanza di Ma gli Androidi…, inizialmente si rimanga piuttosto delusi dalla piattezza della storia e dello stile con cui è narrata; così come è innegabile che senza il film che funge da contorno, stimolo e supporto, con le sue scure atmosfere e le espressive facce degli attori, sarebbe alquanto difficile superare le cinquanta pagine. Tanto che verrebbe da chiedersi come abbia fatto una simile opera a diventare così famosa.
Poi fortunatamente intuendo che non può essere così poco, che ci deve essere di più, si continua a leggere, e la storia si evolve, e così la filosofia dell’autore e cosi la nostra comprensione e si capisce, si intuisce, si apprende che in nessun altro modo queste cose potevano essere dette, che in nessun altro modo questo romanzo poteva essere scritto, poiché niente è più potente della reale, oggettiva, esperienza dell’essere umano che prende coscienza dell’imperfezione della realtà, dell’imperfezione di se stesso. E quale stile meglio s’accorda all’uomo imperfetto se non uno stile appunto imperfetto?
Sembra un po’ una scusa, vero, ma se l’opera di Philip K. Dick fosse stata abbellita, levigata, lucidata da frasi smaltate e parole neutre sarebbe ella stessa diventata un’ opera finta, una banale favoletta disneyana che non avrebbe funzionato, che il giorno dopo, finita di leggere ci si sarebbe dimenticati, ed anche volentieri. E invece no è dura, scarna, ingarbugliata, ma assolutamente concreta e nella sua finzione profeticamente reale. Certo se Ma gli androidi… fosse stato un romanzo pulito e lineare probabilmente sarebbe diventato più famoso, proprio come un fumetto, un cartone, invece è rude, secco, deprimente, proprio come il suo stile, lo stile con cui è scritto, ma è proprio grazie a questo che rifulge maggiormente tra le grandi opere dell’uomo, perché questa suo oscuro stridore rappresenta la forza dell’intuizione, l’intuizione che ha l’autore della vita, la forza della costante e stoica ricerca di una coscienza universale che permetta all’uomo di evolversi e comprendere maggiormente il significato del suo quotidiano agire, gioire e soffrire. Ed è proprio con questa forza che il libro, e con lui l’autore, può assurgere all’immortalità, al pari dei più grandi pensatori di ogni epoca.
Non c’è frase ben scritta che tenga di fronte alla verità universale, non c’è vocabolo ben levigato che regga di fronte all’intuizione della vita e non c’è rilettura puntigliosa che valga di fronte alla necessità di divulgare la propria scintilla creatrice, una scintilla che ci spinge, lui Dick, come noi che lo leggiamo, ad essere migliori, superiori a noi stessi, appunto evoluti.
Vero, letto affrettatamente potrebbe apparire un deludente romanzo di fantascienza da quattro soldi da cui un bravo regista è riuscito a estrapolare un ottimo film, letto affrettatamente… ma basta soffermarsi un attimo a ragionare, ad andare oltre la soglia dell’apparenza e si scoprirà che Ma gli Androidi…, è una gemma nascosta e solo recentemente riscoperta del panorama culturale mondiale, è un libro simbolo di un genere che trascende la letteratura e si spinge all’estremo limite dell’immaginazione umana, è un’opera patrimonio ed eredità di una generazione che ha vissuto all’insaputa di uno dei suoi più grandi capolavori per quasi cinquant’anni, di una generazione che ha vissuto all’insaputa dei suoi limiti per quasi duecentomila anni, la generazione dell’uomo.
Un tempo de Andrè cantava “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”, letto Ma gli Androidi sognano pecore elettriche, si capisce cosa intendeva, si capisce che Disneyland splende come il più puro dei diamanti e la mente di un genio puzza come il più puro dei letami.

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Agli amanti del sci-fi, a chiunque abbia visto il film e ovviamente ai Dickiani convinti.
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