Furore Furore

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    24 Novembre, 2023
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Chiamatela umanità

L'esodo, successivo alla Grande Depressione, che colpì le campagne degli Stati Uniti e che fece emigrare decine di migliaia di disperati verso l'Ovest, nella speranza vana, di trovare lavoro e cibo.
Un libro durissimo, con descrizioni feroci della fame e della disperazione di bambini, donne, anziani, uomini comuni.
C'è un film tratto dal romanzo.
E' un bel mattone, cui bisogna approcciarsi con cautela, poichè tocca temi molto spinosi, di natura etica e religiosa.
L'uomo come strumento di produzione e consumo. Le nascite di esseri, già segnati nel destino, che sarà drammatico.
La follia generata dalla privazione, la fame, la mancanza di speranza: emblematica la scena durissima, di un disperato che preferisce lasciarsi al suo destino, perdendosi tra i Canyon del Colorado, in solitudine, piuttosto che proseguire questo viaggio senza speranza verso una terra ostile, violenta, marchiata dalla brutalità delle autorità e degli uomini.
Il povero che giudica e flagella il suo simile.
Il ricco che perde la cognizione della realtà e accumula quantità spropositate di terre lasciandole marcire piuttosto che cederle a questi miserabili accampati affamati e furenti sulle strade arse dal sole.
Bambini che si lottano un mestolo di zuppa, che sopravvivono nutrendosi di radici e frugando nelle immondizie.
Corpi scavati dalla pellagra.
Denutrizione, denti che marciscono, parti in mezzo alle discariche.
Si muore su un materasso marcio, appoggiato in terra. Non si hanno i soldi neanche per una croce e si seppellisce il corpo sotto a un ponte.
Le macchine che sostituiscono l'uomo al lavoro. Le nascite incontrollate nelle classi sociali più povere. L'ignoranza in cui viene tenuta la maggior parte della popolazione.
La sovrappopolazione per creare una nuova forma di schiavismo, legato alla mancanza di lavoro e di cibo per tutti.
Libro che tocca temi attualissimi, universali e che lascia con l'amaro in bocca, pensando a come questa società si sia edificata senza morale alcuna, sfruttando gli oppressi, arricchendo degli eletti e gettando al macero ogni parvenza di moralità e di umanità.

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Lo scannatoio di Zola
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Gertrud Opinione inserita da Gertrud    17 Gennaio, 2021
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QUESTIONE DI VISIONI

È un libro molto interessante, Steinbeck oltre a denunciare lo sfruttamento e i maltrattamenti delle persone rimaste senza lavoro a causa di una depressione economica, tenta di far emergere anche il circolo perverso da cui si originano questi drammi sociali.
L'uomo perdendo di vista ciò che è  importante, come la terra e i valori universali, riduce la sua capacità di visione. Nello specializzarsi in lavori come il banchiere, l'industriale, il commerciante,  l'operaio, ecc. si dimentica le regole che garantiscono e mantengono la prosperità o quantomeno un dignitoso vivere.
Ecco allora lo sprovveduto uomo moderno, spremere il terreno fino a farlo diventare sterile, usare macchinari per non dover pagare la manodopera, e adottare crudeli ricatti per costringere le persone ad accettare lavori pagati al limite della sopravvivenza, ignari che tutto qello che a prima vista sembrerebbe il profitto tanto agognato, viene invece malamente speso e disperso per mantenere lo stato di disagio e difendersi dal furore dei disperati; i soldi della ricerca per ottenere merce e viveri sempre più abbondanti, sprecati nello smaltimento dei viveri invenduti per mantenere il prezzo alto. Il profitto usato al contrario per "darsi la zappa sui piedi" per usare termini agricoli.
Ed ecco lo spreco della stampa dei volantini per far arrivare le persone a migliaia e poterle ricattare, il conseguente disagio provocato da una moltitudine
gestita malamente attraverso il coinvolgimento di forze armate.
La violenza e il degrado degli ambienti oggetto di immigrazione.
La cecità che coglie l'uomo sprovveduto gli fa perdere il suggerimento che viene offerto dal campeggio governativo virtuoso che genera e moltiplica il benessere con una visione diversa, ma ancora una volta i profitti vengono sprecati da queste menti deviate per cercare di sopprimerlo assoldando soldati e altri disperati costretti dalle circostanze a mettersi contro altri disperati perché ogni minima possibilità di migliorare le proprie condizioni rappresenta una minaccia al presunto guadagno momentaneo destinato a fallire in breve tempo e a loro stesso danno.
Steinbeck con questo libro ha provato, con la sua intelligenza ad analizzare il problema e a suggerirci che è la capacità di una visione sociale, generosa, rispettosa del mondo, degli uni e degli altri , lo sguardo lungimirante a rendere il nostro mondo sempre migliore e ricco.

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leogaro Opinione inserita da leogaro    19 Aprile, 2020
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L'odissea dei Joad

Steinbeck prese spunto da articoli di giornale del 1936 che parlavano di centinaia di migliaia di migranti che, abbandonato il Midwest, raggiungevano la California: le loro fattorie, non più redditizie dopo che le tempeste di polvere ne avevano gravemente eroso il suolo, erano state espropriate dalle banche. La storia si divide in tre parti, come il biblico Esodo: prima la siccità vista come la schiavitù, poi il viaggio, infine la lotta per stabilirsi nei nuovi luoghi.

Oklahoma, Stati Uniti, 1936 circa. Le piogge primaverili accelerano la crescita del grano ma, con la successiva siccità e il forte vento, la terra diventa così arida da sollevare polvere ad ogni movimento. Finita la polverosa siccità, il grano è totalmente rovinato. Tom Joad, rilasciato dopo aver scontato 4 anni di carcere per omicidio colposo, sta tornando a casa quando incontra l’ex predicatore Casy, col quale attraversa terre desolate dall'aridità, intuendo l’incombente miseria. Dopo anni di scarsi guadagni, i proprietari terrieri, costretti dalle banche, sfrattano i braccianti dalle loro terre, sostituendoli con più efficienti trattori. Dopo aver letto un volantino in cui si cercano braccianti in California prospettando buoni guadagni, la famiglia decide di abbandonare l'Oklahoma per tentare la fortuna all'Ovest.
A bordo di uno scassato autocarro, comprato da commercianti speculatori, inizia un viaggio verso la California attraverso la Route 66. A partire sono tre generazioni di Joad: oltre ai nonni, ci sono Pa’ e Ma’, il bizzarro primogenito Noah, poi Tom, l’esuberante Al, la giovane Rosasharn incinta e il marito Connie, i piccoli Ruthie e Winfield. Con loro, anche lo zio John e il meditativo Casy. I guasti al camion sono marginali, ma i pochi pezzi di ricambio necessari vengono pagati cari ai rivenditori, che speculano sui prezzi. Durante il lungo ed estenuante viaggio, i Joad incontrano altre famiglie di emigranti tra cui i Wilson, con cui scatta reciproca solidarietà. Una notte, Nonno si sente male e muore ma, non avendo soldi per il funerale, i Joad decidono di seppellirlo sul posto. Proseguendo il viaggio, si incontrano migranti che tornano dalla California, descrivendo la miseria e il clima ostile che hanno trovato lì. I Joad e i Wilson arrivano in Arizona e si accampano vicino ad un ruscello, dove conoscono altri emigranti che ritornano ad Est perché non hanno trovato lavoro. Noah decide di non proseguire il viaggio e fermarsi a vivere di espedienti lì vicino al fiume. Inizia la disgregazione familiare, che Ma’ argina con veemenza. Durante la traversata del deserto, muore anche la Nonna.
Giunti infine in California, la felicità dura poco. La terra è tanta e fertile, ma i braccianti vivono stipati in baraccopoli e con bassi salari per l’eccesso di uomini disposti a lavorare sottopagati. I Joad finiscono in un accampamento di disperati, da cui Connie fugge. La gente dell’Ovest è in fermento: teme l’invasione dei disperati, ritenuti ladri e sobillatori: una notte, i Joad fanno appena in tempo a scappare mentre il campo viene attaccato e dato alle fiamme. Va meglio nel campo governativo di Weedpatch, autogestito da un comitato di migranti: il clima è solidale, le regole vengono rispettate da tutti, ma la polizia osteggia questo campo, ritenuto esempio di vita comunista: così, provoca i migranti di continuo, per indurli ad andarsene. Tom trova lavoro come spalatore, ma il suo salario non basta. Così, i Joad si spostano alla fattoria Hooper per raccogliere pesche: appena arrivati, vedono dei braccianti in sciopero per l’improvviso ribasso delle paghe. Una sera la polizia interviene per disperdere gli scioperanti: gli eventi precipitano, i Joad sono costretti a separarsi e le loro vite prenderanno una piega imprevista.

Nel libro, l'odissea dei Joad è un affresco memorabile del sogno americano, i personaggi sono ben caratterizzati, i temi trattati sono molteplici e rendono uno spaccato realistico, a volte impietoso, della realtà, in una lettura sempre piacevole. E, dopotutto, s'intravede sempre il sole, in fondo al tunnel. Un capolavoro.

Moltissime le possibili citazioni: “Non si può essere proprietari se non si è indifferenti” – “La banca è più degli uomini. È il mostro. Gli uomini la creano, ma non possono controllarla” – “Come sapremo di essere noi senza il nostro passato?” – “Terribile è il tempo in cui l’uomo non voglia soffrire e morire per un’idea” – “Se gli serve un milione di acri per sentirsi ricco, gli serve perché è molto povero dentro. E se è povero dentro, nessun milione da acri può farlo sentire ricco” – “Quando sei giovane, tutto quello che ti capita se ne sta per conto suo… poi un giorno si cambia, una morte è un pezzo di tutte le morti, una nascita è un pezzo di tutte le nascite… allora le cose non stanno più da sole. E un male non fa più tanto male, perché non è più un male che se ne sta da solo” – “Il confine tra fame e rabbia è un confine sottile” – “Gli uomini la vita la portano dentro la testa … noi donne, la vita ce la portiamo sulle braccia” – “Quando stai male o nei ne guai, va dalla povera gente. Soltanto loro ti danno una mano” – “C’era un tempo che avevamo la terra. Era la cosa che ci teneva insieme” – “Per l’uomo la vita è fatta a salti: se nasce tuo figlio e muore tuo padre, è un salto; per una donna è tutto come un fiume, che ogni tanto c’è un mulinello, una secca, ma l’acqua continua a scorrere.”

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maximgandalf Opinione inserita da maximgandalf    15 Aprile, 2020
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Tutti siamo padroni o mezzadri. Tutti siamo "Okie"

..."Le donne guardavano gli uomini, li guardavano per capire se stavolta sarebbero crollati. Le donne guardavano e non dicevano niente. E quando gli uomini erano in gruppo, la paura spariva dai loro volti e la rabbia prendeva il suo posto. E le donne sospiravano di sollievo, perché capivano che andava tutto bene: il crollo non c'era stato; e non ci sarebbe mai stato nessun crollo finché la paura fosse riuscita a trasformarsi in furore."

Questa frase, apparentemente priva di particolare significato, qui violentemente strappata dal suo contesto naturale che è il romanzo in questione, colpisce e stordisce come un colpo in testa il lettore che vi si imbatte nei capitoli finali rinnovando una forza interiore che fa da guida e sostegno a tutta la lettura.

Steinbeck ci ha regalato uno dei romanzi più belli e profondi di tutti i tempi e non leggerlo sarebbe una grave forma di mancanza di rispetto. E forse l'aggettivo "belli" non risulta del tutto aproppriato.
Si perché leggere questo romanzo non è piacevole in senso assoluto e man mano che lo si legge non si prova di certo una soddisfazione interiore, tutt'altro.
Si prova angoscia. Si prova tristezza. Si prova smarrimento. Si prova impotenza. Si prova disagio. Si prova furore.
E allora ci si potrebbe chiedere il perché leggerlo viste le premesse. Il motivo è presto detto:
si nutre anche speranza, si continua la lettura, più volte si vorrebbe entrare "nella vicenda" per portare il nostro aiuto concreto ai personaggi invece che rimanere dei semplici spettatori passivi.
Diventa sottile il confine tra il nostro tempo e quello narrato, tra la nostra vita e quella della famiglia Joad che ha avuto l'onore e l'onere di esserne la protagonista.

Le vicende si svolgono in America, quel paese spesso oggetto dei sogni di tante generazioni, quel paese dove tutto è grande, dove tutto è possibile.

Forse.

Quel paese dove come detto tutte è grande e allora per coerenza è grande anche la miseria, la sofferenza, il soppruso, l'abuso, il depredare, il lottare, il conquistare. Il vivere, ma anche il sopravvivere e il morire.

La famiglia Joad, famiglia di mezzadri (lavoratori della terra per conto dei padroni), vive del frutto del proprio lavoro svolto con grande attaccamento alla terra. Ma le cose sono destinate a cambiare e le tradizioni e la regolarità delle stagioni e dei raccolti e la sicurezza del regolare sostentamento vacillano per l'implacabile ed inevitabile piegarsi all'avanzata della tecnologia, in questo romanzo legata all'avvento dei trattori.
Così dove prima 100 uomini lavoravano a mano un appezzamento sfamando le proprie famiglie adesso un solo uomo con un trattore compie lo stesso lavoro. Wow, un grando beneficio portato dalle macchine ma ad alto prezzo.
E la conseguenza diretta è che non c'è più posto per gli altri.

E così iniziano i viaggi lungo la Route 66 per migliaia di famiglie alla ricerca di un lavoro che possa permetterne il sostentamento in un luogo "dove scorre latte e miele", e la stessa sorte spetta alla famiglia Joad.

Il legame famigliare è l'unico collante che permette alle famiglie di superare le difficoltà ma a volte bisogna resistere all'impulso di voler sopraffare gli altri. La necessità di mangiare mette a dura prova i rapporti con gli estranei, estranei che sono ora amici perché non ci hanno fatto nulla ora nemici perché possono involontariamente privarci di parte del lavoro che potrebbe sfamare la famiglia....perché anche gli estranei devono mangiare.
E in questo gioco del mettere gli uni contro gli altri c'è sempre chi approfitta in modo da trarne un vantaggio economico, potremmo dire anche che qualcuno orchestra e dirige come fosse il copione di un film. Perché è facile comandare dove la miseria la fa da padrona.
Ma questo film è la vita con la sua lotta per essa, la conquista dei propri diritti esistiti fino a ieri e oggi spazzati via quasi in sordina.
Questo film ha un finale ma non ha vincitori e nemmeno vinti.

Le famiglie sono ancora quelle di tipo "patriarcale" con gli uomini che lavorano elevati ad un tacito rango superiore ma in questo gioco del mischiare gli attori anche l'uomo inteso come essere maschile può perdere la propria autorità agli occhi della famiglia ed è qui che le donne raccolgono il testimone rafforzando la propria figura senza mai mettere in ombra quella del proprio uomo.
La famiglia Joad scoprirà l'instancabile forza di Ma', la donna del focolare, il vero riferimento famigliare che saprà assumere di volta in volta la figura necessaria al particolare momento di impietosa difficoltà.

Ma è proprio la difficoltà estrema che insegna a dare sempre di più agli altri anche quando in realtà ne avremmo bisogno ancor prima noi stessi, e Steinbeck ci ha insegnato questo con la scena finale del libro che spiazza il lettore lasciandolo totalmente interdetto e costringendolo ad uno sforzo sovrumano per spazzar via dalla mente una scena così potente da non lasciare scampo.

Uno spaccato di America pungente che ci fa riflettere ancora ai nostri giorni e che ben descrive il modo di pensare della società attuale cui siamo abituati.
Perché se oggi stiamo bene e godiamo del nostro lavoro ci sarà sempre qualcun altro che ai nostri occhi inconsciamente verrà chiamato "Okie" e allora, ogniqualvolta ciò dovesse accadere, facciamoci del bene e rileggiamo questo libro che ci ricorda che tutti siamo padroni, tutti siamo mezzadri, tutti siamo "Okie" e non ci sono ne vincitori ne vinti.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    27 Gennaio, 2020
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The Grapes of Wrath

Un'opera monumentale: affresco di un'America che gli americani stessi tendono a celare.
Fu proprio per le verità scomode che descrive che “Furore", quando fu pubblicato, divenne oggetto di aspre polemiche; in Italia fu addirittura sottoposto a una rigida censura del regime fascista, perché considerato un libro “sovversivo”. Tutto questo non gli impedì di diventare un best-seller.
I fatti descritti in questo romanzo non sono certo piacevoli: ambientato nel Midwest americano intorno agli anni '30, narra l'esodo della famiglia Joad che, come tanti altri contadini, si vede strappare la terra dalle banche e da quella chimera chiamata “trattore”. I mezzadri saranno dunque costretti a emigrare, attratti da quella che viene descritta come una "terra in cui scorre latte e miele": la California. Incentivata da possibilità lavorative che sembrano abbondanti e promettenti, l’emigrazione dei Joad si rivela invece una tragedia senza fine; un mezzo con cui Steinbeck denuncia il lato più spietato di un’America talmente concentrata sul proprio profitto da perdere ogni umanità, da risultare crudele nei confronti di quella parte del popolo che con la terra aveva un legame ancestrale. Questa povera gente, oltre a vedersi strappato tutto ciò che aveva, è poi costretta a sopportare la fame, il vagabondaggio coatto, gli insulti e i soprusi. Uomini che non vogliono altro che sfamare sé stessi e i propri figli vengono trattati come ladri; costretti a spaccarsi la schiena per pochi centesimi, a sopportare le intemperie e privazioni di ogni tipo.
Questa assurda realtà, seppur confinata in un'epoca e un contesto preciso, contiene in sé riflessioni che sono più attuali che mai. Perché forse non ci troviamo e non ci troveremo nelle condizioni della famiglia Joad (o almeno speriamo che sia così), ma i lati scabrosi dell'animo umano che li costringeranno a tale miseria sono qualcosa che non abbiamo debellato e non debelleremo mai, e quando diciamo a noi stessi che il peggio della storia non dovrà ripetersi, lo facciamo per la spaventosa consapevolezza che questo non solo è possibile, ma altamente probabile. È per questo che “Furore" dovrà continuare a essere letto: per riportarci alla mente quelli che sono state e possono essere le conseguenze del nostro egoismo e della nostra avidità; per perpetuare il ricordo delle pagine più vergognose della nostra Storia. Perché la vergogna non va dimenticata, e non per fare penitenza sui peccati di chi è venuto prima di noi, ma per lasciar germinare la consapevolezza che deve guidarci in ogni nostra azione; per non diventare oppressori e non macchiarci del sangue di innocenti, ché si uccide anche senza "spada" e delle volte lo si fa anche per semplice leggerezza. E se fossimo noi gli oppressi, questa lettura potrà ricordarci che al mondo ci sarà sempre qualcuno come noi e che insieme siamo forti; che i grappoli del nostro furore possono abbattere qualsiasi nemico.
“Furore" è una lettura emozionante, poetica, maledettamente avvolgente nella sua tristezza, una tristezza che lascia comunque intravedere quel barlume di speranza che viene fuori solo quando tocchiamo il fondo, perché è nel fondo che le nostre qualità migliori tendono a nascondersi.

P.S. Guardate anche il film di John Ford con Henry Fonda. Un po’ diverso, ma comunque molto bello.

“Gli affamati arrivano con le reticelle per ripescare le patate buttate nel fiume, ma le guardie li ricacciano indietro; arrivano con i catorci sferraglianti per raccattare le arance al macero, ma le trovano zuppe di cherosene. Allora restano immobili a guardare le patate trascinate dalla corrente, ad ascoltare gli strilli di maiali sgozzati nei fossi e ricoperti di calce viva, a guardare le montagne di arance che si sciolgono in una poltiglia putrida; e nei loro occhi cresce il furore. Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.”

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David B Opinione inserita da David B    22 Dicembre, 2018
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Quando il sacrificio non porta a nulla...

Economia, società, politica, e umanità. Questi sono gli ingredienti, le tematiche, i macrotemi a cui puoi ricondurre lo straordinario lavoro di Steinbeck, premio Nobel del 1962.
Fin dalla prima pagina di “Furore” si ha da subito la sensazione di non essere di fronte a un libro qualsiasi. È un drammatico dipinto della crisi sociale che coinvolse l’America a seguito della Grande Depressione del 1873 in cui il settore agricolo, quello più colpito perché ancora fondamentale, perse ogni punto di riferimento. La medesima cosa accadde drammaticamente alle persone che ne facevano parte. Tom Joad e la sua famiglia appartengono a questo ceto, duramente colpito. Soppiantati dai trattori, sfrattati dalla loro casa, si ritrovano depravati di ciò che loro hanno costruito con le loro stesse mani e costretti a fuggire in balìa degli eventi in una società, quella americana, ancora incapace di far fronte alla disuguaglianza e all’ingiustizia sociale che diventerà la cifra distintiva di quella realtà. E di questo libro. Perché “Furore” è uno squarcio di verità e realtà. Apre gli occhi, apre la mente, apre le coscienze.

Ed ecco che allora inizia un lungo e tragico viaggio in un climax di sofferenza che il lettore non può non avvertire. Si rimane attoniti e sopraffati dai vertici di emozioni suscitati dalle penna di Steinbeck. Oltre seicento pagine di pura avventura. Oltre 600 pagine di pura adrenalina. Dove si viene a conoscenza della rabbia, del furore (appunto...) di una parte di popolo. Si apprende infatti la fosca visione del ceto lavoratore e operaio verso le banche, la finanza, le grandi aziende il cui scopo, come si sa, è la massimizzazione del profitto. Il che significa incrementare la produttività e, in conclusione, la sostituzione dell’uomo con la macchina incuranti delle conseguenze sociali che ciò comporta; la competizione verso il lavoro che genera una grande domanda a fronte di un’offerta manuale e bisognosa di manodopera sempre più bassa. Questo determina un salario bassissimo per i lavoratori. È la corsa alla sopravvivenza. La famiglia Joad si ritroverà costretta a vivere ‘alla giornata’, a lottare per raccogliere l’uva, le pesche e infine il cotone per pochi centesimi all’ora. Necessari per quella poca carne, per quel tozzo di pane che permette loro di arrancare e andare avanti.

E quando si ci ritrova a lottare per sopravvivere ognuno si sente un peso per l’altro: la coesione famigliare verrà messa a dura prova e verrà alla fine salvaguardata, per quanto possibile, dalla donna. “Ma’”. Viene chiamata così nel racconto, la figura femminile più rappresentativa - per sua natura - che si porterà sulle spalle l’intera famiglia, incitando al sacrificio, alla sopportazione e alla fatica.

È con questa famiglia, con questo ritratto economico e sociale che Steinbeck lancia il suo grande j’accuse alla politica rea di non aver saputo governare il cambiamento e di aver abbandonato il ceto più povero a se stesso, ampliando le disuguaglianze. Pertanto è difficile immaginarsi un finale positivo per la famiglia Joad. Dopo 600 pagine si comprende la grande tensione sociale che si viveva in quel tempo, inevitabile quanto drammatica. Dopo 600 pagine si rimane attoniti nell’osservare l’incontrovertibile scorrere degli eventi che più si diradano nel racconto, più lasciano dietro di sè una frattura sempre più profonda nel tessuto sociale del paese e in quello intimo delle famiglie.

Ed ecco che allora si arriva all’umanità, l’unico ingrediente rimasto. Di valore. Merce rara e unica. Merce non commerciale appunto. E il gesto più alto di umanità non verrà fatto nei confronti della nostra sventurata ed emblematica famiglia che pure lo meritava dopo un viaggio di pura sofferenza, immensa frustrazione, vana dedizione, false speranze e sacrifico non ripagato. Eppure sarà la famiglia stessa a offrire, con il loro bene più grande che è rimasto in un tempo così difficile, il più grande gesto di umanità nei confronti di uno sconosciuto che sta per lasciare questo mondo dimenticato da tutti. Ma non dai Joad. Loro no. Poveri, sfiniti, malnutriti e maltrattati regalano umanità e dolcezza. Ed è nella potenza di quell’atto che nasce il sorriso, la condivisione e la speranza. Steinbeck ci insegna che l’uomo è di più, vale di più e può dare di più di ciò che sembra avere. Nonostante tutto. Ma è proprio per questo che nasce la rabbia anche - e sopratutto - in noi lettori, impotenti a ciò che stiamo leggendo e in balìa del racconto, che era la realtà di quel tempo, della famiglia Joad. Nasce il furore in noi e in loro.

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Niki Opinione inserita da Niki    03 Settembre, 2018
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Senza speranza

Grande romanzo! La tragedia di migliaia di uomini che, negli anni '30, emigrano in massa verso la California, pieni di speranza, abbagliati da volantini che promettono il tanto agognato lavoro. Cacciati dalle loro terre dalle banche, imbrogliati dai venditori d'auto, caricano le cose essenziali su mezzi di fortuna e partono. La visione generale di questo esodo di massa si alterna alle vicende dei Joad: sono contadini ignoranti ma con una filosofia di vita grezza e onesta. Vogliono lavorare per mantenere la famiglia, li offende la carità; hanno una forte dignità e, soprattutto, una grande solidarietà, quella che gli fa dividere il poco cibo con chi ne ha ancora meno, che gli fa prestare soccorso spontaneamente, senza chiedere nulla. Arrivati in California, dopo un viaggio massacrante, sono male accolti senza comprenderne il motivo. I 'brutti e cattivi' si contrappongono alla grettezza umana dei capitalisti: le banche e i proprietari terrieri che li sfruttano. Con una scrittura rude e coinvolgente che permette di vivere la stessa vita della famiglia, di essere con loro su un camion scassato, nella tenda, nelle piantagioni a lavorare, sotto il sole rovente e sotto il diluvio. Un'epopea senza speranza dove i 'buoni' perdono.

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annalisafr Opinione inserita da annalisafr    28 Agosto, 2018
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ANCH'IO PROVO FURORE

Lo annovero tra i più bei libri che io abbia mai letto.
Furore porta il peso della sofferenza umana, dell'ingiustizia, della sopraffazione, dello sfruttamento, ma anche della speranza di un riscatto, purtroppo concesso non a tutti.
E' un libro che ho letteralmente divorato in due giorni e lo stile con cui è scritto è davvero magnifico, è stato assolutamente naturale immedesimarsi nei personaggi e nella loro lotta per la sopravvivenza.
Il contenuto è talmente forte che non può non far riflettere.
Siamo sicuri che Tom Joad sia solo un americano dell'Oklaoma disposto a raccogliere pesche per pochi centesimi pur di sfamarsi? Tom Joad per poter sopravvivere, ha voluto, ha dovuto credere in una terra promessa ed ha affrontato l'attraversamento di un continente, fra cui un deserto, su una carretta, mettendo in pericolo la sua vita e quella della sua famiglia, per arrivare dove non era voluto, dove non c'era lavoro, dove veniva sfruttato e se possibile picchiato e umiliato per raccogliere pomodori per pochi centesimi.. ops scusate stavolta erano pesche giusto?
E' forte il grido di dolore di esseri umani, a cui è stata tolta la dignità e soprattutto l'umanità, esseri umani per i quali non si riesce nemmeno più a provare pietà, solo fastidio. Perchè vederli ci mette davanti alla nostra responsabilità, al nostro errore. Il fastidio almeno è quel briciolo di coscienza che non siamo ancora riusciti a zittire, tranne quando decidiamo di voltare la testa dall'altra parte.
Possiamo dire davvero di non aver nulla in comune con le famiglie californiane che si vedevano arrivare nella loro terra migliaia di disperati in cerca di lavoro e cibo?
Talvolta non sarebbe sufficiente piangere tutte le lacrime del mondo per le ingiustizie che ci circondano, ma Steinback ci vuole lasciare con un forte messaggio di speranza, creando un finale davvero coraggioso, che è anche alla base di tutto il messaggio di speranza del libro, ovvero la vera comprensione e l'aiuto arrivano da chi ha provato la sofferenza sulla propria pelle. Tutto il resto è profitto.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    18 Settembre, 2017
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Straordinariamente attuale!

Un pugno nello stomaco: ecco che cosa sentivo a ogni pagina di questo lungo e intenso romanzo. Perché “Furore” è un libro che fa male, molto male. Induce a pensare, riflettere, interrogarsi. Per poi lasciare un misto di amarezza, disgusto e – manco a dirlo – rabbia.
Con un impressionante realismo, fin da quel “in principio fu la polvere” (con cui mi piace riassumere il primo capitolo), Steinbeck ci scaraventa in un pezzo d’America della Grande Depressione, dove le parole della Dichiarazione d’Indipendenza dell’ormai lontano 1776 riecheggiano come mera utopia e autentica beffa:
“[…] che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità […]”
Al seguito della famiglia Joad, tra le centinaia di migliaia di diseredati che all’epoca, con i loro vecchi catorci, inondavano la Route 66 alla volta della novella terra promessa della California, ci si rende conto che il cosiddetto “American dream” non è mica roba per tutti; di certo, non per i contadini cacciati dalla dura legge del profitto economico delle banche e dall’avanzare dei trattori, sospinti dalla fame e dai capricci del tempo, accampati ai margini dell’opulenza altrui, calpestati e sfruttati dal disprezzo. La vicenda narrata è nota, fortuna e vicissitudini dell’opera e del suo autore pure. Che cosa si può dire o scrivere di questo che, a ragione, è stato inserito tra i dieci migliori libri del XX secolo che ancora non sia già stato detto o scritto? Mi sento soltanto di sottolineare la straordinaria attualità che ho trovato nella lettura di queste pagine, a dispetto del tempo e dello spazio di ambientazione:

“Nell'Ovest si diffuse il panico di fronte al moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame videro gli occhi degli affamati. Uomini che non avevano mai desiderato niente videro la vampa del desiderio negli occhi degli emigranti. E gli uomini delle città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro. Dicevano: Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali, sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri. Rubano qualsiasi cosa. Non hanno il senso della proprietà. E su quest'ultima cosa avevano ragione, perché come può un uomo senza proprietà conoscere l'ansia della proprietà? E i difensori dissero: Sono sporchi, portano malattie. Non possiamo lasciarli entrare nelle scuole. Sono stranieri. Ti piacerebbe veder uscire tua sorella con uno di quelli?”

Sostituiamo “Okie”, termine con il quale i californiani chiamavano sprezzantemente i nuovi arrivati dall’Oklahoma, con africani, asiatici, siriani etc. o, più in generale, immigrati (a suo tempo, avrebbe reso bene anche la parola meridionali); la Route 66 con la rotta mediterranea o con le polverose strade lungo i Balcani: ecco che dagli Stati Uniti degli anni Trenta del secolo scorso ci ritroviamo di colpo nell’Europa dei giorni nostri, dinnanzi al dramma dell’emigrazione che abbiamo sotto gli occhi e a tutte le nostre paure. Paura perché loro hanno fame, paura perché sono tanti, troppi, “un’invasione”, giusto per riprendere un’espressione usata abitualmente; paura perché “quando una moltitudine di uomini ha fame e freddo, il necessario se lo prende con la forza”. Può accadere, se tale moltitudine vede e subisce torti e ingiustizie che calpestano la dignità degli esseri umani.
Una storia di profondo dolore, dove dire che la vita è dura è semplice eufemismo. È però, nel contempo, anche una storia di speranza in un futuro e una umanità migliori; e dalle parole di commiato di Tom Joad, seppur frammista a tanta amarezza, essa traspare tutta.

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Bipian Opinione inserita da Bipian    14 Marzo, 2017
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Lottare con Tom Joad

Cercando ispirazione dalla ballata di Bruce Springsteen "The ghost of Tom Joad" ripenso ad un romanzo che ha fatto la storia della letteratura americana.

L'opera è grandiosa per significato e universalità e mi confonde. Ripenso al viaggio disperato che la famiglia Joad, fatta da brava gente, semplici mezzadri, sfrattati dalla falciatrice meccanica, è costretta a compiere dalla polvere sterile dell'Oklahoma a quella che dei volantini distribuiti a pioggia favoleggiano come la terra promessa: la California, terra ricca, fertile, di interminabili filari di alberi da frutta, dove ci si può rimpinzare di tutto ciò che si vuole, fare facili quattrini, deporre la falce e vivere una vita decorosa in una bella casa, mandando i figli a scuola e tutto il resto.

E' questa speranza che muove gli animi dei Joad e li getta sulla strada una manciata di decenni prima che Kerouac e la beat generation ne facessero una moda. Qui le motivazioni del viaggio sono molto più prosaiche: si è in tanti (una decina tra nonni, zii e figli) e si deve campare.

La brutalità con cui la meccanizzazione agricola ha espulso i contadini dalle loro terre, le stesse che magari gli avi avevano strappato agli indiani, si manifesta nell'avanzare inesorabile della falciatrice che traccia dei solchi tremendi sulla terra, la terra che ora non è più di chi la lavorava da generazioni e la viveva, si inebriava dei suoi profumi, la conosceva, la temeva e la rispettava; muore la tradizione e l'esperienza millenaria della coltivazione della terra per far posto a macchinari mostruosi, enormi, governati da uomini che per tre dollari al giorno sono disposti anche a demolire le abitazioni dei mezzadri, che impotenti restano a guardare.

Le banche, le corporazioni, le grandi aziende che già negli anni immediatamente successivi al '29 reggono le sorti degli Stati Uniti, vengono descritte al lettore come le vere responsabili di questa catastrofe, da cui non si vede via d'uscita se non l'esodo, la fuga ancora una volta verso il West.

Così la mitica Route 66 si riempie di automobili e mezzi di fortuna malconci e rattoppati, riempiti all'inverosimile di masserizie e materiale umano. Il flusso è lento e univoco, nessuno torna indietro. Ricoveri e tende di fortuna per passare la notte, poche provviste e i risparmi di una vita che se il viaggio dura troppi giorni finiscono. E come putroppo avviene sempre con gli esuli, nessuno li può aiutare, sono in troppi, c'è diffidenza, molti non pagano, alcuni potrebbero rubare.

E mentre scorrono i maestosi paesaggi americani, le grandi pianure dell'Oklahoma e del Texas, i deserti e i bastioni rocciosi del Nuovo Messico e dell'Arizona, i Joad non hanno occhi per vederli, ma devono prestare orecchio al rombo del motore, tenere gli occhi fissi sulla strada per evitare eventuali buche: un asse rotto o il foramento di un pneumatico potrebbe significare la rovina.

In effetti di guasti e di ben più gravi lutti ne accadranno molti, ma l'ostinazione e il carattere di alcuni personaggi memorabili quali tra tutti Tom Joad, fiero e mosso da un senso primitivo di rabbia e giustizia, e la mamma, vero capo del clan, disperatamente lucida e determinata, guiderà a destinazione la famiglia, o ciò che ne resterà, e li farà compiere delle scelte, spesso estreme, come le loro condizioni.

E' facile immaginare come la California invasa da orde di profughi non si rivelerà la terra promessa, ma anzi rappresenterà la tappa conclusiva e peggiore del viaggio. Polizia che incendia i campi degli odiati "Okies", padroni di frutteti che s'avvantaggiano della disponibilità esorbitante di manodopera per dimezzare i salari, arresti degli agitatori "bolscevichi e nemici della patria", non appena qualcuno tenti di organizzare una protesta.
E' uno scenario apocalittico, eppure descritto attraverso la semplicità e la dignità di una famiglia onesta. Non c'è tempo per piangersi addosso, o per piangere le morti che pure avvengono attorno ai Joad, occorre essere lucidi per sopravvivere, lavorare per mangiare e per garantirsi un futuro migliore. In fondo questa speranza non muore mai, è il filo conduttore del libro; come non leggervi l'ottimismo dell'uomo americano che è disposto a sacrificare la sua stabilità e a mettersi in gioco per tentare, per farcela, per essere migliore.

Alla fine così come spariscono gradualmente molti personaggi del romanzo, anche di Tom Joad si perdono le tracce. E così egli assurge a simbolo. Lo si può immaginare a capo di un manipolo di braccianti, a rivendicare e a ottenere un salario decente, o molti anni dopo il suo spirito a manifestare contro il Vietnam o contro l'assassinio dei fratelli Kennedy, o davanti ai carri armati di Piazza Tienanmen. Se la mamma fino alla fine bada a tenere unita la famiglia, impresa disperata, visto lo scatenarsi di forze centrifughe che tendono continuamente a disperderla, l'adorato suo figlio Tom dovrà tenere uniti gli uomini sotto le insegne della protesta, che di lì a poco non tarderà ad esplodere.

Un capolavoro di perenne attualità, che ci ricorda che i profughi e gli aguzzini siamo noi, che la storia si ripete, e che dovremmo essere grati e consapevoli di ciò che abbiamo, finché ce l'abbiamo. E' un racconto che ci indigna per le ingiustizie che il sistema capitalistico già quasi un secolo fa produceva, ci ammanta di furore e fa venire la voglia di unirci e lottare ancora una volta con Tom Joad per un mondo sostenibile, un'agricoltura rispettosa della terra e dei suoi tempi, delle condizioni di lavoro eque e soprattutto il rispetto e la dignità delle persone.

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siti Opinione inserita da siti    03 Ottobre, 2016
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CITTADINO DEL MONDO

Andrò a parlare del libro conosciuto ai più attraverso la traduzione censurata restituita nell’acerbo 1940, coraggiosamente, dalla Bompiani e dal suo traduttore Carlo Coardi.
Il 2013 ha visto nascere una seconda volta il romanzo, sempre in casa Bompiani ma con una traduzione fedele, a quanto dicono gli esperti, al testo originale. Non essendo capace di una lettura in lingua , ritrovandomi in casa il testo in prima traduzione italiana, quello ho fruito.
Ebbene, ho letto un romanzo che restituendomi una geografia e una storia ben circoscritte al sud degli Stati Uniti, negli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione, mi ha però prepotentemente rimandato all’orribile presente che viviamo ora, in Italia, in Europa, nel mondo intero.
I processi migratori non sono eventi eccezionali che segnano epoche ben definite, la storia insegna tutt’altro. Questo romanzo ha il potere di rappresentare attraverso le vicissitudini migratorie della famiglia Joad il sentimento di possesso, di identificazione, di esclusività che proviamo quando pronunciamo le parole “la mia casa”, “la mia terra”, “la mia patria” e quando strenuamente le difendiamo da oscure e generalizzate minacce e quando , in posizione meno felice e sicuramente più sofferta, un qualche evento ci strappa ad esse. Potrebbe anche non essere la necessità di sfamarsi, di trovare lavoro per farlo, e sì che lo hanno fatto i nostri nonni e nella mia terra lo fanno ancora i giovani, perfino per studiare; potrebbe semplicemente essere un evento che si definisce straordinario ma che di fatto quando arriva in quella situazione ti fa vivere (un terremoto? un’alluvione? una catastrofe nucleare?...non so). Ebbene allora tutti saremmo capaci di capire cosa significa non avere più la casa, il lavoro, la sicurezza e dover trovare una soluzione per ripristinare una situazione, la più accettabile possibile. Chi di noi non lo farebbe? Chi non cercherebbe un futuro migliore? Chi non offrirebbe speranza ai propri figli?

La famiglia rappresentata lo fa, subisce, patisce, cerca, trova e perde. Perde membri della stessa famiglia, perde consuetudini e con esse valori etici, perde la speranza di un’illusione, si scontra con fatica, povertà, sottomissione, odio e mantiene viva la volontà di sopravvivere. Ci sono due personaggi in particolare che tengono alta la speranza: Tom e la mamma; gli altri- a contorno- definiscono un quadro sociale in decadenza. Può essere il capofamiglia defraudato dal suo ruolo che subisce la capacità organizzativa della moglie e il potere decisionale che essa assume gradualmente, può essere la giovane figlia che paga il prezzo dell’illusione dell’amore con una gravidanza in solitudine , oltre che precoce, può essere un pastore che ha nutrito la sua vocazione con la Bibbia e si ritrova a organizzare il diritto allo sciopero della massa di braccianti. Mi è piaciuto tanto questo libro, a prescindere dal contesto socio-culturale ed economico che lo ha nutrito, a dispetto delle critiche che lo hanno tinto di rosso, a dispetto della traduzione italiana che lo ha restituito monco ma comunque potente. Non sono in grado di esprimere considerazioni sullo stile autentico ma ciò che ha traslato Coardi è sufficiente per capire, eccome. Qui il contenuto è più importante, il messaggio di speranza che traspare ( e spero non sia buonismo italiano in chiave fascista), la forza dei dialoghi e delle immagini. Da leggere e se si ha curiosità comparando le due traduzioni. Non provate però a comparare i tempi, quelli, ahimè, non mutano mai.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    14 Giugno, 2016
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Il finale più bello di tutta la letteratura

Non mi sento assolutamente all'altezza di fare una recensione di un romanzo di tale portata, ma, nello stesso tempo, non riesco proprio a non dire nulla e a tenermi dentro tutto quello che sento...quindi ci provo!
Fin dai primi capitoli si intuisce che il libro sarà un capolavoro: i personaggi sono molto intensi e decisamente vivaci in ogni loro espressione, le descrizioni della natura sono dettagliatissime ( io non le amo molto pur riconoscendone il valore).
Si percepisce la rabbia di chi si vede sottrarre da sotto i piedi la terra dove è nato, dove ha lavorato, sudato, pianto, gioito...la rabbia di chi non possiede nulla, ma è costretto a rinunciare anche a quel nulla!!!
Ho adorato sentir parlare i nostri protagonisti, con la loro "ignorante saggezza" che me li ha fatti percepire come uomini e donne veri, veraci, spesso costretti a metter da parte i sentimenti per esigenze di sopravvivenza, per mancanza di mezzi...ma senza perdere mai la loro dignità!
Il pregio di questa gente è che, per quanto povera e per quanto disgraziata, è onesta...e quando parlo di onestà mi riferisco anche e soprattutto a quella morale!
Ci sono tantissime immagini capaci di smuovere qualcosa dentro e lo fanno senza l'ausilio di frasi poetiche e sentimentali, ma servendosi solo della genuinità della "pancia vuota", della generosità di qualcuno ancora capace di un gesto di carità, di solidarietà, del cuore grande di chi non ha più nulla.
Grande, grandissimo il personaggio di Ma' (colonna portante di tutto il romanzo)...e il suo coraggio per essersi opposta continuamente alle decisioni "degli uomini" in un epoca in cui questo tipo di comportamento era inammissibile!
Ma la paura di vedere la propria famiglia smembrarsi (quando è l'unica cosa che ti rimane!), fa fare alle mamme cose impensabili...e meravigliose!!!
Quando ho finito di leggere "Furore" sono stata male, veramente male...
Non dico di aver auspicato ad un lieto fine, per carità, ma mi aspettavo un minimo di luce in fondo al tunnel...anche se, forse forse, quella luce in fondo si manifesta proprio nella scena finale: amara, amarissima, ma al contempo con una grandissima forza simbolica.
Quello che doveva essere il nutrimento di chi "non ce l'ha fatta" diventa salvezza per chi "può ancora salvarsi".
Struggente...
Steinbeck ti lascia in sospeso...ti fa vivere nella polvere e nella miseria insieme ai Joad, ti fa "accoccolare sui talloni" insieme a loro, ti fa soffrire la fame, il freddo, ti fa provare quel "furore" che annebbia il cervello, te li fa amare profondamente...e poi...???
Questa è l'unica cosa che non riesco a perdonargli...

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paola melegari Opinione inserita da paola melegari    20 Settembre, 2015
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L'ALTRA AMERICA

Un romanzo verità, dal contenuto emozionante .
Lo stile gergale, permette ai personaggi di prendere vita in modo naturale e spontaneo.
L’affascinante John Steimbeck, che ci guarda sornione in quarta di copertina, ha preso spunto e materiale,per questo romanzo, da alcuni articoli pubblicati nel 1936 nel ’ San Francisco News’, quando a migliaia, i coltivatori del Midwest si erano riversati in California.
Le loro condizioni di vita erano a dir poco, misere e disperate.
Sfrattati dalla loro terra, erano quasi tutti mezzadri.
Vendute tutte le attrezzature agricole , animali, e vettovaglie in esubero per pochi centesimi, dopo aver assistito alla demolizione delle loro abitazioni, caricato l’indispensabile su auto o camion, si sono messi in marcia verso la Route 66, meta: California.
A causa dell’impoverimento del terreno, dovuto alle tempeste di polvere ( ricordo John Fante,’’ chiedi alla Polvere’’) le banche si erano a poco a poco impadronite delle proprietà agricole e in blocco tutti i mezzadri
dovettero abbandonare le loro terre .
La Chimera si chiamava California, con le sue meravigliose coltivazioni, i suoi pianali verdeggianti, le colline cariche di vigne, peschi e ogni altro ben di Dio.
La famiglia Joad, la protagonista di questa storia, parte come tanti altri verso la terra promessa, che si rivelerà ben presto una terra inospitale soprattutto verso gli Oakies, un modo dispregiativo di chiamare quegli antichi migranti.
Necessari per la raccolta, ma così fastidiosi, sporchi, incivili. Nomadi per necessità, sporchi per il lungo viaggio e per le condizioni di vita disumane.
La famiglia Joad ci rivela il vero volto di questi disperati, senza diritti civili e nessun tipo di assistenza, in balia dei ricchi latifondisti che vista la grande domanda di lavoro, li sfruttano fino all’osso, riempiendo le loro straripanti tasche e spolpando la linfa vitale ai braccianti. La maggior parte di quest’ultimi vedrà la morte dei propri figli per denutrizione e malattia.
I nostri protagonisti riveleranno la loro indole, onesta, caritatevole, e nel loro piccolo, una grande filosofia di vita.
Il personaggio che più ho stimato in questo bellissimo romanzo è Ma’, della quale non ci è rivelato nemmeno il nome di battesimo.
E’ la colonna portante di tutta la famiglia, ci rivela il suo carattere volitivo e la sua nobiltà d’animo.
Il figlio Tom ( interpretato nel film di John Ford, da un giovane Henry Fonda) è forse il personaggio principale, figura simbolica dell’America messa in ginocchio dalla grande depressione.
Le ultime righe del testo lasciano una profonda commozione: dal più disperato dei disperati può ancora scaturire la carità per chi è, se possibile, più disperato.
A sprazzi l’autore ci rivela il suo stile di giornalista, di scrittore, ma soprattutto si percepisce la sua attenzione sensibile e acuta per il sociale.
Solo oggi possiamo leggere nella nostra lingua la traduzione integrale di S.C. Perroni, ( dopo settant’anni )che ci permette di seguire i dialoghi con la forza e la modernita’ del grande autore Americano.
I l romanzo fu visto come un’opera comunista e sovversiva, cosa che si rivelò falsa.
Mi piacerebbe sottoporvi alcuni virgolettati , ma non mi piacciono le recensioni troppo lunghe, visto che consiglio a tutti di legger questo libro, a voi scovare le pagine più belle o più significative.
Nel 1939 il futuro premio Nobel John Steimbeck, vinse il National Book Award e il Premio Pulitzer.
Merita la nostra attenzione di qlibristi. Sinceramente mi vergogno un po’ per non averlo letto prima!

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FANTE- MILLER -MARQUEZ
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    24 Giugno, 2015
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Non siamo i primi.

SPOILER

The Grapes of Wrath - più o meno "le vigne della rabbia" tradotto in italiano con "Furore" - esce nel 1939 (fra parentesi, fino al 2013, l'unica traduzione italiana disponibile è stata quella di Carlo Coardi datata 1940, densa di toscanismi e soggetta alla "revisione" del regime fascista. Pare impossibile, ma per 73 anni è andata bene quella).
Steinbeck narra la storia di una famiglia di agricoltori – i Joad – rovinati da intemperie varie e – soprattutto – dalla crisi economica e della loro migrazione dall'Oklahoma alla California.
Questa storia, pur scolpendo personaggi che ti rimangono dentro la mente quasi "a forza" (la mamma, Tom, il nonno, Zio John, Noè, Sairy Wilson, Casy…), diventa quasi subito una tragedia universale dell'umanità.
Una tragedia greca calata in un esodo biblico.
Il tutto scritto da Steinbeck.
Con le sue frasi brevi. Virgola - punto e virgola - punto. Mai una parola di troppo, mai l'effetto facile. Mai la lacrima in tasca (anche quando – oh sì – ne avresti proprio bisogno), mai un sospiro di sollievo. Steinbeck si "concede" molto in questo romanzo, appare, qua e là (a volte si prende interi capitoli, in mezzo alla narrazione) e fa il coro della tragedia greca. Ti mette una mano sotto il mento e ti costringe ad alzare la testa.
A guardare.
Non è la famiglia Joad quello che stai leggendo. È l'umanità. Sei tu.
Qui hai i bambini che muoiono di fame, dall'altra parte del recinto stanno bruciando le arance per tenere alti i prezzi. Se qualcuno si avvicina per prenderle gli sparano. Se non le bruciano le cospargono di petrolio, in modo che, se anche qualcuno riesce a "rubarle" senza farsi sparare, non le possa mangiare.
Non è in Africa, non è lontano. È il cortile di casa tua. E potresti essere indifferentemente quello che brucia, quello che spara, quello che "ruba". Vedi tu. E scegli bene.

Il "protagonista" è il giovane Tom Joad, che ritorna a casa dopo alcuni anni trascorsi in prigione (coinvolto in una rissa, aveva ucciso con un badile l'uomo che lo aveva accoltellato). Solo che a casa sua non trova nessuno. Un ex-predicatore, Casy, incontrato per strada, gli spiega che l'avvento delle "trattrici" e dell'agricoltura "meccanizzata" sta spazzando via intere famiglie di contadini, che migrano in massa verso la California. Opuscoli colorati, inneggianti ad un'incredibile prosperità e ricchezza, esortano gli agricoltori a mettersi in viaggio. Un altro incontro fortuito, con Muley, un vicino, informa Tom che la sua famiglia si è recata presso lo zio John (fratello del padre) quando la banca ha deciso di esigere i soldi dell'ipoteca senza aspettare un buon raccolto.

"Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un essere umano. È il mostro. L'hanno fatta degli uomini, questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo."
(Suona familiare anche questo, no?)

A casa dello zio, Tom ritrova il babbo e la mamma, i fratelli Noè e Al (già adulti), la sorella Rosa Tea e suo marito Connie, e i piccoli Ruth e Winfield, il nonno e la nonna.
La famiglia è sbalestrata dalle brutte novità che sta vivendo, ma appare unita e solidale. Felice del ritorno di Tom e in fondo speranzosa verso il futuro. Mentre gli uomini appaiono confusi ed incerti, la mamma è – e lo sarà per tutto il romanzo – la vera colonna di forza della famiglia.
La prima parte del libro – l'addio all'Oklahoma e il viaggio verso la California è un lento e continuo pianto trattenuto. Dai vari venditori che approfittano della disperazione e della fretta di partire dei Joad, al dolore di lasciare la propria casa, la propria terra, la propria vita.
"Come è possibile vivere senza le cose che sono la nostra vita? Spogli del nostro passato non ci riconosciamo. Fa niente, non c'è posto, bisogna lasciarlo, bruciarlo." Qui è nuovamente "Steinbeck" a parlare, non un personaggio. Ma è con gli occhi della mamma che viviamo il primo struggente addio.
"Da una delle cassette che serviva anche da sgabello, trasse una cartella, di quelle che servono alla corrispondenza; decrepita, sudicia, sdrucita agli angoli. Si sedette e l'aprì. Conteneva vecchie lettere, fotografie, cartoline illustrate, un paio di orecchini, un sigillo d'oro e una catenina d'orologio. Palpò leggermente le lettere ad una ad una, e lisciò un ritaglio di giornale che dava il resoconto del processo di Tom. Per vari minuti continuò a toccare quelle reliquie, mordicchiandosi il labbri inferiore, immersa nei ricordi. Alla fine si scosse, prese il sigillo, la catenella e gli orecchini, e frugò fra le carte finché non trovò un gemello da polsini. Mise questi oggetti un una busta, la piegò e la ripose in una tasca del vestito. Poi chiuse la cartella e la lisciò ancora una volta con tenerezza. Finalmente s'alzò, prese la lanterna e tornò in cucina. Aprì lo sportello della stufa e posò dolcemente la cartella sui tizzoni ardenti. Subito il calore annerì la carta e una fiamma si sprigionò per lambirla."
Gli altri addii si susseguiranno molto velocemente: appena dopo la partenza toccherà al cane di casa investito da un'auto, e pochissimo dopo al nonno, che non avrebbe voluto partire. Seppellito lungo la strada, unico atto d'amore concesso: un pezzetto di carta con sopra scritto il suo nome. Poi toccherà alla nonna, poco prima di arrivare in California, anche lei sepolta in fretta e furia.
Poi perderemo Noè, che non muore, ma semplicemente, forse, prevede quello che accadrà e decide di rimanere a vivere accanto a un fiume "come un selvaggio". Poi scapperà anche Connie, lasciando Rosa Tea incinta e disperata.
Poi perderemo anche l'ex-predicatore, Casy, ucciso da un poliziotto, mentre guida uno sciopero di contadini. Prontamente vendicato da Tom, l'atto costringerà anche lui a lasciare la famiglia.
E il libro si conclude di fatto con il bambino di Rosa Tea, nato morto, ed affidato da Zio John alle acque di un fiume in piena che si è portato via le ultime speranze dei Joad.
"Va', naviga e vendicaci! Raccontalo a tutti. Marcisci! Solo così riuscirai a farti sentire."

Al viaggio segue la disperazione di scoprire una realtà molto diversa da quella descritta dai volantini: una terra indubbiamente ricca e fertile (diversamente dall'Oklahoma), ma assoggettata alle regole del mercato e non a quelle del buon senso. Terreni incolti, raccolti distrutti per tenere i prezzi alti, una manodopera così sovrabbondante da permettere di mantenere salari bassissimi e condizioni di vita penose. Perché tanto ci sarà sempre qualcuno "più affamato" disposto a lavorare a meno. I soprusi, le violenze, le angherie non si contano né dai padroni, né dalla polizia, né dallo stato. L'unica solidarietà esistente e possibile (e di fatto l'unico messaggio positivo del romanzo) è quella fra disperati. E non solo per i "legami di sangue" ma per la solidarietà umana che in qualche modo riesce ad emergere sempre e di cui sono un mirabile esempio i coniugi Wilson all'inizio, la famiglia Wainwright dopo e il padre e figlio senza nome, all'ultimo capitolo.
Infine.
Questo libro andrebbe fatto leggere nelle scuole.
Dell'obbligo.
Non fosse altro che per il capitolo XIV (uno degli "author's corner" di Steinbeck), non fosse altro che per uscire da quell'orribile sensazione di "short time" senza memoria in cui i giornali tendono a farci credere che viviamo.
[Mi prendo anch'io un "author's corner" sperando che il fulmine di Steinbeck non mi colga (anche se me lo meriterei tutto, per l'ardire).
Qualche anno fa ci fu l'assassinio di Gheddafi e la televisione mandò in onda le immagini del cadavere straziato. Caso volle che la sera fossi a cena da una collega insieme ai suoi figli adolescenti. I ragazzi erano molto impressionati dalla scena che avevano visto. Mi ricordo che il ragazzo, sui sedici anni, ripeteva che non si era mai vista una cosa del genere, mi ricordo proprio che disse che "non era mai successa". La ragazza, invece, sui diciannove, disse "Non è vero che non si è mai visto. Pensa ad Achille che trascina il cadavere di Ettore intorno alle mura."
Ecco.
È precisamente questo il motivo per cui leggere serve. Non solo è bello, piacevole etc.
Serve.
Non per il nozionismo idiota che fa passare i concorsi (a volte).
Ma per capire che molte cose le abbiamo già viste. Sono già successe, le conosciamo già.
Non siamo i primi a cui viene detto che ci stanno invadendo delle persone "diverse da noi", in genere "brutte e sporche". Che "ci portano via il lavoro". Non siamo i primi a cui hanno detto "l'ultimo chiuda la porta" in nome della "sicurezza". Non siamo i primi a vedere le decisioni prese dalle banche, lo stato assente (o colluso), i poliziotti violenti.
Non sono una novità dell'ultima ora.
Non siamo i primi a cui chiedono un lavoro in nero o di tralasciarne la cura e la sicurezza, sfruttando il bisogno.
Per dire le prime cose che mi vengono in mente].

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LaClo Opinione inserita da LaClo    23 Giugno, 2015
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Viaggio

Leggendo il libro mi sono lasciata trascinare dalle descrizioni molto ampie e dal viaggio della famiglia Joad per raggiungere l'ambita California.

L'autore alterna momenti in cui la vicenda emblematica della famiglia è protagonista e capitoli nei quali crea attraverso il discorso indiretto una forte invettiva politica. Le vicende che sono narrate in questi ultimi capitoli si riflettono nella vicenda dei Joad. Ogni provvedimento, legge che appare apparentemente benefica viene applicata alla famiglia e si rivela in tutta la sua devastazione.

I personaggi sono i componenti della famiglia ai quali si aggiunge un ex predicatore che ha smarrito la sua fede religiosa. Ogni personaggio è rappresentato in maniera coerente con la società americana del tempo: il padre è il capofamiglia come il nonno e i figli maschi maggiori mentre la madre si occupa delle fatiche domestiche ed proprio l'immagine della donna lavoratrice che preferisce non farsi domande e affrontare il futuro.

Interessante è il conflitto tra nuove e vecchie generazioni, è significativo che durante il viaggio muoiano i due nonni che sono un po' il simbolo del legame con il proprio luogo, dell'orgoglio verso gli antenati conquistatori. Essi non sono in grado di poter affrontare una società così diversa da quella in cui hanno sempre vissuto.

Molto suggestiva la descrizione del vento polveroso iniziale che devasta i campi e crea una situazione di crisi e si ricollega all'ultima pagina in cui si assiste ad un diluvio che ha invece un significato quasi biblico di speranza. Infatti non ha caso il libro si chiude con un gesto di dolcezza e di umanità che crea un presagio positivo nel lettore.
Ho trovato altrettanto interessante la personificazione della trattatrice che devasta non solo i campi ma anche la stabilità economica e le vite di molte persone distruggendo le loro case.

L'autore attraverso il viaggio svela la grande generosità della famiglia che non esita ad accogliere coloro che versano in condizioni peggiori. Tale aspetto forse non è propriamente realistico in quanto persone in condizioni disperate e in cerca di un lavoro conteso tra molte famiglie difficilmente presterebbero soccorso ad altre persone. Tuttavia penso che l'autore voglia invece dare un'idea di solidarietà che si può creare tra persone che condividono il medesimo disagio. La famiglia durante il viaggio subisce mutamenti, si disintegra trasgredendo quei principi alla base della famiglia tradizionale americana.

Emerge purtroppo anche l'odio che spesso circonda le famiglie che si riversavano in massa in California e non essendoci tutto il lavoro sperato vengono completamente abbandonati alla mercé della polizia che smantella i loro accampamenti abusivi.

Lo stile di Steinbeck è molto ricco e a tratti ha un'inflessione quasi biblica, utilizza il linguaggio tipico del volgo e lo alterna con momenti molto concitati di critica verso la politica. Molto efficaci le descrizioni che secondo me sono tra le parti più riuscite del romanzo.

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pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    21 Febbraio, 2015
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The Ghost of Tom Joad

Chiudiamo gli occhi e proviamo ad immaginare.
Una tempesta di polvere, un disastro ecologico di grandi proporzioni, favorito da decenni di avido sfruttamento della terra.
Un esodo, una massiccia migrazione, che dalle terre inaridite conduce migliaia di famiglie verso una speranza di lavoro, cibo, sopravvivenza.
Un sistema finanziario e bancario che per sopravvivere deve continuare ad alimentarsi anche quando la terra diventa sterile per umana insipienza e ingordigia, anche quando gli uomini non hanno di che mangiare e pagare le tasse, anche quando le famiglie digiunano e non hanno più casa.
Un muro compatto di funzionari, impiegati, operai, commercianti, piccoli risparmiatori, pensionati e poveri diavoli: per sfamare se stessi e le loro famiglie seguono senza colpa le fredde leggi di un sistema in base al quale gli appetiti servono unicamente ad alimentare nuovi e più grandi appetiti e dove chi si accontenta non gode, ma soccombe e lascia spazio al più forte, al più fortunato, al più ingordo, al più veloce.
Una terra ricca e fertile, un’agricoltura che è diventata commercio e industria e poi finanza. Un mondo di benessere che attrae, che richiama, che ha bisogno di braccia, tante braccia, e più sono e meno costano, dunque occorre chiamare uomini, donne e bambini da lontano, molto lontano, abbagliati dal miraggio e disposti a tutto.
Una moltitudine in movimento che varca confini e occupa spazi, che ha fame e non ha soldi, che è primordiale nei suoi bisogni e dunque appare rozza, brutale, sporca, minacciosa, infetta.
Una comunità sotto assedio, che teme per il proprio lavoro, la propria casa, la propria salute, la propria sicurezza, le proprie donne, la propria identità e il timore diventa paura e la paura diventa odio e l’odio diventa pregiudizio e l’ignoranza propaga il pregiudizio, l’odio, la paura.
Chi ha paura cerca una difesa. Contro la sporcizia, contro le malattie, contro la criminalità, contro il pericolo venuto da lontano. Occorre stringersi, unirsi, armarsi, vigilare, respingere.
E c’è, soprattutto, l’inesorabile legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato, il delicato meccanismo che per essere mantenuto tonico ed efficiente deve fondarsi sullo spreco, sulla deliberata distruzione di parte del raccolto per tenerne alto il prezzo.
Ma sacrificare i frutti della terra in nome del dio denaro, mentre gli uomini non hanno di che sfamarsi, significa commettere azione empia verso la terra e verso gli uomini. E‘ una ubris che aspetta di essere risarcita, e infatti i grappoli d’uva lasciata marcire sui tralci diventano grappoli d’ira, collera, furore.
Ora possiamo riaprire gli occhi. Dove abbiamo visto tutto questo?
Queste immagini, queste scene che potrebbero essere cronaca del XXI secolo fanno da sfondo e da ambientazione ad un grande romanzo scritto settantacinque anni fa e ancora in grado di competere in attualità, forza e incisività con tante inchieste, ricerche o riflessioni contemporanee.
John Steinbeck scrisse Grapes of Wrath nel 1939, dopo aver studiato la condizione di vita dei contadini dell’Oklahoma a metà degli anni Trenta del secolo scorso, quelli che seguirono la Grande Depressione e sconvolti dalla Dust Bowl, il cataclisma che li fece migrare in massa verso ovest, alla disperata ricerca di lavoro.
La storia della famiglia Joad, del suo viaggio della speranza lungo la Route 66 vuole riassumere e rappresentare l’epopea di un’intera generazione di agricoltori e favorire la denuncia di “un’economia che uccide” , come dice Papa Francesco. Se “Nutrire il pianeta, energia per la vita” (tema di Expo 2015) ci sembra un obiettivo oggi tanto utopico quanto urgente e necessario, è segno che in questi decenni ancora tante famiglie Joad in ogni parte del globo hanno intrapreso con diverse fortune il loro viaggio della speranza.
Pagine che scorrono veloci, parole che pungono, personaggi che rimangono impressi. Tra tutti, mi piace ricordare due donne. L’immensa Ma’, vero centro di gravità della famiglia, titanica e bellissima nel suo impossibile sforzo di tenere unita la famiglia e nel difenderne valori e dignità, e la piagnucolosa Rose of Sharon, a cui spetta l’onore della scena finale del romanzo, perché anche i deboli talvolta trovano nelle avversità qualche occasione di riscatto.
Storia che scava, che colpisce, che ispira (John Ford, Woody Guthrie, Bruce Springsteen) e che continuerà a parlarci a lungo. “Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutti i posti … dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì …. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì … e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito … be’, io sarò lì”.

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Giovannino Opinione inserita da Giovannino    23 Dicembre, 2014
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California, terra promessa.

Un mese fa al cinema è uscito l'ultimo film di Cristopher Nolan, Interstellar. Ho letto diverse opinioni sul film, alcuni l'hanno definito un capolavoro, altri un flop un pò per la lunghezza un pò per la storia troppo campata in aria, e altri ancori addirittura si sono inventati scienziati e hanno discusso sull'esistenza dei buchi neri e affini. Comunque in molti l'avreste visto e, opinioni a parte, ne conoscerete la trama: una tempesta di polvere colpisce la terra, rendendo infertile la terra e distruggendo l'agricoltura, la vita diventa quindi impossibile sul nostro pianeta e McCoughney che è un ex astronauta decide di andare nello spazio con un team di scienziati per trovare un pianeta abitabile dove "spostare" la razza umana. Ma quanti di voi sanno che, in parte, questa è una storia vera? Lo ha detto lo stesso Nolan nella presentazione del film, si è ispirato alla "dust bowl" del 1930.

Nel 1930 infatti la costa orientale degli Stati Uniti fu colpita da una tempesta di sabbia (la "dust bowl" appunto), che distrutte la maggior parte dei terreni coltivabili degli stati colpiti. Questo, aggiunto alla grande depressione, fece si che molti contadini non riuscirono più a pagare i debiti che avevano nei confronti delle banche e quindi furono costretti a vendere le loro proprietà e a migrare verso ovest, verso la California, che divenne un pò la terra promessa in quanto ricca (almeno in apparenza) di lavoro.

Questa è la storia che John Steinbeck ci racconta in Furore. La storia della famiglia Joad, una numerosa famiglia dell'Oklahoma che, costretta a vendere la casa, acquista un furgone e tramite la "via nazionale" (la famosa Route 66) cercano di raggiungere la California per rifarsi una vita. Non sarà un viaggio facile logicamente, i soldi sono contati, le bocche da sfamare sono tante e ci sono vecchi, bambini e donne incinte a bordo del camion. Non tutti arriveranno in California e chi ci arriverà sarà veramente salvo?

È una storia triste, una storia di odio, rabbia, rancore. Una storia che porta a galla i lati peggiori dell'essere umano: la sopraffazione dei più deboli, lo sfruttamento, il razzismo, l'egoismo. Nel 1930 il capitalismo iniziava ad imperare in America (o forse già lo faceva da tempo) e chi aveva una proprietà ci teneva a tenersela stretta e ad averne altre, e non gli importava se magari c'era gente che letteralmente moriva di fame. L'importante era diventare più ricchi. E chi non aveva nulla? Aveva la solidarietà di chi era nelle sue stesse condizioni. E soprattutto era pronto a reagire, a trasformare la rabbia in furore. Perché è quando perdi tutto e quando non hai più nulla che sei pronto ad aiutare chi è nelle tue stesse condizioni. Solo dopo aver provato determinate situazioni capisci la sofferenza e sei pronto anche a gesti estremi (come fa Rosasharn nel finale del libro) per aiutare chi sta passando ciò che tu hai passato.
“Se riusciste a capire questo, voi che possedete le cose che il popolo deve avere, potreste salvarvi. Se riusciste a separare le cause dagli effetti, se riusciste a capire che Paine, Marx, Jefferson e Lenin erano effetti, non cause, potreste sopravvivere. Ma questo non potete capirlo. Perché il fatto di possedere vi congela per sempre in “io”, e vi separa per sempre dal “noi”.”

Un romanzo stupendo che ha vinto un premio Pulitzer e National Book Award nel 1940 ed ha fatto vincere al suo autore un premio Nobel per la letteratura nel 1962, inoltre è stato incluso al settimo posto della classifica dei migliori libri del 1900 secondo i lettori di Le Monde, ed è stato portato al cinema nel 1941, regista John Ford, protagonista Henry Fonda. Un libro di 600 pagine dallo stile semplice e diretto ma dall'impatto immenso.
Insomma, un vero e proprio capolavoro, una pietra miliare, i titoli parlano per lui. Leggetelo.

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