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Pubblicato postumo nel 1927, nell'ordine cronologico di stesura "America" precede "Il processo" e "Il castello". Il romanzo, incompiuto, racconta le vicende tragicomiche di Karl Rossmann, un ragazzo di Praga costretto a emigrare negli Stati Uniti, il quale viene a trovarsi prigioniero nell'ambigua realtà tecnologica di un mondo inesplorato, che al tempo stesso lo coinvolge e lo emargina. Contro la vecchia tesi di "America", specchio di una visione della vita più serena rispetto all'incubo dei due romanzi posteriori, la critica recente, coordinando le parti compiute con l'epilogo progettato da Kafka e documentato nei "Diari", ha individuato quale sarebbe stata la conclusione autentica: Karl doveva essere "il disperso", all'interno dell'ingranaggio che lo avrebbe trascinato alla morte.



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America 2019-11-16 22:14:00 cristiano75
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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    17 Novembre, 2019
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Agonia parte prima

Agonia parte prima: l'America
Agonia parte seconda: il Castello
Agonia parte terza: il Processo

Sicuramente il Kafka è uno dei più grandi scrittori della storia. Però quando ci si mette per creare un vero e proprio stato di disagio, malessere e di frustrazione nel lettore, non lo batte proprio nessuno.
Ma andiamo con ordine.
Questi tre libri che ho citato, sono diciamo la summa del pensiero kafkiano.
Cioè tutti e tre trattano di argomenti completamente differenti, ma tutti e tre vogliono solo ribadire una cosa: l'agonia dell'uomo davanti al meccanismo implacabile sociale.
La capacità dello scrittore e di creare dei romanzi dove sin dalla prima pagina si avverte una mancanza totale di fiducia e di positività, facendo entrare il lettore nell'animo disperato del protagonista, che ha sempre l'iniziale per K.
In questo romanzo l'America si narra delle tragedie di varia natura che vedono per protagonista un emigrato che cerca fortuna nel nuovo mondo.
Il tono cupo e spettrale del racconto pervade sin dalla prima pagina tutto lo svolgimento dell'azione.
A questo va ad aggiungersi il fatto che tutti e tre i libri sono dei tomi dalla grandezza non indifferente, quindi per portare al termine la lettura ci vuole anche un certo coraggio e una certa dose di masochismo a mio avviso.
Non credo di aver mai letto dei libri più negativi ed oscuri come quelli del buon Kafka.
Lui ha perfettamente ragione. Il singolo non può nulla contro i meccanismi stritolanti del sistema capitalistico e industriale in generale.
Ogni forma di ribellione o ogni tentativo di prevalere sulle leggi, sulla società, sulla spietatezza del Dio denaro, sono miserevolmente condannati a fallire.
Avete mai visto su Youtube, quelle scene delle vacche nei macelli, che pur fiutando il sangue che viene da dentro una stalla, continuano a camminare verso il loro ineluttabile destino? ebbene leggendo questi romanzi sembra proprio di rivivere una scena di terrore come questa delle mucche.....un uomo solo che piano piano si avvicina al proprio giorno del giudizio, senza che nessuno voglia o possa aiutarlo a sfangarla.

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America 2018-10-17 06:50:01 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    17 Ottobre, 2018
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LA COLPA DI NON AVERE COLPE

Di primo acchito tutta l’opera di Kafka sembra dare l’impressione di scarsa coesione e di frammentarietà, ma ciò, lungi dall’essere un fattore negativo, appare del tutto funzionale allo stile onirico dell’autore. Frammentario ed episodico è soprattutto “America”, il quale, permeato di sensazioni fanciullesche e puerili, si abbandona, come la novellistica infantile, a situazioni sempre nuove e diverse, senza curarsi troppo della coerenza narrativa. In quello che è considerato da molti il romanzo più positivo di Kafka, per l’incrollabile ottimismo e l’ingenuo idealismo con cui il protagonista Karl Rossmann affronta le dure prove che l’ingresso nel mondo adulto gli impone, il destino fa comunque sentire la sua implacabile e beffarda presenza. In un crescendo di inaudita crudeltà, il giovane Karl è impietosamente schiacciato dalle soverchianti forze di un mondo abietto, volgare e corrotto. Fin dalla prima pagina veniamo a sapere che Karl è stato cacciato dalla casa del padre per essere stato sedotto e violentato da una cameriera. Per questa colpa grottesca e stramba egli è condannato ad abbandonare la famiglia e la patria ed a peregrinare indifeso in un mondo estraneo ed ostile. “America” non manca di insperati colpi di scena, che sembrano volgere la vicenda a favore di Karl. In realtà, questi capovolgimenti sono del tutto precari e provvisori ed hanno il solo effetto di rendere ancora più dolorosa la sorte del giovane protagonista quando essi rivelano la loro inconsistenza. Così, nel porto di New York, Karl incontra un misterioso, ricchissimo zio, che lo accoglie teneramente e gli dimostra grande affetto, ma alla prima banale mancanza, alla prima inconscia ribellione, viene scaraventato nuovamente in mezzo alla strada. In questo frangente, ricompaiono come per incanto la valigia e l’ombrello che Karl aveva smarriti sulla nave il giorno del suo arrivo e che costituiscono il simbolo della lacerazione, dell’esilio e dello sradicamento. In maniera quasi del tutto analoga, Karl viene inaspettatamente assunto come ragazzo d’ascensore nel pletorico Albergo Occidentale, ma è licenziato, ancora una volta per ragioni al di fuori della sua volontà, dopo un crudelissimo interrogatorio in cui perde quasi del tutto la forza di reagire. Il destino non vuole solo la sconfitta di Karl, ma il suo totale annientamento morale. Se fino a questo momento il nostro eroe aveva potuto contrapporre alle avversità un comportamento fiero e dignitoso, ora non può neppure più chinare la testa, ma è obbligato a fuggire in continuazione, dal sadico portiere dell’albergo, dalla guardia, dal perfido Delamarche, in situazioni sempre più simili ad incubi notturni. La sensazione che la sua sorte non gli appartenga veramente ma venga sempre decisa altrove, fuori del luogo sicuro della sua ragione, si fa via via più opprimente e intollerabile. Con l’ingresso nel putrefacente e nauseante mondo di Brunelda, con quell’esperienza postribolare che rischia di intaccare indelebilmente la sua purezza, Karl Rossmann tocca il punto più estremo della sua parabola discendente.
Vi sono peraltro pagine in cui la filosofia di Kafka sembra giungere ad un approdo definitivamente sereno. Mi riferisco al capitolo finale, intitolato “Il Teatro naturale di Oklahoma”, che è un prodigioso esempio di arte onirica e surreale, nel quale Kafka, da gran maestro, spande a piene mani la giocosa levità delle favole e il gusto burlesco per la parodia. Esso recupera la vicenda di Karl Rossmann dopo una brusca ed improvvisa interruzione della narrazione, dietro la quale non è improbabile che si nascondessero nell’intenzione dell’autore esperienze ancora più degradanti di quelle che il nostro giovane eroe aveva dovuto sopportare in precedenza. Avevamo lasciato Karl nello squallido ed inquietante appartamento di Brunelda, lo ritroviamo ora mentre passeggia senza meta lungo le strade della città. All’angolo di una di esse, Karl legge un manifesto con questa scritta: “Oggi dalle sei di mattina a mezzanotte, all’ippodromo di Clayton, viene assunto personale per il Teatro di Oklahoma! Il grande Teatro di Oklahoma vi chiama! Vi chiama solamente oggi, per una volta sola! Chi perde questa occasione la perde per sempre! Tutti sono i benvenuti!… Noi siamo il Teatro che serve a ciascuno, ognuno al proprio posto!”. Con queste parole, che richiamano da vicino l’appello che si legge nell’evangelista Marco – “Il tempo è compiuto, e il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo” – si prepara il grande prodigio, si realizza la perfetta utopia. Quel Teatro in grado di accogliere tutti gli uomini, giacché “il numero dei posti è illimitato”, è la proiezione scenografica dell’aspirazione umana a sfuggire alla precarietà dell’esistenza per inserirsi in un complesso ordinato e sereno, in cui l’individuo può finalmente annullarsi, scaricare le proprie angosce e responsabilità e partecipare della magica armonia del creato. Il Teatro è così grande che l’uomo ne ricava un senso di infinita sicurezza, come se un provvidenziale ordine superiore lo guidasse e vi infondesse una beatitudine senza limiti. Se nella babelica burocrazia de “Il processo” e de “Il Castello” l’uomo non riusciva a districarsi, nell’organizzazione del Teatro il presentarsi senza un documento di riconoscimento e sotto false generalità, come fa Karl, non è più un problema di eccessiva importanza. Questo parodistico anticipo del Regno dei Cieli è descritto da Kafka con accenti grotteschi e surreali. Davanti all’ippodromo di Clayton, si presenta agli occhi di Karl uno spettacolo fantasmagorico: in un podio lungo e basso, centinaia di donne vestite da angeli e collocate su zoccoli di altezza diversa suonano lunghe trombe d’oro. L’effetto è sicuramente bizzarro, e non è escluso che Kafka abbia voluto, da impareggiabile umorista quale nonostante tutto egli era, fare la caricatura della tradizionale iconografia religiosa, così ieratica e solenne: infatti le figure degli angeli, appollaiate su quegli enormi piedistalli, appaiono gigantesche, ma questa impressione è turbata dalle loro teste, così piccole al confronto. Inoltre il suono delle innumerevoli trombe suonate tutte insieme, anziché assomigliare a una melodia celeste, produce solo un grande frastuono. All’interno dell’ippodromo però tutto funziona a meraviglia e procede sorprendentemente sui binari del più assoluto e fiducioso ottimismo. Karl viene assunto, le sue paure e le sue inquietudini svaniscono come d’incanto e sembra quasi che un miracoloso colpo di bacchetta magica abbia fatto scendere la grazia sulla sua giovane persona.
Nonostante che nel capitolo finale di “America” siano completamente assenti i toni tragici e disperati degli altri due romanzi kafkiani e sebbene nel resto del libro le stupefacenti costruzioni burocratiche in esso presenti (si pensi al burattinesco automatismo degli uffici di New York o della portineria dell’Albergo Occidentale) siano apparentemente utilizzate per fare una satira chaplinesca della moderna civiltà dei consumi piuttosto che rappresentare il simbolo di qualcosa che trascende le possibilità di comprensione umana, non sono d’accordo con coloro che vedono in esso un sereno e fiducioso punto di arrivo dell’opera dell’autore boemo. Purtroppo l’incompiutezza di “America” mi impedisce di dare un sostegno pieno e irrefutabile alla mia tesi. Credo però che se il romanzo si fosse interrotto al momento dell’assunzione di Karl nel pletorico Albergo Occidentale di Ramses, le valutazioni non avrebbero potuto essere molto dissimili. Siccome la caratteristica di “America” è, come si è visto, quella di far seguire a favorevoli ed insperati colpi di scena delusioni cocenti e dolorose, non si vede perché ad Oklahoma Karl avrebbe dovuto essere risparmiato da una simile sorte. Se si leggono attentamente le ultime pagine di “America”, si scopre ad esempio che, dopo l’assunzione, il capo della compagnia dice a Karl: “Ad Oklahoma si esaminerà tutto ancora una volta”. E i compagni di scompartimento di Karl, così scontrosi e impertinenti, hanno tutta l’aria di essere i prossimi torturatori del nostro giovane eroe, non meno ambigui e demoniaci di Robinson e Delamarche. Esiste inoltre un significativo frammento dei diari kafkiani che sembra avallare questa tesi: “Rossmann e K., il senza colpa ed il colpevole, ambedue alla fine uccisi senza distinzione per punizione, quello senza colpa con mano più leggera, più messo da parte che trucidato”. Karl Rossmann doveva dunque essere ucciso, al pari di Josef K., e, quel che più importa, doveva essere ucciso per punizione. Ma se anche si volesse credere, come suggerisce Max Brod riportando una dichiarazione orale dello stesso Kafka, che il romanzo avrebbe dovuto avere un lieto fine (“in quel teatro quasi illimitato, il suo giovane eroe avrebbe ritrovato, come per un incanto paradisiaco, la professione, la libertà, l’appoggio, e persino la patria e i genitori”), ciò significherebbe solo che lo scrittore aveva voluto risparmiare alla giovane e innocente vita di Karl una sentenza definitiva e inappellabile di condanna, pur essendo lungi dal volergli concedere una qualche forma di ottimistica assoluzione.

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America 2017-01-31 17:36:48 siti
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siti Opinione inserita da siti    31 Gennaio, 2017
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Disperso e...incompiuto

Un giovane sedicenne, Karl Rossmann, viene esiliato dai genitori in America perché sedotto nella patria boema, a Praga precisamente, da una domestica che è rimasta incinta. Quando il giovanotto giunge in America , prima ancora di sbarcare, perde ombrello e valigia, trova casualmente uno zio benefattore e dopo un inizio rocambolesco pare ben avviato verso il suo obiettivo: farsi una posizione. Successive peripezie lo distolgono e passando per diverse esperienze si ritrova alla mercé di due mascalzoni ben accompagnati poi da una sorta di donna cannone. Non si conosce il finale e il romanzo incompiuto lascia il giovane in una indeterminatezza che ben gli si confà.
È il primo romanzo dello scrittore praghese, nasce però in concomitanza con il suo periodo più creativo che ci ha consegnato “Il processo” , “La metamorfosi” e il racconto“Nella colonia penale”, e dunque osserva , nell'introduzione dell’edizione Newton da me letta, Italo Alighiero Chiusano, si è in errore quando lo si ritiene un “frutto primaticcio e preludiale”. In effetti il romanzo fa respirare le tipiche atmosfere kafkiane: spazi claustrofobici, il perdersi, la concezione dello spazio come prigione, luogo labirintico angoscioso e angosciante, il subire situazioni paradossali che nel momento in cui vengono accettate subito godono di pieno diritto di esistenza e fuoriescono dalla zona di impossibilità assurda dalla quale nascono . Vi è inoltre una discreta rappresentazione critica dell’America, luogo disumanizzante, alienante, teso al progresso, schiacciato dal suo peso e penosamente e in maniera ridicola democratico ( bella la descrizione dei comizi elettorali in strada e delle baruffe dei candidati avversari). Interessanti i riferimenti continui a scioperi e diritti dei lavoratori contrapposti alla rappresentazione del ceto dei politici (lo zio) e dei privilegiati ( i suoi amici), grottesco e vivido il brulicare dell’Hotel Occidental dove i turni dei lavoratori sono massacranti. Colpisce il disincanto del protagonista, l’ingenuità, la passiva rassegnazione: quando lo scatto di ribellione si fa più teso ha già inevitabilmente perso l’occasione. Da più di un ventennio non leggevo Kafka e devo dire che , pur non essendo questo un capolavoro, questa prima lettura di “America” si è rivelata pur sempre un gradito ritrovarsi tra le pagine di uno scrittore che a vent’anni esercitava su di me un fascino che evidentemente dura nel tempo.

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altri incompiuti e si arrende all'evidenza.
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America 2014-09-08 21:25:13 Rollo Tommasi
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    08 Settembre, 2014
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Il nuovo mondo

Nel diciannovesimo secolo non mancavano certo motivi per sbarcare in America dalle coste europee (primo tra tutti, la ricerca di un lavoro). Ma la speranza era per ognuno dei derelitti la stessa: l'opportunità di un nuovo inizio.
Karl Rossmann, sedicenne praghese, viene spedito attraverso l'oceano dai suoi stessi genitori, per timore di uno scandalo: la sua tenerà età l'ha esposto alle attenzioni di una serva smaliziata, poi scopertasi in attesa di un bambino.
Sin dallo sbarco a New York, la parziale conoscenza che Karl ha della natura umana e l'insufficiente attenzione per quanto gli accade attorno risultano limiti da colmare al più presto, per evitare stenti e cattive sorprese. La fortuna sembra arridergli quando, prima ancora di lasciare la nave, viene riconosciuto da uno zio di cui nemmeno aveva ricordo, per giunta senatore degli Stati Uniti. Ma in breve le cose si ribalteranno, e Karl si ritroverà per compagni di viaggio altri due emigrati, Delamarche e Robinson, gente senza arte né parte che tuttavia sa come trarre profitto della dabbenaggine altrui (una sorta di acuta rivisitazione del Gatto e la Volpe).
Karl – che è un po' meno sprovveduto del Pinocchio di Collodi – proverà allora a “difendersi”...

Sebbene il romanzo sia tra i più noti “incompiuti” della letteratura mondiale, ne appaiono chiari gli intenti: Kafka – utilizzando il classico schema che sottopone il protagonista ad una serie di disparate disavventure – racconta l'iniziazione del giovane Karl, costretto dagli eventi a trovare la sua strada in un nuovo mondo (che, non a caso, è proprio il Nuovo mondo). Ciò appare chiaro sin dal primo capitolo – dove il monologo del senatore Jakob anticipa le difficoltà alle quali il nipote dovrà far fronte (e che lui, in un primo momento, cercherà di evitargli) – mentre l'incompiutezza del libro lascia un unico dubbio: se Karl riuscirà o meno nella conquista del suo spazio e della sua maturazione (la risposta è positiva secondo quel che sappiamo da Max Brod, il fraterno amico di Kafka che ha conservato e sistemato la sua produzione quando lo stesso Kafka gli chiese di bruciare ogni suo scritto una volta che fosse morto, a causa della sua penosa malattia).
Individuato come s'è detto il tema del romanzo, resta corposa e interessante l'ulteriore traccia sulla contrapposizione tra i membri di una certa società borghese e gli individui della classe operaia (particolarmente evidente nella parte in cui Karl lavora come “ragazzo dell'ascensore” all'albergo Occidentale).
Alla fine c'è da dire che “America” non sembra opera del miglior Kafka. D'altra parte, non pare portare slancio al racconto la traduzione del germanista Ervino Pocar (per la collana “I meridiani” della Mondadori), appesantita com'è da una antiquata costruzione sintattica.

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America 2013-05-17 19:14:44 Saretta5
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Saretta5 Opinione inserita da Saretta5    17 Mag, 2013
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I dispersi siamo noi?

"America o il disperso" è un libro che Kafka lascia incompleto.
Non è un romanzo di viaggio e l'America è un'idea assolutamente immaginaria. Kafka decide di rappresentare i valori tradizionali europei, sia positivi che negativi, all'ennesima potenza in questo "nuovo" continente che è visto come una speranza per migliorare la propria vita, in questa terra pensata pensata come la via del futuro. Tutto il libro è ricco di partenze e arrivi, il protagonista non riesce mai a stabilirsi in un posto, solo alla fine forse riuscirà a trovare un posto, ma annulla completamente sè stesso.

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America 2011-12-24 14:35:56 floria di tosca
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floria di tosca Opinione inserita da floria di tosca    24 Dicembre, 2011
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Il postumo Disperso

Piero Citati, che ha svelato il vero Kafka, ha descritto America come “un romanzo teologico con un triplo peccato originale”.
Ed in effetti il protagonista per tre volte finisce ruzzolando nell'inferno della polvere e tre volte si rimette in piedi, giovane fenice che rinasce dalle sue ancora calde ceneri.Si pensi al motivo con cui viene spedito in viaggio, alla ragione per cui lo zio Jakob lo allontana e quello per cui viene cacciato dall'Hotel Occidentale
Seppure, incompleto, non meno del Processo e del Castello, in questo libro sentiamo meno l'angoscia pervasiva e riusciamo a leggere di più, seppur dovendo interpretare e dovendo sostare , di tanto in tanto ai pieedi della realtà simbolica dell'uomo Kafka.
Perchè di certo c'è da dire che non è un libro di iniziazione: chi si accingesse a leggere Kafka per la prima volta, di certo non dovrebbe cominciare con America.
E' l'autore, - uno degli autori, - della mia vita e, - ovvio giudizio di parte - ho trovato interessante America perchè sono rari negli scritti di Kafka i ritratti di giovanotti vispi e intraprendenti, descritti con una certa allegria e, forse, invidia. C'è il perdono, la condanna contumace e vergognosa per una colpa mai commessa, ma non c'è odio, astio,desiderio di vendetta. C'è addirittura una foto dei genitori, guardata col desiderio di chi da tempo non gode del calore degli occhi buoni di una madre, del profumo di una mistra lasciata a bollire...
E la chiave di volta è lì, nel Teatro naturale di Oklahoma, in cui c'è un posto per orgnuno e ciascuno può trovare il suo posto.
Come sempre, Kafka sorprende e leviga quelle parti di noi che poco ascoltiamo e racchiude e incastra nelle parole, significati metaforici e allegorie, lontani anni luce dagli occhi di chi spera di trovare in superficie il vero Franz.

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...leggere Kafka è sempre d'esperienza. Qualunque cosa abbia da dire, completa o no.
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America 2011-09-25 22:04:07 padoan.antonio
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padoan.antonio Opinione inserita da padoan.antonio    26 Settembre, 2011
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E poi?

Un'opera non finita. Ho dato un voto basso al contenuto perchè il libro non è finito, manca, non è realizzato. E questa cosa disturba. Perchè non si capisce che cosa doveva fare questo Karl nel circo.
Perchè reclutavano gente? e tutti quei angeli con le trombe?
Lo stile di Kafka c'è tutto, spettacolare l'espulsione dall'Europa del protagonista, e il suo arrivo verso una nuova società che nuova non lo è. Trova subito un parente che lo caccia, dopo averlo illuso di una notevole eredità, come avevano fatto i parenti europei...
Due farabbutti che lo accompagnano durante il suo viaggio. Farabutti? Boh... il confine tra bene e male non è mai così netto.
Una sosta di lavoro presso un albergo e poi la nuova avventura del circo.
Le cose per i protagonisti di Kafka non sono mai semplici, tutto è maleddetamente complicato e difficile da ottenere. Visto che il finale non c'è spero che questo sia stato un libro dove il protagonista riscatta anche tutti gli sfornutati protagonisti dei precenti romanzi.

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a chi ha fantasia per immaginare il seguito
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America 2011-07-22 06:05:11 barch76
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barch76 Opinione inserita da barch76    22 Luglio, 2011
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Capolavoro dimezzato

Karl Rossmann è un sedicenne studente di Praga che, vittima della morbosa passione della domestica di famiglia,diventa suo malgrado padre e, per lavare l’onta,viene costretto dalla sua famiglia a fare le valigie e partire in fretta e furia per quel gran calderone di speranza e sogni che sono gli Stati Uniti d’America. Qualche soldo,un abito buono,un salame di Verona,e una fotografia dei genitori,è tutto quello in cui egli si può aggrappare nel nuovo mondo,il resto è incognita,un salto nel buio,avventura. Karl è un frutto acerbo,e di questo ne è pienamente consapevole, sa che nel cinico marasma americano egli può contare solo nella sua scaltrezza nella sua furbizia,nella sua modestia ,che è inutile issare le vele con il mare in burrasca,capisce quando è il momento di ammainarle e di questo fa la sua forza,perché egli è un eroe positivo,si piega,ma non si spezza,non si abbatte,la speranza in lui è inesauribile,il giovane ebreo di Praga lo si può solo amare,dal primo istante. Lo stile è magistrale e scorrevolissimo,la storia intrigante e coinvolgente,condita da scene divertenti e surreali che più che a Kafka fanno pensare al miglior Tarantino. Insomma, un capolavoro,unica gravissima pecca,è un’opera incompiuta,edita postuma la morte del geniale scrittore ceco,un manoscritto giovanile dimenticato in un cassetto in cui egli getta le basi per un’opera che potrebbe essere fiorita in uno dei più bei romanzi del XX secolo. Non posso però consigliarne la lettura,perché è drammatico doversi separare da quest’opera in maniera così prematura,abbandonare Karl nell’oblio,non riuscire a codificare il messaggio di Kafka appena abbozzato che si perde in una nebbia confusa,come perdere la donna della propria vita senza averla mai baciata.
Peccato,peccato sul serio.

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