Le recensioni della redazione QLibri

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    29 Marzo, 2018
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Le cose che salvano nella vita hanno dentro il sal

Pietro è un ragazzino di undici anni, vive a Milano ma la sua famiglia è originaria di una piccola cittadina della Lucania, Arigliana.
Catozzella ci fa conoscere la storia di Pietro narrandola direttamente in prima persona e il racconto sembra proprio scaturire dalle labbra di questo bambinetto: un po' teppistello, un po' tenero, come di solito sono i ragazzini di quell'età.
Fin da subito ci rendiamo conto che Pietro sta attraversando un grande dolore, una ferita profondissima lacera la sua giovane anima: la mamma è morta da poco. Pietro e la sorellina, Nina, devono affrontare la situazione. Abbiamo la percezione che siano molto soli, abbandonati a loro stessi: il padre, rimasto anche disoccupato, li spedisce dai nonni, ad Arigliana, a trascorrere l'estate.
Pietro si ritrova nel paesino della Basilicata dove sono nati i suoi genitori e i suoi nonni, che sembra rimasto sospeso nel tempo e che la modernità non ha ancora toccato completamente. Non a caso il libro preferito del nonno e del padre di Pietro è “Cristo si è fermato a Eboli”. Il bambino stenta a trovare la sua identità, non è considerato come un membro della comunità a tutti gli effetti, viene visto come un settentrionale, un milanese, mentre a Milano erano “una famiglia di invasori in una terra piena di ricchezze e di cose belle”.
Così trascorrono le prime settimane di quell'estate che sembra lunghissima per la quantità e l'importanza degli eventi che la segneranno. In primo luogo c'è la sofferenza di Pietro per la perdita della madre: una sofferenza di cui lui ci parla con apparente leggerezza.

“ Poi, dopo che nostra madre- che si chiama Rosalba, ma tutti chiamano Rosi- è andata avanti nella strada della vita per aspettarci in un posto ancora più bello dove tutti sono felici, e non abita più da noi, un po' è cambiato tutto.”

Pietro le parla ugualmente, sente la voce della mamma che lo guida e lo consiglia e il dolore fortissimo che lo assale in alcuni momenti assume le sembianze di un cane che lo morde e gli lacera la carne; Pietro riesce a vederlo e gli dà anche un nome: Canetto.
Nel paesino di Arigliana avviene poi un fatto inaspettato: vengono trovati a vivere dentro la torre normanna degli stranieri, fra cui anche un ragazzino più o meno dell'età di Pietro, Josh. Attraverso la voce del protagonista sono descritte la paura, il disprezzo, il rifiuto iniziale provati dalla piccola comunità nei confronti dei nuovi arrivati. In seguito una parte della popolazione inizia a conoscere e rispettare gli stranieri, mentre l'altra parte continua a considerarli dei nemici, li incolpa per il peggioramento delle condizioni di lavoro, li rende facili bersagli per mascherare invece lo sfruttamento, la corruzione, la povertà, che già erano presenti all'interno della società di Arigliana.

“ Poi si è girato verso il quadretto appeso in cucina, e mi ha chiesto di leggere quello che c'era scritto. Io non avevo voglia, ma nonno ha insistito. Così ho letto.
«Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né la speranza, né la ragione, né la storia,» ho detto.”

Il libro comunque ci lascia un messaggio di speranza: “E tu splendi.” E' il testamento spirituale che la mamma consegna al figlio: “Ti insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece.”
Si tratta, come spiega lo stesso Catozzella nella “Nota dell'autore”, della trascrizione sbagliata di uno stralcio dalle “Lettere luterane” di Pier Paolo Pasolini.
Nonostante il dolore, l'ingiustizia, l'integrazione difficile o impossibile, la solitudine, sembra voler dire l'autore, attraverso il ragazzino Pietro: non perdiamo la voglia di vivere e di splendere. Le cose che salvano nella vita sono salate: le lacrime, il sudore, il mare.
Una lettura che sicuramente non lascia indifferenti: dalla tenerezza e momenti di vera e propria commozione che si provano nei confronti del protagonista rimasto orfano, alle riflessioni che ci spinge a fare il racconto della mancata integrazione fra gli stranieri e gli abitanti di Arigliana, fino alla rabbia per l'accettazione passiva di corruzione e ingiustizie commessi dai soliti prepotenti locali. Il tutto narrato nel linguaggio semplice di un ragazzino che sbaglia tutti i congiuntivi e spesso ci fa sorridere per le sue osservazioni un po' sconclusionate. Un romanzo apparentemente leggero ma in realtà complesso, da assaporare con calma e razionalità.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    28 Marzo, 2018
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"Sinceramente ti auguro buona fortuna nella vita"

La vita delle ragazze e delle donne è l’unico romanzo di Alice Munro, autrice soprattutto di racconti. E’ scritto come una biografia, ma ogni capitolo ha un titolo suo e, anche se legato agli altri dal filo dei ricordi di Del, potrebbe avere vita propria come racconto autonomo.
Il libro accompagna Del -Alice dai nove anni fino alla fine del liceo. Si intravede per lei un futuro radioso e votato alla carriera letteraria.
Attraverso i suoi ricordi Del ci presenta nei primi capitoli tutta una galleria di personaggi: lo zio Benny, la nonna, la madre, le due zie, la pensionante, l’ amata insegnante. I personaggi migliori, più intelligenti e fuori le righe sono donne a parte lo zio Benny che ha comunque un animo femminile. Gli uomini hanno spesso un lato poco piacevole più o meno nascosto, e quasi tutti hanno un qualcosa di pesante nei modi se non di osceno o di perverso. Questo lato oscuro è spesso legato in qualche modo diretto o indiretto al sesso. Anche se Del per molte pagine racconta le sue prime esperienze sessuali (più sessuali che sentimentali), tutto sommato l’impressione è che il suo giudizio sul sesso non sia molto diverso da quello negativo di sua madre. Il sesso è una specie di trappola per la donna, anche per quella emancipata e intelligente. Anche Del ci viene presentata caduta nella trappola e sul punto di esserne inghiottita.
I vari personaggi sono spesso eccentrici, fuori le righe, particolari e il fatto che vengano descritti con simpatia o con affetto o perlomeno con divertito e impertinente compiacimento rende la lettura piacevole anche per chi non è un appassionato di memoir.
All’inizio i primi capitoli sono legati dal comune “mi ricordo che”.. ma sono molto vicini al racconto, cioè sono un po’ slegati e saltellanti.
Poi però la narrazione diventa fluida e corposa, da romanzo, inoltrandosi nella vita di Del a partire dalla sua esplorazione del mondo.
Il romanzo vuole appunto parlare della vita delle ragazze e delle donne. Ne racconta tutti gli aspetti: amicizie, relazioni, amori e soprattutto scoperta del sesso, in modo apparentemente leggero. Ma certamente coglie in queste vite e cerca di evidenziarlo, il senso assurdo della direzione sbagliata, che allontana le donne dalla propria realizzazione spingendole lungo strade tracciate da altri.
“Che cos’era una vita normale? Era la vita delle ragazze al caseificio, i rinfreschi per nozze e battesimi, la biancheria per la casa, le batterie di pentole, i servizi di posate, tutto il complicato regolamento della femminilità e, all’estremo opposto, era la vita della sala da ballo Gay-la, era viaggiare di notte ubriachi per le strade nere, ascoltare le spiritosaggini degli uomini, rassegnarsi a loro, e al tempo stesso riuscire ad acciuffarne uno, esatto, acciuffarli, perché un lato di quella esistenza non poteva sussistere senza l’altro e accettandoli e abituandosi a entrambi, una ragazza si incamminava sulla via del matrimonio”.
Anche le donne più intelligenti sono spinte a coltivare il proprio aspetto allo scopo di rendersi desiderabili, secondo un copione piuttosto insensato (L’amore non è cosa per le non depilate) che allontana la donna dal corretto uso delle sue doti intellettuali. Certo Alice-Del non dispera.
“E’ in arrivo un cambiamento, secondo me, nella vita delle ragazze e delle donne. Sì. Ma spetta a noi favorirlo. Finora le donne sono state solo quello che erano in rapporto a un uomo. Punto e basta. Una vita non più autonoma di quella di un animale domestico. Quando il tempo la passione gli avrà spento, poco più del suo cane ti avrà accanto, del suo cavallo non ti avrà cara altrettanto. L’ha scritto Tennyson ed è vero.”
In nessuna relazione Del sembra fare sul serio. Alla fine del romanzo, la madre di Del assume un aspetto molto diverso dalle prime pagine, sembra quasi un’eroina o comunque sembra avere una visione saggia e profetica della vita. All’inizio nelle prime pagine sembrava quasi ridicola per certi aspetti (il connubio di intelligenza e candore); ma poi viene rivalutata. Le sue idee strampalate del mondo hanno una notevole dose di saggezza. Le manie religiose di Del invece sono ben lontane da quelle della nonna, ma vanno sempre nella direzione della ricerca di inclusione e di un pubblico più che di risposte esistenziali. Del ha sempre un forte desiderio di successo, di essere al centro della scena, di emergere che ce la fa immaginare nel fiume a lottare con qualcuno (uomo probabilmente) che le tiene la testa sotto l’acqua. Ma a differenza di sua madre ha muscoli d’acciaio.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    20 Marzo, 2018
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Un conflitto infinito

"Una cena al centro della terra" è un libro piuttosto atipico, a partire dall'autore che lo ha scritto: Nathan Englander è statunitense, ma ha vissuto per molti anni in Israele. È proprio sul conflitto israelo-palestinese che ruota tutto questo romanzo, anche se si sposta (tra flashback e flashforward) in vari luoghi del mondo, per seguire le vicende di vari personaggi tutti in qualche modo legati a questo conflitto che sembra non trovare mai fine.
Lo stile dell'autore è abbastanza scorrevole, fila via senza intoppi, pur senza raggiungere vette altissime. La mia impressione, tuttavia, è che questo romanzo avesse ben altre ambizioni e che l'autore non sia riuscito a conseguirle appieno: si concentra su un argomento scottante della nostra storia recente, ma non riesce a sviscerarne problematiche e riflessioni come dovrebbe (e come vorrebbe, credo). Sì, perché i protagonisti di questa storia sono vari, si può dire che l'autore abbia imbastito almeno tre archi narrativi, ma tutti mi hanno dato un'impressione di debolezza: non sono troppo intriganti e li trovo un po' sconclusionati. Forse era proprio questo l'intento dell'autore: mettere in risalto questo conflitto senza fine con varie narrazioni della stessa natura, ma se fosse così per me il romanzo ne risente un po'; inoltre, per quella che dovrebbe essere la parte più importante e profonda del romanzo (quella finale), l'autore inserisce uno dei due personaggi che la reggono soltanto nelle ultime pagine, creando una scarsa connessione emotiva col lettore, nonostante il messaggio che si voglia trasmettere sia interessante.

Come ho già detto, in questo libro seguiremo le vicende di vari personaggi: il primo è il Prigioniero Z, una spia che durante una delle sue missioni, contro la sua volontà, si ritrova tra gli artefici di una delle stragi più sanguinose del conflitto tra israeliani e palestinesi. Scioccato e sorpreso da quel che è accaduto, il prigioniero Z tradirà la propria identità e si trasformerà in un fuggitivo. Un altro personaggio è colui che viene chiamato il Generale (che dovrebbe essere il defunto Ariel Sharon), protagonista di un arco narrativo abbastanza inusuale: difatti seguiremo la sua esperienza "mistica" durante il coma, dove rivivrà alcune delle fasi più tese del conflitto delle quali è stato attore fondamentale. In mezzo a questi due archi narrativi principali si uniranno altri personaggi, che convergeranno tutti in quel punto focale che è questo conflitto senza fine, che non finisce mai di distruggere e dividere due popoli.
Senza infamia e senza lode, nonostante avesse una base interessante da cui partire.

"Il mondo ci odia, ci ha sempre odiati. Ci uccidono, e ci uccideranno sempre. Ma tu, tu alzi il prezzo. Non fermarti. Non fermarti finché i nostri vicini non capiranno l'antifona. Non fermarti finché uccidere un ebreo non diventerà troppo costoso anche per un ricco scialacquatore. Questo è il tuo scopo, - continua Ben Gurion. - Tu sei qui esclusivamente per alzare il valore della taglia sulla testa di ogni ebro. Rendila costosa. Rendila una rara e raffinata delicatezza per chi ama il sapore del sangue ebraico."

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Romanzi autobiografici
 
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    18 Marzo, 2018
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Wondy e Alessandro

Mi capita in poche occasioni di essere in difficoltà nel recensire un libro, “Mi vivi dentro” è un romanzo autobiografico che ti riempie l’anima, che ti spiazza, ti sorprende, ti emoziona e alla fine non ci sono parole per poterlo descrivere e per rendergli giustizia.
Paura, sofferenza, dolore, lacrime, gioia e felicità c’è di tutto e devo dire che l’autore ha avuto un enorme coraggio a mettersi a nudo e a raccontare la sua vita a trecentosessanta gradi, non nascondendo nulla a noi lettori.
L’ho letto in poche ore volevo finirlo, non so se sarei riuscita a prenderlo in mano il giorno successivo e quello ancora perché il romanzo mi aveva colpito molto e quindi ho deciso di concludere la lettura e ho fatto bene.
Ho ancora dentro di me tutte le immagini e le sensazioni che mi ha dato questa storia, il forte messaggio di speranza e di enorme forza che c’era in Francesca, per tutti Wondy e in Alessandro, una storia d’amore come tante ma unica per la loro famiglia, una farfalla bella e colorata ma che in volo si è spezzata e cade dovendo arrendersi alle conseguenze della vita.
In realtà Alessandro non si è dato per vinto, no anzi, lui con questo libro sta diffondendo la cultura della resilienza, ovvero,la capacità di un individuo di affrontare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.
L’autore ci sta provando, cerca di andare avanti di essere un buon padre per i suoi due figli rimasti orfani di madre, ma questo credo sia un percorso tortuoso e impervio e non è poi così facile mettere in pratica la resilienza.
Leggendo il significato di questa parola mi sono detta che non sia così semplice seguire alla lettera questa definizione, ogni individuo reagisce al dolore in maniera diversa e inaspettata e non possiamo pensare che sia una cosa meccanica, ma dall’altra parte non credo nemmeno sia giusto lasciarsi andare e non reagire.
Forse come si dice solo il tempo guarisce le ferite.
“Siamo qui, Siamo vivi. Siamo una famiglia”
Chi è Francesca? Me lo sono chiesta leggendo la storia, era una donna, una madre, una giornalista, ma ho scoperto che era anche molto di più, scrittrice e blogger. Nel sito della fondazione a lei dedicata “Wondy Sono Io”si legge questo di lei: ” Francesca adorava leggere, scrivere e viaggiare. E sorrideva, sempre, perché vedeva il bicchiere mezzo pieno, preferibilmente di mojito”. E da qui mi sono detta che doveva essere stata una grande donna e il racconto del marito me l’ha confermato. Una donna moderna, tenace, spiritosa, autoironica, ma anche poliedrica, due lauree , ha scritto cinque libri uno dei quali dove parlava apertamente della prima volta che ha avuto il cancro e una madre affettuosa e dolcissima con i suoi due bimbi. Per Alessandro, la sua famiglia e i suoi amici Francesca ha lasciato un grande vuoto difficile da comare, quasi impossibile.
“Ora io so. Ora lei sa. Ora sappiamo. Ma esplicitamente non ce lo diremo mai”.
Francesca affronta a testa alta la sua malattia, ma questa le lascia delle profonde ferite, sia fisiche che interiori e non possiamo immaginare quanto sia stata dura per lei affrontare tutto questo e poi era così giovane, così piena di vita e doveva conoscere e viaggiare ancora e ancora.
Ha paura Francesca, lo capiamo tra le righe, ha paura e capisce che non c’è più nulla da fare e mi chiedo perché? Alcune volte la malattia ti spiazza e non capisci perché sia capitato proprio a lei, perché per ben due volte ha dovuto sopportare tutto quel dolore.
Alessandro è riuscito a scrivere questa storia con una tale delicatezza e sensibilità che mi ha molto colpito, non ha leso in nessuno modo la dignità di Francesca e ha reso la storia di forte impatto emotivo.
Credo che scrivere questo libro sia stato un lungo viaggio doloroso e che sia stato anche terapeutico perché l’autore è stato molto sincero e si è “liberato” e ha reso pubblico la grande sofferenza che ha vissuto e che vive ancora senza la sua Francesca.
L’unica cosa che conta e conterà sempre per la famiglia di Francesca è l’amore e il sorriso che lei ha lasciato ai suoi cari e quel suo innato ottimismo che ci fa strappare alla fine anche a noi lettori un mezzo sorriso.
Questa storia d’amore mi ha conquistata per la sua semplicità, ironia, ma soprattutto perché è una storia di un vero sentimento che durerà per sempre nonostante tutto quello che è successo, il titolo lo dice “Mi vivi dentro” usa il presente perché per tutti quelli che amavano Francesca lei rimane e rimarrà sempre affianco a loro nel loro cuore, nei loro pensieri, nei loro ricordi.
Questo libro ci fa capire che per affrontare la malattia e la perdita di una persona cara ci vuole molto coraggio e ci si può riuscire o almeno si dovrebbe provare a farlo, un messaggio di enorme speranza e di forza nel trovare un modo per reagire e per continuare a vivere.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    16 Marzo, 2018
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La maledizione calabrese

Gioacchino Criaco è nato ad Africo, in Calabria. E’ autore di Anime Nere, Zefira, Il salto zoppo. Ora pubblica La maligredi: un romanzo duro, forte, epico e molto tragico. Di non facile lettura, “la maligredi” è:
“la brama del lupo quando entra in un recinto, e, invece di mangiarsi la pecora che gli basta per sfamarsi, le scanna tutte. Quando arriva, la maligredi spacca i paesi, le famiglie, fa dei fratelli tanti Caini e avvelena il sangue fino alla settima generazione. E’ peggio del terremoto, e le case che atterra non c’è mastro buono che sa ricostruirle. A un torto si risponde con la giustizia, che se si lascia sfogare la vendetta diventiamo lupi di noi stessi e ci mettiamo in casa la maledizione.” .
La maligredi è una specie di maledizione, che aleggia per tutta la narrazione, che impedisce al paese dell’Aspromonte, Africo, di evolversi e di mutare le proprie condizioni di vita. Siamo nel 1951, dopo l’alluvione, gli africoti vengono spostati dal loro paese in una zona marina. Il mondo dipinto è povero, si nutre dei presunti miracoli dei santi protettori, delle processioni a San Sebastiano, le case sono rughe,
“Le rughe erano fatte ognuna da due caseggiati che disegnavano due ferri di cavallo però quadrati, piedi contro piedi: sedici alloggi per sedici famiglie, fossero composte di una persona o di dieci- ogni alloggio aveva due stanze, un cucinotto, un bagno. Se non faceva vento, le strade delle rughe avevano l’odore del sugo finto che galleggiava davanti alle case- che le mamme sarebbe stato meglio si fossero decise a farla in bianco la pasta, ammettendo che non c’era la possibilità del condimento.”.
Qualche segnale di boom economico si intravede: il frigorifero, la cucina a gas, la tv è rara; ma l’economia è da medioevo: con gli gnuri, i proprietari di terra, a vessare e a schiavizzare. Lo stato è qualcosa di altro, non esiste, non è ostile, ma nullo. Ci sono i “malandrini” che sono degni di rispetto, perché “dritti”:
“Eh, i malandrini di oggi sono intelligenti e con un pelo nello stomaco che fa paura. Non che i malandrini di una volta fossero più buoni, solo più ignoranti. (…) E mica c’era bisogno di soldi, quelli erano così cioti che si sarebbero fatti convincere a portare a casa una bomba atomica, se qualche possidente da cui erano a servizio gli avesse detto che faceva bene ai reumatismi.”.
E’ in questo clima che vive Nicola, con i suoi amici Filippo e Antonio. Nicola, due sorelle e una madre che:
“una mamma di gelsomino. Io lo so, le madri calabresi non hanno colpe, a volte i figli vengono sbagliati, nonostante il profumo di gelsomino”.
Il padre è emigrato in Germania:
“Tanto mio padre non c’era, era in Germania adesso, come buona parte dei padri e dei fratelli grandi del paese. Lui faceva le macchine a Wolfsburg”.
Lui, con i suoi amici, sono molto ben integrati, e vivono le loro avventure infantili e della prima adolescenza. E’ agevole superare le difficoltà della vita con soldi facili, piccoli favori qua e là, come nascondere per una settimana una sacca con due armi e un passamontagna, il cui uso neasto è indicibile. Ma Nicola conosce presto anche il lavoro e il sudore della fronte e il suo necessario guadagno, e con Papula inizia a sognare un mondo rivoluzionario:
“La rivoluzione è cambiare tutto quello che non ci piace, fare le cose che non possiamo fare, avere diritti senza passare da un compare. La rivoluzione è non prendere le mazzate dai carabinieri solo perché così gira al maresciallo…..”.
Qui si lumeggia una pagina poco nota: un sessantotto aspro montano animato, appunto, da Papula che porta idee pericolose e sogna di cambiare il Sud. Predica la speranza di fondare un mondo nuovo e di ottenere diritti, fa capire ai poveri che hanno bocca e idee, dissemina la buona novella della rivolta tra i giovani e le donne, trasforma San Luca nel cuore pulsante della protesta operaia. La sconfitta è traumatica, dalla quale non si torna indietro.
Romanzo corale, tinto di un realismo magico, dove le donne calabresi sono madri che odorano di gelsomino, e sono metafora di eroismo, poiché:
“solo chi c’è stato, nella pancia del popolo calabrese, può saperlo che ci abbiamo provato a essere migliori.”.
I personaggi sono indimenticabili ( da Papula a Cata a papa all’ex maresciallo Giannino), l’elaborato è scritto con sobria quanto mai realistica fermezza, la narrazione è profonda e di fascino indiscutibile per il lettore. L’affresco di una Calabria epica e lirica, che dal passato difficile fa conoscenza per un presente, in cui si supera la “scordanza”, e si sopravvive, sormontando ambiguità e contraddizioni.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    14 Marzo, 2018
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I tanti volti del Male

“[…..]non siamo mai sazi di padre, nessuno di noi. La fame di padre ce la trasciniamo per tutta la vita. Non ne abbiamo mai abbastanza, non tanto del padre vero [….] ma proprio di quelli vicari, o immaginari. Dio, il medico dell’Asl, il poliziotto buono, il capo. Qualunque capo: del branco, del governo, dell’ufficio. Anche il prof, perché no? [….] e il parroco, naturalmente.

Se c’è uno scrittore che conosce e sa descrivere il mondo dei giovani, quello è Raul Montanari.
Nel suo ultimo bellissimo romanzo Montanari ci pone di fronte ad alcuni tra i temi più scottanti e problematici della società contemporanea: primo tra tutti il rapporto genitori/figli, insegnanti/allievi, genitori/insegnanti, ma anche l’evidente degenerazione e accentuazione del bullismo dovuto all’uso spregiudicato e delinquenziale dei moderni mezzi tecnologici, il diffondersi delle droghe pesanti tra i giovanissimi, con una conseguente alterazione della personalità che scaturisce il più delle volte in violenza fisica e psicologica. Nessuna superficialità nel trattare argomenti così impegnativi e così seri. Ogni personaggio ha uno spessore psicologico che lascia trasparire uno studio approfondito del carattere da parte dell’autore. Ciò fa sì che ci troviamo di fronte a una galleria di personaggi simili ai molti che malauguratamente si incontrano oggi un po’ dovunque.
Il luogo in cui la storia si svolge è molto importante: una piccola bella valle poco lontano da Milano, un microcosmo isolato dal resto del mondo, dove tuttavia non regnano armonia e pace ma la prepotenza e l’arroganza di un gruppo di persone che prevarica il resto della comunità . La scuola media inferiore, nella quale giunge Marco, per esercitare la sua professione di insegnante, è,come sempre accade, specchio della società civile che popola la valle.
Marco non è e non vuole essere un eroe. Anzi è l’antieroe per eccellenza che tuttavia, consapevole dei suoi limiti, trova l’unico coraggio credibile in tempi come questi, un coraggio che non prescinde da un misto di paura e di viltà, per affrontare con dignità una situazione difficile. A lui, cresciuto ed educato da un padre manesco e gretto e una madre meschina, si contrappone Rudi, il capobranco, spavaldo e prepotente. È molto interessante notare come questi due personaggi abbiano reagito diversamente ad un rapporto del tutto negativo con i genitori. Marco, umiliato nell’infanzia e spesso maltrattato, ha sviluppato un grande desiderio di autonomia e indipendenza, ha puntato sull’impegno e ha potuto staccarsi con dignità dall’ambiente familiare, senza avere mai assunto il padre come modello di vita. Rudi, al contrario, pur mortificato nell’ambiente familiare da un padre rozzo e prepotente, vede nel genitore un modello da seguire e sviluppa e accentua quell’aggressività che lo annienterà. Il rapporto genitori/figli viene dunque attentamente analizzato dall’autore anche negli altri personaggi.
Caduta ogni barriera di rispetto e autorità anche per l’intervento negativo e controproducente dei genitori che si schierano in difesa di figli problematici e ribelli, il rapporto insegnante/allievo diviene una continua sfida, un continuo gioco di provocazione. L’arroganza dei padri altro non è che la manifestazione di un consapevole fallimento del loro ruolo di educatori.
Fin qui si potrebbe sostenere, a ragione, che il problema del rapporto generazionale è sempre esistito anche nel passato. Oggi, tuttavia, le cose sono cambiate, perché sono intervenuti fattori nuovi che hanno contribuito ad aggravare la situazione in modo allarmante: la droga e il cyberbullismo.
L’assoggettamento del più debole, la violenza psicologica e sessuale sono purtroppo fenomeni che si stanno diffondendo pericolosamente, come testimoniano le cronache di questi tempi. L’orrore che ne scaturisce non può certo cancellare quello generato dalle guerre, dalle persecuzioni e le stragi, ma di sicuro non è meno rilevante. E qui il personaggio dell’ambiguo maggiore Novak è emblematico.
La brutalità giovanile e la violenza della guerra, temi di grande attualità su cui riflettere. D’altronde è questo il fine della letteratura: raccontare delle storie che ci facciano riflettere, porci di fronte ai problemi reali della nostra società, perché se ne possa prendere coscienza e si possa in qualche modo contribuire ad affrontarli se non risolverli.
Un romanzo molto molto bello, una storia che ci riguarda tutti.

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lapis Opinione inserita da lapis    10 Marzo, 2018
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Basta poco

Nevica a Napoli nel 1985, il giorno in cui Mimì trova il suo primo amico. Mimì, dodici anni e tanti sogni. Diventare un astronauta, un matematico, un supereroe. Lasciare un proprio segno tangibile nel mondo. E ogni sogno lo porta più lontano dalla sua famiglia povera, dalla sua casa minuscola, dalla rassegnazione con cui suo padre si accontenta della propria esistenza e i nonni guardano il varietà del sabato sera, senza pensare di prendere in mano un libro. E invece lui si ciba di documentari e dizionari, parla con un linguaggio forbito da precettore ottocentesco e sogna di essere un eroe.

E forse l’ha incontrato davvero un eroe, quel giovane del palazzo di fronte, dallo sguardo simpatico e pieno di energia. Giancarlo, si chiama, Giancarlo Siani. Guida un’auto bizzarra e scrive sul giornale, parlando di camorra. Perché solo un eroe può avere il coraggio di raccontare la criminalità, di crederci, di aspirare a cambiare le cose. Ma Giancarlo non ha i superpoteri, è solo un essere umano con grandi ideali e troverà la morte in un agguato di camorra.

“Le cose straordinarie, quelle che resteranno per sempre nella tua vita, arrivano spesso in punta di piedi e all'improvviso, senza tuoni e particolari avvisaglie. Proprio come quella nevicata dell’85.”

Lorenzo Marone ci accompagna nel percorso di crescita di Mimì, che cerca lontano i superpoteri per affrontare la vita e finirà per trovarli nella propria normalità. Si tratta di una favola moderna con cui l’autore vuole veicolare un messaggio in fondo positivo ed edificante, sui legami affettivi, sulla forza delle parole, sulla vita. Il tutto immerso in una narrazione semplice e pacata, il cui punto di forza sono probabilmente le descrizioni. Di Napoli, come sempre, ma anche e soprattutto degli Anni Ottanta.

Come in precedenti elaborati, anche in questo caso la trama si rivela piuttosto esile, una filigrana delicata di quotidianità familiare e tanti personaggi, attraverso cui mostrare emozioni e riflessioni. In questo caso, però, la scelta di avere come protagonista un ragazzino che si affaccia alla vita produce la sensazione di una certa forzatura. Le parole e le osservazioni che Mimì si trova a pronunciare finiscono per apparire a tratti artificiose, retoriche. E, forse, troppa retorica e poca realtà c’è anche nella bellissima figura di Giancarlo Siani, che sbiadisce un po’ sullo sfondo. Sebbene dunque l’intento del romanzo e la penna garbata ed emotiva di Marone siano comunque apprezzabili, credo che questa non sia una delle sue migliori prove narrative. Forse, un’occasione mancata.

“E intanto il mondo rotola e il mare sempre luccica, domani è già domenica e forse forse nevica” (sul murale dedicato a Giancarlo Siani).

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Romanzi storici
 
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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    10 Marzo, 2018
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Murì Patò o s’ammucciò?

Una narrazione insolita, costruita su un puzzle variegato di lettere, comunicati, articoli di giornale, querele, verbali d’interrogatorio, manifesti, scritte sui muri e altro ancora. Un giallo grottesco, venato di grassa comicità, cosparso ed elegante ironia, intriso di forti connotazioni sociali e condito si affreschi ambientali a tinte forti.

La sparizione del ragionier Patò, figlio di papà molto perbene che vive in assoluta piattezza e perfetto conformismo, come il proverbiale sasso gettato nello stagno smuove le acque e solleva reazioni e conflitti fino alle rive e oltre. Il fatto solleva innanzi tutto accessi conflitti di opinione, tra le ipotesi sollevate dalla sua scomparsa. Perché sparì il buon Patò? Perdita di memoria? Rapimento? Fuga? Questioni di mafia, o comunque torbidi conflitti di interessi nell’ambito delle alte sfere? La fioritura di risposte di fronte al quesito è lussureggiante. L’autore non ci risparmia nulla, neanche saporitissimi risvolti fantascientifici a base di illusioni ottiche, anomalie spazio-temporali e dispute tra pseudo-scienziati folli.

Il sasso fa riemergere anche altri tipi di conflitti: tra istituzioni, tra diversi modi di vivere la fede e la superstizioni, tra culture e linguaggi diversi. Ne escono fuori contese che non soltanto intrattengono piacevolmente il lettore, ma impongono alcune riflessioni non superficiali. Il teatro, una volta, era considerato la casa del demonio, perché suscitava passioni peccaminose, anche se virtuali. A pensarci bene, questi bigotti arcaici avevano sicuramente torto, ma non avevano tutti i torti. Del resto, anche il celebre effetto catartico riconosciuto alle tragedie, non conferma la forza della finzione nell’alterare l’animo umano?

La storia parte lentamente, incastrare i pezzi del puzzle richiede tempo e i caratteri minuscoli degli articoli di giornale non aiutano, ma dopo l’avvio l’attenzione è incatenata dagli indizi disseminati ad arte e soprattutto dalle gustosissime “spiritosaggini lessicali” e dagli arcaismi esilaranti, dai contrasti tra personaggi e registri diversi (dai toni istituzionali alle invettive rustiche), che aggiungono alla suspense quel tocco di piccante che non guasta ma aggiusta.

Un ritratto a tutto tondo che si svela un microcosmo senza confini, che dalle scritte sui muri di paese sii espande fino al Regio Ministero dell’Interno, luogo assai pericoloso.
“Lo ziuccio gira per i corridoi del Ministero gettando foco e fiamme dalle nasche: quello è capace, se fai errore, di farti catafottere nel posto più sperso di questa nostra bella Italia. Occhio, Libò.”

Occhio, lettore. Non non perdere l’occasione di riscoprire questo gioiellino ritrovato!

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    09 Marzo, 2018
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un lungo viaggio alla ricerca della propria identi

Daniel Mendelsohn è un docente universitario, studioso di lettere classiche, critico e traduttore. Ha scritto: Gli scomparsi, un libro lettera aperta al proprio nonno. Ora pubblica Un’odissea. Un padre un figlio e un’epopea: un testo che intreccia la storia del suo defunto padre Jay con riflessioni colte ed erudite sull’Odissea di Omero. Moltissimi sono i temi trattati, presi a spunto sempre dall’Odissea e trasposti, quali le relazioni padre e figlio, l’educazione e l’indentità. E’ una mescolanza tra memorie personali e critica letteraria, come ben precisato sin dal prologo:
“probabilmente anche chi non ha letto l’Odissea conosce la leggenda dell’uomo che impiega dieci anni a tornare a casa dalla moglie; ma, come si apprende nelle scene iniziali, quando è partito per Troia Odisseo si è lasciato alle spalle anche un figlio appena nato e un padre nel fiore degli anni. La struttura del poema sottolinea l’importanza di questi due personaggi: l’epopea inizia col figlio ormai adulto che parte alla ricerca del genitore perduto (…)e si conclude non col trionfante ricongiungimento dell’eroe con sua moglie, ma col lacrimoso ricongiungimento di quell’uomo con suo padre, ormai anziano e deperito. L’Odissea non è dunque solo una storia di mariti e mogli, è anche, e forse ancor di più, una storia di padri e figli.”.
L’autore è un brillante docente capace di ammaliare schiere di studenti con un seminario sull’Odissea, l’idillio però sembra rompersi quando tra le matricole spunta anche il volto di suo padre, Jay, che è un matematico, ricercatore scientifico, carattere ruvido, ottant’anni, la lingua fin troppo aguzza dell’uomo che si è fatto da solo. Davvero un inferno, Jay non riesce neanche a capire perché Ulisse debba essere considerato un eroe, e poi si susseguono le lezioni e i racconti, finchè arriva la proposta spiazzante del figlio: un viaggio in Grecia per ripercorrere i passi dell’uomo dal multiforme ingegno. Così i due partono per una crociera, denominata “Sulle tracce dell’Odissea”, in cui:
“La crociera seguiva il tortuoso, decennale itinerario del mitico eroe nel suo arduo ritorno a casa dopo la guerra di Troia, funestato da mostri e naufragi. Iniziava nella stessa Troia, il cui sito si trova oggi in Turchia, e terminava a Ithaki, una piccola isola del mar Ionio che si presume corrisponda a Itaca, il luogo che Odisseo chiama casa. E così, (…) partimmo per la crociera che durava in tutto dieci giorni, uno per ogni anno del lungo ritorno a casa di Odisseo. “.
Il rapporto padre-figlio è scandagliato in tutti i suoi possibili aspetti sempre in parallelo e in riferimento con il poema omerico. Per cui, oltre il prologo il cui testo prende un terzo dell’intera narrazione, e ha una importanza fondamentale, il libro è suddiviso in cinque grandi capitoli: Telemachia, è il primo capitolo in cui si parla di istruzione, suddiviso in due sottocapitoli: Paideusis e Homophrosyne, ovvero padri e figli e mariti e mogli. Il secondo è Apologoi, ovvero Avventure, dove il viaggio compiuto da Odisse è esaminato nei minimi particolari. E poi c’è Nostos, ovvero il ritorno a casa, a cui fa seguito Anagnorisis: il riconoscimento di Odisseo da parte di tutta la famiglia. Per ultimo c’è Sema, ovvero Il segno dove si parla della tomba vuota, presagio di future disgrazie, che conduce al racconto della dipartita del padre dell’autore.
La conclusione è un memoir raffinato e struggente,
“capace di dare corpo e forma all’universalità dei classici. Omero ha una definizione per coloro che si sanno esprimere in modo tanto ammaliante: hanno parole alate. Mendelsohn ha parole alate.”
Il libro è certamente incentrato sulla necessità di conoscere di più il proprio padre, un uomo di indubbio fascino, di granitiche certezze, matematico che esaminava ogni cosa scientificamente, nel dettaglio. Quest’ultimo particolare è determinante perché l’autore è un classicista. Ma questo invece di allontanarli, li unisce nel profondo, in un connubio di rara intensità.
Un altro tema espresso nel testo è la ricerca spasmodica di stabilire in che cosa consiste la vera identità dell’uomo. L’autore si domanda quante identità può assumere l’essere uomo. La risposta è che lui ha imparato che il padre, come tutti, di identità ne ha tante e l’autore lo comprende quando parlano insieme della sua omosessualità, che i suoi genitori hanno vissuto nella più totale normalità. Poiché: “La prima cosa che Dio ha creato è l’amore”, una frase citata da Seferis, che è una poesia immortale. Ma questo verso è da mettere assieme al successivo: “la prima cosa che Dio ha creato è il viaggio.”. Come è possibile che Dio abbia creato due prime cose? La risposta è nella divinità e in secondo luogo nel fatto che chi parla è un poeta. E riflettendo infatti le due creazioni sono l’essenza della stessa Odissea.
Un viaggio epico colto e raffinato, un saggio più che un romanzo di grande natura accademica, che non può che essere apprezzato. Una lettura non per tutti, però.

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Belmi Opinione inserita da Belmi    06 Marzo, 2018
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Sulla mia pelle

“Nessuno è più di buon umore di un ansioso, di un depresso o di uno scrittore, quando gli succede qualcosa di grosso”.

Lea ha quarantanove anni, è un’affermata scrittrice e attrice di teatro; la sua vita va avanti anche se non è felice. Un passato con una madre “molto particolare” e un presente non semplice non la rendono serena.

La vita è imprevedibile e quello che pensi sempre che possa succedere agli altri, invece, un giorno bussa alla tua porta. Nessuno è mai pronto e difficilmente lo può essere una donna ansiosa con un marito che la reputa la sua disgrazia.

“Il buono di una malattia è che capisci cosa viene prima. Lo senti senza più incertezza, ed esci dalla ruota del criceto”.

Daria Bignardi racconta in prima persona la svolta della vita di Lea, quando tutte le sue priorità sono rimesse in gioco e la protagonista dovrà finalmente affrontare se stessa. Nuovi incontri, riflessioni, poche risposte e molte domande e soprattutto un’ansia costante.
L’autrice racconta le varie fasi della malattia e noi li viviamo “sulla pelle” di Lea.

Il viaggio non sarà semplice e difficilmente il lettore non si sentirà coinvolto, spesso anche domandandosi se le scelte della protagonista siano o no condivisibili. Ma proprio il fatto di porsi queste domande, la fa diventare più umana e vicina a noi, così tanto da voler spesso allungare una mano per poterla sorreggere nei momenti più bui.

“Non ci sono differenze tra sani e malati, tranne una: i malati hanno più voglia di vivere”.

“Storia della mia ansia” è un libro molto interessante, che consiglio sicuramente alle persone che stanno vivendo una fase particolare della propria vita, ma non solo; l’autrice manda più di un messaggio e anche se non lo fa con uno stile eccelso, i destinatari più ricettivi non mancheranno di coglierlo.

Lo consiglio e lo reputo più adatto a un pubblico femminile, vi lascio con quest’ultima frase:

“Non si prendono decisioni in tempo di guerra”.

Buona lettura!!

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siti Opinione inserita da siti    03 Marzo, 2018
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UN UNIVERSO DI VOCI

È tra gli scrittori europei più importanti del nostro tempo, è il portoghese Lobo Antunes e ha scritto il presente romanzo nel 2012; esso appare ora nella collana “I Narratori” della Feltrinelli.
Si tratta di un’opera divisa in tre grandi sezioni, composte da dieci capitoli ognuna, dedicate rispettivamente ad un venerdì, un sabato e una domenica dell’agosto del 2011. Ogni sezione termina con un cambio di “voce narrante”- laddove in realtà non c’è narratore- con lo scopo di modificare il punto di vista e di migliorare al contempo la comprensione della vicenda. Ed è questo l’aspetto più conturbante della scrittura, per molto tempo non si riesce a capire che cosa si sta leggendo; non c’è narrazione o meglio non c’è il classico narratore che ci mette a parte di una storia, eppure vicenda e narrazione ci sono. Esse vengono a galla costituendosi progressivamente grazie ad un lungo flusso di coscienza , discontinuo, difficile, tratteggiato da una punteggiatura originale ( Saramago, a questo punto, di più facile fruibilità) e, se non bastasse, intervallato ripetutamente dalle voci del passato. Una narrazione sincopata, disturbata, ma soprattutto voci, frasi, motivi ricorrenti che vi si inseriscono concorrendo a delineare i vari personaggi che puntellano la storia. È un universo familiare racchiuso nella mente della protagonista, una donna cinquantaduenne che torna nella casa al mare per venderla e da essa congedarsi, tentando al contempo di dare una giusta collocazione soprattutto al suo personale vissuto trascorso in quella casa e di riflesso al resto della sua esistenza. Lei bambina, orecchini da principessa e petali alle unghie, lei e la sua amica; loro, così diverse per estrazione sociale, lei gentaglia: un padre alcolizzato, una madre irrisolta, tre fratelli; il maggiore reduce dall’Angola, perso in seguito alla guerra nel suo straniamento, un fratello suicida, un altro, il piccolo, sordomuto, frutto di una relazione extraconiugale. Parlano in molti: la madre, il padre, il marito, i fratelli, la nonna, il nonno, la vicina d’ombrellone; questa coralità frammentata è l’essenza della vita della donna.
Ed è condivisibile la tesi di fondo o almeno quella che io vi ho scorto, ricordo che l’autore è uno psichiatra ormai dedito alla scrittura, siamo un io frantumato in una miriade di voci, di frasi, di parole che ci sono state rivolte ed che hanno veicolato fin dalla nostra infanzia una serie di messaggi aperti in un ampio ventaglio dal linguaggio dell’amore fino a quello della riprovazione. Dentro questo ampio spettro si sono poi insinuate tutte quelle parole che abbiamo solo percepito in un contesto di conversazione che non ci vedeva gli immediati destinatari dei messaggi; eppure essi si sono insinuati in noi, hanno concorso a formare la nostra lettura della realtà, hanno giudicato, inveito, pianto.
Primo approccio con Lobo Antunes, nonostante l’estrema difficoltà di lettura riscontrata non posso che riconoscere l’abilità dello scrittore che ha saputo efficacemente alienarmi dalla parola scritta, regalandomi comunque una storia e delle interessanti suggestioni.

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Flavia Buldrini Opinione inserita da Flavia Buldrini    01 Marzo, 2018
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I volti del dolore, lo sguardo dell'amore

I volti del dolore
Lo sguardo dell’amore

“Si parli, semmai, di fragilità, di esseri nati con la pelle più sottile, un bassissimo numero di anticorpi a ogni bene e male del mondo, dal dolore alla tenerezza, malinconia e amore compresi. Persone che le inchiodi con poco, basta un fiore per bucargli la pelle.” Questo è il dramma che Daniele si porta dentro e che, a distanza di anni e in forza del suo faticoso quanto miracoloso superamento, ha il coraggio e la lucidità di mettere a nudo con spietata sincerità tra le pagine di questo avvincente romanzo autobiografico. Nella quotidiana guerra della sopravvivenza, che la sua intensa ‘sensibilità’ (termine a lui dichiaratamente inviso) non riesce a sostenere, l’alcool diventa il suo alibi, il suo essere ‘altrove’ rispetto ad una realtà troppo cruda da guardare in faccia, trasformandolo in un ‘altro’ affrancato dai freni inibitori e dal “demonio” della paura: allora ben venga la sospirata “dimenticanza” che le pantagrueliche sbornie gli procurano, salvo poi ritrovarsi, non ricordando neanche come, tutto ‘ammaccato’, vittima di qualche pestaggio per i suoi eccessi, e senza sapere nemmeno dove la sua auto sia finita. Per i genitori è uno strazio avere un figlio di 25 anni - a cui vogliono molto bene - ridotto in questo stato, tanto che la madre, una sera, per la disperazione si sarebbe gettata dal ponte (dopo averlo fin là accompagnato) insieme a lui, se non fosse stato egli stesso ad avere il ‘buon senso’ di ricondurla a casa. Ed è soprattutto per l’affetto che Daniele nutre nei loro confronti che, una mattina, si risolve a fare una telefonata ad un suo amico poeta che si rivelerà essere la sua salvezza. Nonostante il suo disagio, anzi probabilmente particolarmente in virtù di questo, infatti, il protagonista si cimenta con successo nella scrittura - tanto da aver già pubblicato come autore in influenti riviste e da essere invitato ad una prestigiosa lettura - e questo sarà il gancio che lo trarrà fuori dal baratro. Così, troverà lavoro in una cooperativa di servizi per l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma e, paradossalmente, proprio un impatto così duro – che comprensibilmente spaventava la madre – gli rivelerà, attraverso quella galleria di nude sofferenze che denominerà “la casa degli sguardi”, appunto, l’autentico volto della vita, che è come un’erma bifronte nel suo terrificante dualismo di bene e male, laddove, tuttavia - se si guarda attentamente -, l’orrore viene vinto dalla potenza trascendente dell’amore, come insegna Cristo sulla croce. A questa consapevolezza Daniele arriva per gradi, dopo aver toccato il fondo dell’abisso al culmine dell’afflizione per aver appreso della morte inaccettabile di un bambino che egli tra sé chiamava Toc Toc, perché, ogni volta che passava sotto la sua finestra, il piccolo malato cercava un contatto bussando sul vetro e gesticolando, come una tacita richiesta di amicizia. Dopo una colossale sbronza per affogare il suo patema nell’alcool, con tutti gli effetti collaterali inclusi, tra cui l’ennesimo pestaggio, trovandosi ad interrogare il Crocefisso in una chiesa, di lì a poco, come in un misterioso disegno divino, otterrà la risposta agognata in una sorta di epifania che risolverà definitivamente il suo tormento, materializzata nel gesto a tutta prima incomprensibile di una suora, capace di vezzeggiare un bambino sfigurato nel volto, laddove egli era passato accanto inorridito. Meditando lungo la riva del Tevere, improvvisamente gli si squarcerà il fitto velo di tenebre che gli impediva di guardare in faccia la realtà. È stato un po’ come il bacio del lebbroso di S. Francesco, da cui poi ha intrapreso il suo cammino di santità: è accogliendo finanche il male che questo si trasfigura in un bene ulteriore, così come il popolo d’Israele, dopo essere stato morso dai serpenti velenosi, trovava rimedio mirando l’asta con il serpente di bronzo innalzata da Mosè, e così come nostro Signore, assumendo su di Sé tutti i peccati, ci ha redenti, avvolgendoci della Sua luce sfolgorante di resurrezione.
“Improvvisamente, mi fioccano davanti agli occhi gli ultimi anni della mia vita. Quante parole, nomi di droghe e malattie, soltanto per dire che mi manca il coraggio per vivere e veder vivere le persone che amo, accettando la scure del destino, perché solo così può essere, consumandomi nella vicinanza, nell’accettazione di ogni orrore possibile vivendolo per quel che è veramente: un diaframma. Un velo nero da strappare. Dietro quel velo resistiamo bambini, tutti. Sempre.”
Da questo momento, infatti, Daniele rinascerà come uomo nuovo, comunicando ufficialmente ai suoi di aver chiuso con l’alcool - e questa volta sarà sul serio -, perché attraverso il lavoro, che pure ha avuto un ruolo determinante nella sua guarigione, distogliendo il pensiero dalle fissazioni alle immediate esigenze pratiche, oltre al cameratismo dei suoi colleghi così spontanei (nel loro pittoresco dialetto romanesco) quanto leali - pronti anche a coprirlo per le sue ‘indisposizioni’ -, realizzerà la sua serenità interiore, potenziando anche la scrittura, mettendola a servizio proprio dei volti del dolore incontrati all’ospedale, proponendo al presidente un’antologia di poesie che sarà accolta favorevolmente, ciò che gli consentirà di custodire quanto di prezioso vissuto, un’antitesi a quella ‘dimenticanza’ cui anelava tanto in precedenza: “Loro dentro l’ospedale, un mucchio di bambini sudati, ansimanti per il gioco sfrenato, belli di tutta la bellezza, di tutte le terre del mondo. Io fuori, bucato dai loro sguardi, ognuno inchiodato nella memoria. «Voglio ricordare tutto»”.





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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    01 Marzo, 2018
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Sei cattivo, tu sei.. sei amaro come il veleno.

Mai soprannome poteva essere più calzante ed icastico: Amaro.
"Tutto era cupo in Amaro.
Da sempre servo dei potenti, da sempre aguzzino dei disperati, se intravedeva in qualcuno delle potenzialità, un qualsiasi talento, si scatenava e si chetava solo quando aveva disintegrato psicologicamente la vittima designata, costretta a strisciare come un serpente, ma senza quella bella pelle lucida, senza quell'armonia.
Amaro era l'ossido che aggredisce il metallo, lo scorpione in attesa sotto la sabbia, la putrescina della carogna di un cane, era la guerra, il razzismo, l'opportunismo, il nazista che cavava denti d'oro ai deportati. Non provava affetto per nessuno e l'idea che nessuno ne provasse per lui lo irritava ancora di più perchè lo leggeva come un gesto di mancata sottomissione.
Era cattivo. In un unico termine che meravigliosamente lo sintetizzava, era cattivo ed era nato così. Un castigo di Dio."
Amaro come il veleno che pare circolare nelle sue vene e che sembra aver dissolto ogni traccia di umanità in lui, una bestia che si nutre del dolore degli altri, che si rinvigorisce derubando - come il più crudele dei re - i pochi averi e la dignità della povera gente che dimora nel suo castello.
Già, perchè Amaro è il 're' della Socia, una fatiscente costruzione nella città vecchia di Bari, con le pareti putrefatte dalla muffa che trattengono all'interno un'aria fetida, ammorbante che non trova riciclo attraverso le finestre serrate ma solo qualche esile via di fuga dalle numerose crepe lungo le mura esterne. Un luogo senza luce e senza speranza, divenuta unica possibile dimora per gli scarti della società, uomini, donne, bambini orfani ma anche intere famiglie diseredate incapaci di trovare una sistemazione più dignitosa e costretti a subire le angherie del re Amaro in cambio della sua 'ospitalità'.
L'immagine che meglio rappresenta la Socia è quella di una bolgia infernale nei cui piani bassi prostitute e pedofili vendono e comprano sesso, nei piani intermedi assassini senza scrupoli massacrano e uccidono chi non paga o si ribella a quello status quo occultando i loro corpi nelle fogne o bruciandoli nel 'camino', e su tutto domina dal suo alloggio all'ultimo piano il re, Amaro.
"Perchè usi pagine della Bibbia?", chiese sbalordito il giornalista.
"Sono molto sottili, bruciano meglio", gli rispose il vecchio senza guardarlo, dando una generosa boccata alla sigaretta che si era appena rollato con l'incipit dell'Apocalisse.
"Che cosa c'è al primo piano?"
"Le puttane".
"Al secondo?"
"Il vizio".
"Al terzo?"
"Il camino".
"E all'ultimo?"
"Amaro."

Non tutti però si lasciano soffocare dai tentacoli della Socia, non tutti si lasciano corrodere dall'ossido della brutalità e della sopraffazione: c'è chi come Anna, la puttana letterata, finita in quel tugurio dopo la morte dei suoi genitori, protegge come può la sua purezza d'animo essendole stata estorta con la forza quella del corpo e per questo motivo coltiva sempre la sua passione per la poesia acquisita grazie agli studi classici, unica eredità della sua famiglia di cui Amaro non ha potuto derubarla.
E poi ci sono i bambini, come Lorenzo o Francesco nominato dai suoi coetanei 'Vorro' a causa di una cicatrice a forma di V sulla fronte, resi orfani dalla guerra o dallo stesso Amaro, costretti a barattare sin da piccoli la loro innocenza per un posto nella Socia in cui dormire e mangiare e senza mai rinuciare alla speranza in un futuro migliore.

E' una storia che lascia .. l'amaro in bocca, sarebbe proprio il caso di dire, quella presentata dall'autore Marcello Introna in questo suo secondo romanzo, dopo l'esordio fortunato con Percoco.
Una storia cupa, nera, come quello scorcio del lungomare di Bari riportato sulla copertina e che personalmente, essendo nato in Puglia, associo sempre a colori ben più luminosi, solari, i colori del mare e del cielo azzurro.
Devo ammettere che questo romanzo mi ha letteralmente disorientato, riportando un pezzo di storia di questa città che conoscevo solo in parte, eventi documentati di cui però ignoravo le tragiche conseguenze.
L'autore infatti interseca le nefandezze compiute da Amaro, frutto della sua inventiva seppur ispirate dall'effettiva condizione di disagio in cui versava la gente più umile, con le atrocità derivanti dalla guerra: la narrazione si colloca nel periodo immediatamente successivo alla caduta del fascismo quando Bari venne scelta dalle truppe alleate come punto di 'ingresso' per la progressiva liberazione della penisola dalle forze militari tedesche.
E per quanto sia noto a molti il tremendo bombardamento aereo da parte dell'aviazione tedesca la sera del 2 dicembre 1943 che si concretizzò con la distruzione di oltre 20 navi della flotta alleata attraccate nel porto di Bari (un'incursione a sorpresa di tale portata si era verificata solo a Pearl Harbor) e la morte di oltre 1000 civili, tanti forse non sanno che una di quelle navi alleate trasportava centinaia di bombe cariche di gas mortali a base di iprite con cui il governo inglese intendeva rispondere ad un probabile attacco chimico paventato da Hitler ai danni dell'Italia traditrice; bombe che invece esplosero nel porto di Bari avvelenando l'aria e la pelle di coloro che si trovavano in quella zona. L'ospedale fu invaso da migliaia di persone, soldati e non, moltissimi bambini, con gravi irritazioni agli occhi e la pelle ricoperta da pustole enormi che i medici, ignari della causa, non riuscivano a diagnosticare correttamente e curare in tempo utile.
Ed ancor più vile (seppur vano) fu il tentativo delle alte cariche del governo inglese di insabbiare l'accaduto con la compiacenza delle autorità locali in cambio di favori reciproci, sfruttando proprio quella patologica ed antica cancrena dell'amministrazione politica italiana troppo incline alla corruzione e concussione, la stessa che ha consentito a personaggi come Amaro di diventare un 're', di accrescere smisuratamente il suo potere con gli introiti inesauribili derivanti dalla prostituzione di donne e bambini, sopprimendo sul nascere qualsiasi forma di protesta o ribellione e tutto sotto gli occhi bendati delle istituzioni.

E' un pugno nello stomaco questo romanzo, è come se la rabbia, la sofferenza e l'impotenza dinanzi ai tanti soprusi subiti dai personaggi della storia diventassero reali e percepibili dallo stesso lettore; una sensazione simile a quella che ho provato leggendo altri grandi romanzi storici, come I pilastri della terra o La cattedrale del mare.
E Marcello Introna regge senza ombra di dubbio il confronto con i suoi più noti colleghi sfoggiando uno stile di scrittura raffinato e fortemente connotativo, capace di rendere estremamente vivace e scorrevole la narrazione storica ma, al contempo, incisiva e suggestionante la descrizione di tutti i personaggi, inclusi quelli minori, la cui caratterizzazione viene sempre arricchita dal racconto - magistralmente condensato in poche pagine - della loro vita e delle vicende, quasi sempre tragiche, che hanno lacerato senza cicatrizzare la loro indole e spianato un destino che per tutti, in un modo o nell'altro, confluisce senza via di fuga nella Socia.
"Siamo in cento qui, forse centouno, oppure centotrè. Viviamo nella Socia e nella Socia dobbiamo rimanere. Non tutti hanno il permesso di uscire e, quando lo fanno, non sempre ritornano."

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silvia t Opinione inserita da silvia t    01 Marzo, 2018
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Il fondo della bottiglia

Una luce appiccicosa attraversa il liquido ambrato di un bicchiere, preannunciando la disgrazia e la catarsi.

La sottile apatia tipica del sud degli Stati Uniti, almeno come noi europei siamo abituati a pensarlo, abitata da individui ancora in odor di separazione razziale, bianchi ricchi e domestici neri, ranch e giovenche, cow boy e stalloni.

I tuoni e i lampi che porteranno la pioggia, che ingrosserà i fiumi e che inonderà le strade; l'alcol che placherà la noia delle lunghe ore trascorse in attesa di uno spiraglio di sole e di normalità, che placherà i rigurgiti del passato che è anestetizzato, lontano, in un tempo di cui non si è certi, che sbiadisce al ricordo, rendendolo quasi impalpabile incerto.

Quel passato sotterrato riemerge sotto cumuli di terra e come la mano di un sepolto vivo reclama e pretende la luce e la salvezza.

Quella notte, fatta di alcol, di tuoni, di lampi e di pioggia è il passato a bussare alla porta di P.M stimato avvocato dal passato nebuloso, sposato ad una ricca donna e amico di facoltosi possidenti, con cui giocare a bridge, oziare ai bordi di una piscina o cavalcare in sella ad uno stallone.

In quella notte umida, inospitale e foriera di sventure un uomo reclama la sua libertà e la pretende da P.M., che è invaso da paure ancestrali, sensi di colpa atavici e timori sociali superficiali; di colpo la realtà è distorta, proprio come attraverso un bicchiere pieno di whisky; i colori e le forme si fanno indistinti e il futuro si fonde con un passato che non vuol obliarsi, che non vuol sparire.

La voglia di normalità, di non intaccare il pur precario equilibrio, fa sì che tutto sia una rincorsa a sotterrare qualcosa che recalcitra e non vuol morire, al contrario vuol rinascere e nonostante tutto rinascerà, ma ad un prezzo molto alto.

Se vi troverete tra le mani questo romanzo non aspettatevi il solito Simenon, sarà una lettura amara, odierete ognuno dei personaggi, ma non potrete non assolverli, perché avranno debolezze conosciute e non sarà facile condannarli; li vedrete come pedine di un destino infausto che dovrà compiersi, privi quasi di volontà, incapaci di vedere oltre il proprio protetto mondo.

Un senso di vertigine vi colpirà e il lessico di Simenon, sempre perfetto e mai banale vi sosterrà in questo viaggio, tenendo la flebile fiammella della speranza sempre accesa, fino alla fine.

Conoscere le note biografiche dell'autore aiuterà a comprendere i percorsi mentali che hanno portato alla stesura di questa storia, ma se ne fruisce in modo davvero piacevole anche senza.

Buona lettura, essersi sbronzati fin quasi al coma etilico non è strettamente necessario, ma può essere utile!

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ALI77 Opinione inserita da ALI77    01 Marzo, 2018
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IL MONDO DELLE MADRI

Il tema trattato in questo romanzo è molto delicato e quindi sono in forte difficoltà nel dover “giudicare” la storia che ho letto, una madre non si giudica, non si può immaginare cosa prova fino a quando non si vive in prima persona questo meraviglioso dono della vita.
Quindi cercherò di dare una mia opinione affidandomi solo alle sensazioni e alle emozioni che ho provato leggendo il libro e alla mia esperienza come zia di due nipoti.
Inizio con il dire che la storia è scritta da due donne che non fanno parte del mondo della letteratura o del giornalismo, ma che nella loro vita fanno tutt’altro, anche se loro hanno dichiarato che vogliono continuare a scrivere insieme delle altre storie.
Sentire l’esigenza di raccontare la maternità può essere terapeutico per superare un momento difficile ma credo che sia impossibile dimenticare, ti rimane una ferita dentro che non si rimarginerà più. Lo sa bene Maria che scopre di essere incinta, questo bimbo lei lo desidera e crede che sia arrivato il momento giusto per diventare madre.
Nello stesso momento anche Alma, la sua migliore amica, rimane incinta ed entrambe si trovano ad affrontare una gravidanza nello stesso periodo.
Ma le cose non vanno come sperano, le autrici ci svelano fin dall’inizio quale sia il destino di Alma e di Maria, la prima porterà a termine la gravidanza mentre la seconda perderà il bambino. Queste informazioni ci vengono date all’inizio del testo, per questo non sono spoiler e inoltre ci fanno apprezzare maggiormente le emozioni e i sentimenti che le due provano in situazioni differenti.
L’amicizia tra Alma e Maria inizia al liceo e continua fino ad oggi, le due rimangono unite nonostante non siano sempre state vicine, entrambe hanno percorso la loro strada e si sono allontanate per poi riavvicinarsi.
Le due si danno coraggio a vicenda e la loro amicizia rimane salda nonostante ci possano essere delle gelosie o delle incomprensioni legate ai diversi momenti della vita.
Alma è un personaggio che si trova spiazzato nel diventare madre, è impreparata e non sa come affrontare la cosa, di certo non c’è un manuale di istruzione dove ci sono i comportamenti da seguire o meno quando nasce un bambino, quindi credo che le sue paure e insicurezze siano comuni a molte donne. Quando ha il bambino tra le braccia tutto cambia e nulla ha più importanza, il resto diventa un contorno, capisce che le priorità cambiano e che si è responsabili di un’altra vita.
Maria, invece, è una donna che si porta dentro il grande dolore di non essere riuscita a diventare madre, è sola anche se ha un compagno, ma questa solitudine la prova per il fatto di non aver potuto far nascere il bambino che lei tanto desidera. Si sente però anche umiliata, difettosa, diversa per non essere riuscita a portare a termine la gravidanza, nonostante siano cose che possono succedere Maria si dà la colpa di quello che le è accaduto. E devo dire che mi sono trovata molto vicina a questo personaggio, perché ci sono molte donne che per vari motivi, per età, per mancanza di un partner, per il lavoro, non possono avere un bambino anche se lo desidererebbero . E questo provoca un grande senso di vuoto con il quale si deve convivere o quantomeno si deve accettare, come dicevo all’inizio non tutte le donne hanno il dono di essere madri.
Entrambi i personaggi vivono a loro modo la possibilità di diventare genitore, le autrici secondo me sono riuscite a scavare nella psicologia delle due donne e a farci conoscere la loro vita prima quando erano giovani e spensierate e oggi che invece sono cresciute.
Il marito di Alma e il compagno di Maria sono marginali alla storia e non funzionali, perché la loro presenza a mio avviso, in questo testo non è rilevante, perché le autrici li hanno relegati ad un ruolo secondario.
Maria non prova rancore o rabbia per il fatto che Alma diventerà madre e lei no, ma riesce a superare questo scoglio perché l’amicizia tra di loro è sincera e capisce che di certo non è colpa dell’amica quello che le è successo, anzi le sta vicina nella sua gravidanza.
Ho apprezzato entrambe le donne, mi sono sembrate molto vere, credibili e molto simili a tante madri che sperano e fanno dei progetti sul loro futuro bambino e alcune volte le cose possano andar bene e altre no.
Il lettore viene pervaso dalle emozioni che le due donne provano, viviamo le loro paure, le angosce, le preoccupazioni, il dolore ma anche la gioia e la felicità.
Laura e Manuela, in questo sono state molto brave a coinvolgere il lettore nella narrazione, ha aiutato sicuramente l’utilizzo della prima persona e dei capitoli brevi e alternati con le voci delle due donne.
Non posso negare il fatto che non riesco ad apprezzare appieno il tema trattato, in quanto lo considero troppo delicato e personale, ogni donna sa cosa prova in quei momenti e non riesco a dare un giudizio oggettivo alla storia. Non è la prima volta tuttavia, che leggo testi di gravidanze interrotte o difficili quindi posso dire che forse scrivere aiuta molto a sfogarsi e a liberarsi da questo peso.
Credo che la storia sia sicuramente molto emozionante e vera e penso che sia giusto leggerla anche per rendersi conto di quante difficoltà possano incontrare le future mamme e come possa cambiare la loro vita e il modo di vedere le cose.
Posso dire che consiglio questa storia a chi vuole leggere un romanzo di vita vera, di emozioni forti e con un tema molto particolare e di grande emotività.


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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    26 Febbraio, 2018
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Orsi giganti, Bio-tec, disperazione e... Borne

Avevo buone aspettative riguardo a questo romanzo: il primo Einaudi di genere fantascientifico che mi trovo tra le mani, di un autore abbastanza conosciuto. Oltretutto, le copertine dei suoi romanzi editi Einaudi sono di una bellezza fuori dal comune.
Vorrei cominciare col chiarire una cosa: la fantascienza non è affatto un genere di serie B. Sono pronto ad ammettere che la probabilità di scrivere scempiaggini e banalità potrebbe essere più alta, ma ha delle potenzialità che se sfruttate a dovere possono spingersi dove romanzi "normali" non possono arrivare. Penso a "Cronache Marziane" di Ray Bradbury, penso al "Ciclo delle Fondazioni" di Asimov, penso a "Ubik" e "Ma gli androidi sognano pecore elettriche" di Philip K. Dick (includendoci i due film capolavoro "Blade Runner"). Quindi, chiunque mi venga a dire che la fantascienza non può essere annoverata nell'Alta Letteratura rispondo di leggere i titoli sopracitati (soprattutto Bradbury) e poi ne riparliamo. Tuttavia, bisogna ammettere che non tutti hanno la maestria di questi autori. Jeff VanderMeer, pur non scadendo nella letteratura di serie B, rimane lontano anni luce dai suoi predecessori (e, spero per lui, maestri da imitare). Sì, quella di Borne è una storia come potrebbero essercene tante, niente di più; ben scritta, ma in certi tratti pesante e ripetitiva, incapace di dare una profondità che possa giustificarne la lentezza di certi tratti.
Non me la sento di stroncare completamente questo romanzo, tuttavia non riesco a dargli note di particolare merito: è una storia come potrebbero essercene tante, senza picchi di originalità né di bellezza.

La storia è ambientata in un mondo ormai ridotto a un cumulo di macerie, controllato da un orso gigante e capace di volare di nome Mord. Mord è un prodotto della Compagnia: un'entità dal passato non molto chiaro che sembra essere la causa della rovina del mondo, produttrice di biotecnologie che lentamente hanno preso il controllo del mondo. Lo stesso Mord è un bio-tec, una creatura biotecnologica creata dalla Compagnia che alla fine gli si è rivoltata contro.
La nostra protagonista si chiama Rachel ed è una giovane cacciarifiuti: sì, perché ormai l'umanità può cercare di tirarsi avanti soltanto arrancando, scavando tra gli scarti e tra le macerie. La vita è una lotta continua: si è perennemente in pericolo e scendere in strada può anche significare la morte per mano di altri esseri umani disperati.
Rachel vive con un uomo di nome Wick in un luogo che hanno tempestato di trappole: la Scogliera, nella quale tirano avanti vendendo droghe biotecnologiche. Tuttavia, qualcosa nella città sta cambiando, le gerarchie si stanno rimescolando, e la vita dei due abitanti della Scogliera cambia del tutto con l'arrivo di una creatura sconosciuta: Borne.
Rachel trova Borne attaccato alla pelliccia di Mord; lo prende e lo porta con sé, affezionandoglisi come fosse un figlio, nonostante non riesca a capire cosa sia. Borne si dimostra in grado di apprendere più velocemente di qualsiasi essere umano, e comincia a crescere vertiginosamente di dimensioni. L'affetto che Rachel prova per Borne si trasformerà presto in paura, ignorando totalmente quale sia lo scopo di questo essere e il suo ruolo in quel mondo grigio e disperato.

"Una scintillante barriera di stelle, sparpagliate e fosforescenti, e ognuna potrebbe ospitare la vita nei pianeti che le orbitano intorno. [...] C'era qualcos'altro al di là di tutto questo, qualcosa che non avrebbe mai saputo di noi e delle nostre lotte, non se ne sarebbe mai curato, e sarebbe andato avanti senza di noi."

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    26 Febbraio, 2018
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La parete di luce

L’adorazione e la lotta è un romanzo sulla letteratura, un sasso scagliato contro lo stagno della letteratura morente per farne riemergere l’immagine depositata sul fondo di Letteratura come Arte. E’ un romanzo scritto contro le logiche del mercato editoriale che hanno voluto fare del romanzo un prodotto, che deve rientrare in un genere e che deve essere scritto secondo certi dettami del gusto per poter essere appetibile. Ma l’arte non è classificabile secondo logiche di mercato, deve anzi uscire dalle logiche per essere qualcosa di diverso dall’artigianato o dal prodotto di serie. Moresco si ribella a scrittori come Baricco che definiscono se stessi artigiani o a scrittori come Simenon che sfornano prodotti vendibili, rinunciando al vero ruolo della letteratura. La concezione che Moresco ha della letteratura è di sfondamento e ne dà una immagine bellissima presa da Jack London Zanna Bianca. Il lupacchiotto che dalla caverna teme l’apertura che lo separa dal mondo fuori della caverna. La caverna richiama anche l’immagine della caverna di Platone. La letteratura dovrebbe quindi avere secondo Moresco un ruolo di sfondamento e forse di conoscenza che è lo stesso ruolo che un filosofo come Schopenhauer rivendicava per l’arte. Non per niente Moresco parla di verità dell’arte e con questo non intende il realismo ma qualcosa di completamente diverso. “E infatti come la realtà non è realistica, la verità non è veritiera”. Moresco rivendita per l’Arte un ruolo di avvicinamento alla Verità grazie alla sua capacità di dire qualcosa di più vero del verosimile o dell’autobiografico, di più autentico e profondo che sfondi le apparenze e le evidenze di questa vita materiale. In un certo senso Moresco fatica a dare un nome a questa verità più vera non essendo credente e non essendoci quindi per lui una Verità assoluta come per il credente. Eppure la evoca citando Teresa D’Avila e il suo cammino mistico che secondo Moresco ha qualcosa di erotico e in effetti, per il credente la Verità è l’Amore. L’Arte dovrebbe avere comunque la funzione di sfondare le apparenze e il velo (di cui parlano i mistici) e di gettare uno sguardo oltre, indipendentemente dalle convinzioni dello scrittore. Anche scrittori grandi ma sgradevoli per le loro idee hanno questa funzione. Moresco ne cita alcuni esempi, il più eclatante è Celine. Un grande scrittore come Celine, artista e non artigiano, dice quell’altra parte di verità, per molti indicibile, eppure vera, per cui il suo ruolo è sempre quello di sfondare la parete di luce e di gettarsi oltre. La rivendicazione di un ruolo per la letteratura come Arte, il grido di guerra contro le logiche asfittiche del mercato e la corruzione del palato del lettore sono la cosa più bella del libro.
Moresco prende in considerazione molti scrittori e ce li presenta o meglio ci mostra se stesso mentre è alle prese con questi scrittori, mentre mangia la pasta senza sale, piscia nella bottiglia tagliata e legge, legge, legge. Gli autori non ce li presenta in modo canonico e ortodosso. Ma è come se con ognuno di questi scrittori ci fosse una discussione in atto, un discorso iniziato a cui il lettore si trova ad assistere come origliando alle conversazioni altrui. Anche le citazioni di tali autori sono molto moreschiane e non è che facciano capire molto dello stile dell’autore. Spesso sono citazioni buffe di tipo copro-ano- genitale che sono quelle che meno danno l’idea del modo di scrivere dell’autore ma che più rendono il tipo di rapporto che Moresco ha con l’autore. Buffe anche le sue considerazioni suggerite dalle fotografie degli autori. La faccia di Celine, povero Celine. Bello lo slancio affettivo con cui ci presenta alcuni autori come Tolstoj, Dostojevskij, Bulgakov, Cervantes. Altre sue opinioni per esempio su Mann o su Pirandello potrebbero anche sembrare discutibili. Povero Calvino. Ma quello che resta al lettore è il marchio di questo suo desiderio di autenticità, di verità; questo appello al mercato perché non sia solo bieco mercato, morte dell’arte, perché gli editori si spingano oltre all’allevamento di persone lobotomizzate e incapaci di sentire e di pensare.
“Invece la letteratura è un varco che oggi è un po’ meno sorvegliato degli altri proprio perché si pensa che non conti più nulla e che sia stato completamente normalizzato, una crepa attraverso la quale-soprattutto nei momenti in cui tutto appare chiuso, bloccato, e in cui grava una cappa tremenda su ogni cosa e sembra impossibile l’invenzione della vita-può passare qualcosa capace di toccare zone più segrete e irradianti nascoste in qualche punto profondo della nostra vita e del mondo”.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    25 Febbraio, 2018
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Quando la Storia diviene grande narrativa.


“Resto qui” di Marco Balzano: un romanzo dalla prosa essenziale, che non fa uso di inutili metafore, ma che va diritto al cuore nel descrivere fatti, situazioni, sentimenti. Anche l’amore, come l’odio e il dolore sono sussurrati, non urlati, ma non per questo meno forti. Personaggi veri, pur nella loro fittizia creazione artistica, che restituiscono credibilità ai luoghi e alle vicende storiche: tali sono Trina e Erich, Michael e padre Alfred, Ma’ e Pa’. Lo sfondo è quella parte del nostro paese più vicina al confine con l’Austria e con la Svizzera, dove il bilinguismo è stato per un lungo periodo più un problema che un vantaggio. Siamo a Curon in Val Venosta, dove durante il ventennio fascista e negli anni della seconda guerra mondiale la popolazione si sentiva più affine e vicina alla Germania che all’Italia e insegnare il tedesco era reato. Paradossalmente il Reich veniva visto come garante di libertà e benessere. L’illusione tuttavia sarebbe svanita con lo scoppio della guerra. Questa la situazione lacerante per molte famiglie del luogo, come quella di Trina e Erich, che dopo aver visto impotenti sparire la giovane figlia che segue gli zii attratta dal mito nazista, assistono all’arruolamento del figlio Michael nell’esercito del Fuhrer. Essi stessi, costretti a nascondersi nei boschi, dopo la diserzione di Erich, ormai disgustato dalla guerra, faranno infine ritorno nel loro paese ormai segnato dalle vicende belliche, dopo avere sofferto povertà e fatica, fame e solitudine.
La vita a Curon è ormai minacciata dalla costruzione imminente della diga che cambierà l’aspetto di tutto il territorio e sottrarrà la terra all’agricoltura e alla pastorizia, spazzando via case e masi.
“Il silenzio fermo delle montagne era sepolto sotto il rumore incessante delle macchine che non si fermavano mai”.
Anche la fede viene messa a dura prova, non resta che trovare in se stessi le risorse e le energie per andare avanti: “ La domenica siamo andati a sederci sulle panche della chiesa per l’ultima messa . Sono venuti a tenerla decine di preti da tutto il Trentino […..] È stata una messa che non ho ascoltato. Troppo presa a conciliare l’inconciliabile: Dio con l’incuria, Dio con l’indifferenza, Dio con la miseria della gente di Curon […..] Nemmeno la croce di Cristo si conciliava coi miei pensieri, perché io continuo a credere che non valga la pena morire sulla croce, ma è meglio nascondersi, farsi tartarughe e ritirare la testa nel guscio per non guardare l’orrore che c’è fuori.”
Solo la torre del campanile, così come oggi la si può ammirare, emergerà infine dalla valle allagata, simbolo eterno della violenza dell’uomo sull’ambiente.
La vicenda dolorosa di personaggi tenaci e coraggiosi diviene dunque il pretesto per parlare dell’arroganza del potere e dell’ipocrisia della politica.
Un libro bellissimo, profondo e commovente.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    22 Febbraio, 2018
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Marie...e tutti gli amori ancora possibili




Parigi, anni '30.
Marie è una donna di circa trent'anni, è sposata con Jean...e lo ama molto.

All'inizio del romanzo sembra quasi di rivedere Elisa, la protagonista de "La donna di Gilles", una donna che vive in funzione del suo uomo, esiste solo in quanto "moglie di".
Anche Marie trabocca d'amore per il suo Jean, non lo perde di vista neanche per un attimo, si adopera affinché lui possa godere sempre delle giuste atmosfere, sia in casa, sia fuori, si dona a lui totalmente pur non ricevendo, in cambio, un sentimento della stessa intensità.
Ma il suo è più un ardore cerebrale, tutte le sue amiche invidiano il suo rapporto perfetto, la sua devozione, il legame indissolubile che la unisce al suo uomo.
Apparentemente.
Perché così deve essere.
In realtà Marie vive la sua vita tenendola imbrigliata nelle redini del controllo, incatenata in un'esistenza circoscritta al marito, ripiegata su se stessa, limitata da questo amore che vive (quasi solo) grazie a lei, fino a quando, un giorno, una mattina d'estate, distoglie per un attimo lo sguardo dal suo uomo e decide di mollare queste redini, e di avere le mani libere, libere di cercare...
Cerca una Marie "non assorbita da un amore, ancora ricca di tutti gli amori possibili".
Inizia un processo di liberazione, in cui lei cerca se stessa, l'indipendenza perduta, un desiderio sconosciuto capace di darle nuova forza e fiducia.
Marie non è Elisa, smette di riflettersi nel volto di un'altra persona, e non soccombe sotto il peso del suo stesso amore.
Ci sarà un vero e proprio viaggio interiore che la riporterà ai sapori dell'infanzia, alla libertà della giovinezza, a prendere coscienza della bellezza della vita che le scorre intorno.

La scrittura della Bourdouxhe in questo romanzo è rarefatta, tratteggia con poche pennellate una figura complessa, donandole grazia e forza, eleganza e passione, senza mai definirne bene i contorni...perché la figura di Marie è in divenire, continuerà a crescere e a delinearsi anche dopo di noi.

Un romanzo del 1943, ma apparso in Francia solo negli anni '80.
Non mi sorprende affatto che sia stato "ignorato" per quasi mezzo secolo...troppo alto il rischio che spingesse ad un risveglio femminile collettivo.
Ancora oggi molto attuale.

75 anni portati benissimo.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    15 Febbraio, 2018
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Fosca, Valeria e Genova

Fosca e Valeria: due donne di circa quarant'anni, di Genova; due donne ferite dalla vita, tradite, ingannate dai loro affetti più cari, da chi credevano più vicino. Racconta la storia triste e malinconica di queste due protagoniste il nuovo romanzo di Sara Rattaro, pubblicato nel mese di febbraio 2018.

Si tratta del primo romanzo che leggo di quest'autrice, una lettura che mi ha convinta e coinvolta soltanto a metà.

La narrazione scorre facilmente, lo stile dell'autrice è semplice ed essenziale, la sua prosa fluida si fa leggere velocemente e volentieri. Ho notato tuttavia una certa banalizzazione in alcuni dialoghi, dove si fa un uso sicuramente eccessivo del punto esclamativo.

Le situazioni che vengono raccontate sono molto tristi, le due protagoniste vivono entrambe momenti drammatici e sconfortanti delle loro esistenze. Tali vicissitudini sono narrate in prima persona da Fosca e da Valeria: purtroppo ho riscontrato una focalizzazione interna troppo simile tra le due donne: è vero che sono entrambe quarantenni, genovesi e sfortunate, ma devo ammettere che riuscivo a capire quale delle due stesse raccontando solo dall'intestazione del capitolo.

Sicuramente non è un romanzo sull'amicizia. Leggendo la sinossi mi ero fatta l'idea -sbagliata- che il libro raccontasse la storia dell'amicizia nata fra Fosca e Valeria. In realtà vi si narra del loro incontro e della loro conoscenza, ma non si tratta certo di amicizia, quanto del confronto fra due destini sfortunati e fra due diverse solitudini. Si racconta come Fosca abbia affrontato un momento difficile, e come lo abbia fatto Valeria (nel frattempo le due si sono conosciute).

Non vorrei comunque che chi legge questa recensione si facesse un'idea troppo negativa del romanzo: si tratta di una lettura facile ma non eccessivamente banale. Inoltre vengono affrontate tematiche non certo superficiali come l'abbandono, la malattia, il tradimento, la solitudine e l'amore, che possono far riflettere sulla vita quotidiana di chiunque.

In conclusione, “Uomini che restano” è un romanzo adatto a trascorrere qualche ora immersi in una piacevole lettura senza eccessive pretese.

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Belmi Opinione inserita da Belmi    14 Febbraio, 2018
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Una Kinsella diversa

Nella vita sono molti gli insegnamenti che riceviamo, alcuni li dimentichiamo mentre altri rimangono più impressi nella memoria. Mio nonno, che non c’è più, mi diceva sempre che per conoscere fino in fondo una persona prima dovevamo mangiarsi insieme diversi “sacchi di sale”; mia nonna, che tuttora è al mio fianco, invece mi dice sempre che le sorprese non le vuole ricevere perché a lei non piacciono.

Scusate il lungo preambolo, ma questa premessa può essere utile al lettore che si avvicinerà a questo romanzo.

Dan e Sylvie stanno insieme da ormai ben dieci anni e hanno due splendide gemelle di cinque anni (adorabili).

“Siamo sempre stati quel tipo di coppia. Uniti. Profondamente connessi. Ci leggevamo nel pensiero. Finivamo uno le frasi dell’altra. Pensavo che non ci riservassimo più sorprese. E questo dimostra quanto poco ne sapessi”.

Una coppia perfetta che con tutto l’ottimismo possibile si ritrova a fare una visita insieme. Il dottore allegramente gli comunica che poiché l’aspettativa di vita è aumentata, possono ritenersi felice di sapere che trascorreranno ancora insieme i prossimi sessantotto anni.

Quella che doveva essere una semplice visita rivoluzionerà invece il modo di pensare e gli equilibri della coppia “perfetta”. Quello che parte come una commedia divertente, sfiorando anche il grottesco, a un certo punto cambia registro affrontando tematiche più profonde.

Il libro parte lentamente e solo dopo aver superato la metà, ingrana in maniera più coinvolgente. Una Kinsella insolita che affronta il matrimonio mostrandone più aspetti. Segreti, sospetti, fiducia, passato e futuro, tutto verrà messo in discussione, in un crescendo di emozioni ed equivoci. Spesso quello che crediamo di sapere è davvero molto lontano dalla realtà. Fino a che punto conosciamo gli altri, ma soprattutto quanto ci conosciamo?

Un libro che si presenta come una commedia ma che in realtà fa riflettere il lettore. Dare una valutazione al libro non è facile, da una parte andrebbe valutato come letteratura rosa, anche se alla fine il libro non lo è del tutto. Valutarlo come romanzo creerebbe il problema inverno. Posso dire che la Kinsella ha utilizzato uno stile rosa per raccontare una storia che oltre a tinte rosa ne ha molte di più.

L’autrice è riuscita a sorprendermi raccontando una storia molto diversa dalle altre. Lo consiglio a un pubblico femminile consapevole, questa non è la solita storia rosa. In maniera molto chiara la Kinsella mette in risalto la mente femminile analizzandone tutte le sue contraddizioni e soprattutto mettendo in evidenza tutte le paranoie che ci facciamo.

““Capisco l’idea di “tenere vivo il matrimonio”. La capisco benissimo. Ma le sorprese, no”. Scuote la testa con una certa enfasi “Le sorprese hanno la brutta abitudine di andare a finire male””.

Buona lettura!

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Fr@ Opinione inserita da Fr@    13 Febbraio, 2018
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Omicidi ieri, sangue oggi

Ci sono lavori che non avrei mai potuto fare: il chirurgo, l’infermiere, il macellaio… e direi anche il giornalista di nera. Perché io, a differenza dei due protagonisti di questo nuovo thriller tutto italiano, non potrei mai e poi mai avere “nostalgia del sangue”.

“Nostalgia del sangue” è un romanzo giallo-noir-thriller scritto da due autori italiani che si celano dietro lo pseudonimo di Dario Correnti. Quindi il lettore non solo è posto davanti al terribile caso che sta sconvolgendo la zona della Bergamasca, ma è anche desideroso di capire chi siano questi due scrittori che vogliono rimanere nell’ombra.

Il protagonista del romanzo è il giornalista Besana: non più nel fiore dei suoi anni, ormai prossimo alla pensione, si ritrova a scrivere del suo ultimo caso, forse uno dei peggiori di tutta la sua carriera. Un serial killer (solo uno?) ha iniziato a mietere vittime ispirandosi al primo serial killer italiano, Vincenzo Verzeni, studiato anche da Lombroso. Verrà accompagnato nelle sue indagini da Ilaria Piatti, giovane (ex) stagista da tutti soprannominata “Piattola”, che dietro il suo atteggiamento goffo e impacciato, nasconde un passato che l’ha segnata per sempre.

Il libro è molto interessante. Molto lungo (535 pagine), si legge abbastanza velocemente, alternando capitoli incentrati sul presente, sempre piuttosto corti, a capitoli che raccontano di Verzeni e i suoi omicidi compiuti alla fine dell’800. Sono rimasta affascinata da questo alternarsi di passato e presente che in realtà si fondono tra loro, in una storia avvincente che ti spinge a continuare la lettura.

Alla fine ci si affeziona anche ai due protagonisti, due “investigatori” quasi per caso. Besana è un uomo che ha dedicato tutta la sua vita al lavoro, sacrificando anche la sua vita privata. Per quanto riguarda Ilaria, l’unica cosa che vi posso consigliare è scoprirla leggendo il libro.
Quindi che dire se non buona lettura? :)

“Chissà perché gli occhi di una persona sono l’unica parte del corpo che non cambia mai. Te li porti dietro dall’infanzia alla vecchiaia, e mentre tu cerchi di reinventarti, cancellarti e rinascere, loro rimangono sempre uguali. Sono il tuo passato e il tuo futuro, e quell’espressione è l’unica costante su cui puoi contare, il resto si perde o si trova”.

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Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi è appassionato di thriller e anche di storia: sarà interessante scoprire chi è stato il primo serial killer italiano.
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Letteratura rosa
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    09 Febbraio, 2018
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...siamo solo per pochi!

Luca, trent’anni, broker e (seppur abbia rinunciato al suo sogno precocemente) aspirante scrittore, ha imparato una cosa importante: le cose belle succedono quando meno te lo aspetti, così all’improvviso. Questo vale per l’amore, per il lavoro, per l’amicizia, per le gratificazioni, per tutto quel che nel quotidiano si intervalla nelle nostre esistenze. Ecco perché gli basta uno sguardo per capire che Mary è quella giusta, è il suo vero grande e unico amore. La sente sotto la pelle, e quando questo accade non ci sono alternative, non ci sono freni, non ci si può tirare indietro. Costi quel che costi. Perché non puoi non ascoltare la voce del cuore, non puoi non resistere al suo richiamo, non puoi inseguire i tuoi sogni se non sai riconoscerli, non puoi credere in un domani se non hai il coraggio di rischiare, di sbagliare, di perdere tutto, di cercare un nuovo inizio.
Una danza, quella che si instaura tra lui e lei, una melodia in cui quest’ultima fugge e lui la ricorre e viceversa, in cui il giovane si riscopre adolescente e un po’ bambino, in cui la donna di quel “galletto” non può più fare a meno perché le fa sentire quel qualcosa. Ma che fare? Dubbi, incertezze, paure. Perché Mary è fidanzata e non è sicura di voler interrompere il suo rapporto con Giulio per iniziarne uno nuovo, con tutti gli annessi e connessi del caso, e per di più, con una persona che conosce a malapena. A cornice della liaison principale, l’autore ci induce ulteriormente alla riflessione mediante un amore cd “collaterale”, un amore narrato dalla carta, dalle lettere, o ancora espresso dallo stesso protagonista sul suo taccuino di pensieri. Connubio a cui si somma, per di più, una playlist musicale presente all’inizio (e talvolta anche alla fine) di ogni capitolo, una colonna sonora che accompagna il conoscitore in questa riscoperta di sentimenti e di emozioni, in questa riscoperta di sé stessi.
Celebrità dei social e per questo lautamente contestato, Roberto Emanuelli approda in libreria con il suo secondo romanzo, opera – come la prima – di fatto riscoperta da Rizzoli e ripubblicata con la medesima casa editrice dopo l’esperienza del self-publishing.
Che dire, il testo racconta vicende attuali, narrando di un personaggio un po’ immaturo che si affianca di amici pirandelliani e intellettuali che a loro volta si mixano a circostanze e a situazioni normali e che è preda del sentimento tanto da risultare “un rosa” all’ennesima potenza. Non nascondo che nello scritto ho rivisto il trademark di Volo o ancora di Sparks. La storia è semplice e non particolarmente originale, racconta quelle che sono le vicissitudini dei trenta/quarantenni di oggi tendendo talvolta a esagerare con l’aspetto emotivo tanto da risultare fiabesca.
Stilisticamente il volume è ancora acerbo e è caratterizzato da un esagerato utilizzo dei punti esclamativi, da un uso quasi convulsivo di frasi fatte nonché da uno stile basilare, non particolarmente erudito. La lettura è per questo rapida e non impegnativa.
In conclusione, “Davanti agli occhi” è adatto ai cuori romantici, a chi ama i testi moderni e non troppo gravosi e a chi cerca un libro sulla scia degli scrittori sopra citati.

«La “banalità” della bellezza mi ricorda, tutte le volte, quanto sia sciocco cercare di decodificare con assurde combinazioni chiavi di lettura i fatti della vita. Quasi sempre, le persone alle quali tentiamo di inviare probabili messaggi in codice, pieni di complicati e poco comprensibili sottointesi, non aspettano altro, invece, che un nostro semplice banale gesto di assoluta bellezza: un sorriso.»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    08 Febbraio, 2018
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X

“L’innocente”, romanzo scritto dal famoso scrittore Midorikawa Mikio, è per Suzuki Tamaki più di una semplice fonte di ispirazione. A sua volta autrice di successo, quest’ultima è al lavoro con il suo nuovo libro “In – Oscenità” opera che ha quale protagonista proprio il personaggio femminile del testo di Mikio. Il mistero che si cela attorno al componimento autobiografico del citato autore, diventa un qualcosa di irresistibile per la donna che pagina dopo pagina è sempre più decisa a far luce sul chi sia X (e non solo). Midorikawa, coniugato con Chiyoko e con tre figli, ha una passione sviscerata per le donne, non manca mai di dedicarsi a queste ultime e in particolar modo alla sua innominata amante. Imprudentemente ne scrive sul proprio diario, inevitabile è la discoperta da parte della consorte la quale non solo apprende della relazione adulterina ma anche del fatto che dalla stessa sono seguiti prima uno, poi scoprirà essere stati due, aborti. E mentre Chiyoko è una donna distrutta e arrabbiata per il tradimento, Maruko, X, è amareggiata per la consapevolezza di essere stata usata e poi lasciata nel momento in cui il compagno è stato colto in castagna. Eppure la sua è anche una figura genuina, autentica, che colpisce per le reazioni che sa porre in essere a seguito dell’essere stata, a sua volta, ferita.
Suzuki inizia a sondare la vita di Mikio e l’indagine – in cui è coadiuvata da due giovani redattori – si intreccia sempre più con la sua esistenza privata e con la sua relazione con Abe Seishi. Con quest’ultimo Tamaki ha intrattenuto una storia di ben sette anni che ha portato complicazioni per le carriere di ciascuno. Un parallelismo che si esprime con quel puzzle che prende sempre più forma e colore, con quel puzzle che porta alla luce la perversione di questo narratore dalla passione sviscerata per le forme di bambina (l’investigazione porta la nostra eroina a conoscere una donna ormai sessantaquattrenne che al tempo dei suoi dieci anni veniva corteggiata da Mikio e che a sua volta avrà un ruolo importante per la comprensione delle varie figure presentate), la purezza e cristallinità di X nel suo essere sfruttata e poi gettata come un panno vecchio, e ancora, la vendetta della moglie Chiyoko che con le sue poesie riuscirà a diventare una scrittrice di grande fama surclassando persino il fedifrago marito.
Con “In” Natsuo Kirino, già nota al grande pubblico per “Le quattro casalinghe di Tokyo”, torna in libreria con un testo di grande impatto, un elaborato che affascina sin dalle prime battute per tematiche, per intreccio narrativo e per fluidità. Con una penna rapida, diretta, chiara e seduttrice, la giapponese riesce a catturare chi legge che senza difficoltà divora le vicende descritte lasciandosi trasportare nell’universo prospettato. Non solo, ella riesce anche a ben bilanciare l’aspetto dell’indagine con quello della riflessione. Se da un lato siamo curiosi di scoprire prima chi sia X, poi le sorti della moglie e via dicendo, dall’altro siamo indotti alla ponderazione su quel che è il comportamento umano, sulle sue sfaccettature, sulle sue reazioni e evoluzioni a seguito delle varie difficoltà a cui siamo costretti quotidianamente ad ovviare. La psiche, la gelosia, il desiderio di rivalsa, il dispiacere, la sofferenza e tanti altri aspetti dell’animo dell’individuo, sono analizzati con grande maestria senza nulla celare, eludere o risparmiare al conoscitore.
Unica pecca? Una eccessiva prospettiva femminilista delle condotte, viene cioè dato poco spazio ai meccanismi della psiche maschile. Questa è analizzata ma sempre da un punto di vista femminile.
In conclusione, “In” è uno compilato di facile lettura che invita alla riflessione e che vince per fatti narrati che per penna sciolta e affilata.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    08 Febbraio, 2018
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Il ruolo dei social nella quotidianità

Ernesto Aloia, classe 1965, vive a Torino. Ora approda in libreria con La vita riflessa, titolo emblematico dell’intera vicenda narrata; dopo aver firmato libri come Paesaggio con incendio e I compagni del fuoco.
Pare proprio “una vita riflessa”, una dentro l’altra, quella di Gregory Lamberti e di Marco. I due sono nati lo stesso giorno, alla stessa ora, a mezzogiorno in punto del 12 dicembre. Ma Gregory:
“un ragazzo che tutti chiamavano Santamerda, il figlio di un grossista di abbigliamento che aveva vissuto vent’anni a Chicago e da poco era rientrato in Italia con la moglie americana. Due cose di Greg si notavano subito: la testa bionda ricciuta e il contrasto tra la sua corporatura da piccolo cinghiale e la precisa frenesia dei movimenti. Saltellava da un piede all’altro, gesticolava senza sosta, lanciava continue sfide a gare di corsa. (…) Si esprimeva in un misto di italiano e di inglese, che faceva ridere tutti (…)aveva un’ombra di mistero che mi risucchiava.”.
Gregory si distingue nettamente, perché:
“smontava e rimontava equazioni e coi loro frammenti si esibiva in numeri da circo: polinomi, parentesi, radici quadrate lanciate in aria tre alla volta e riafferrate, riordinate, rimontate, (…) ne inventava di nuove, poi disegnava sul quaderno le curve che a suo dire descrivevano. Ne rimanevo ammirato e disorientato.”.
Era un asso, già da bambino. Mentre Marco era:
“come un uomo che non era diventato ciò che era, che dopo anni ancora stentava a capacitarsi di quanto il suo cammino si fosse allontanato dalle sue intenzioni.”.
I due giocando colpiscono con delle pietre una giovane ragazza contadina, e invece di prestarle il dovuto soccorso, la abbandonano credendola morta. Fuggono spaventati su un treno merci. Questo segna in modo indelebile la loro amicizia; terminati gli studi non si rivedranno che tanti anni dopo.
Marco, infatti, lo riconosce in televisione in un servizio della Lehman Brother mentre sta annunciando al mondo intero il suo fallimento, e cerca di contattarlo. Si reincontrano nei mesi successivi, narrandosi le rispettive vicende di vita vissuta. Sono ormai uomini, ma non riescono ad assumersi le proprie responsabilità. Marco ha una moglie Angela, una donna molto intelligente, che lui non apprezza appieno, e una figlia, Serena, ma non si sente realizzato. E Gregory è separato, senza lavoro, alla continua ricerca di non si sa che. E così pensano di creare un qualcosa che segni le loro esistenze in modo essenziale. Creano un social network in grado di gestire le relazioni dell’utente a partire da ragguagli determinanti che gli vengono immesse.
“Il sistema lavorava a pieno regime, stabiliva milioni di connessioni in piena autonomia attingendo ai silos informativi, che al momento della registrazione gli utenti avevano accettato di stipare di quelli che un tempo si sarebbero chiamati dati sensibili. Le personalità digitali si incontravano, dialogavano, si scambiavano contenuti.”
Sviluppano, così,
“La versione embrionale di Twins, un nuovo social network “ad azione profonda.”
Il successo è travolgente, fino a quando Greg si defila, inaspettatamente e senza una particolare ragione apparente. Tutto precipita quando si registrano le morti di alcuni giovani utenti, che si suicidano. Inoltre Marco scopre che i finanziamenti prima ottenuti hanno origini poco chiare, rendendosi conto di come l’amico non sia proprio tale. Si impone una decisione difficile.
La vita riflessa affronta temi di grande ed importante attualità: si va dalle speculazioni e crac finanziari, alle complesse e remunerative piattaforme di socializzazione online e, sul piano morale e privato, dalle responsabilità individuali (matrimonio, paternità, clienti) a quelle nei confronti di una società in mutamento e della fragilità dei suoi componenti. Un testo e una lettura avvincenti, anche se in alcuni punti ho faticato a seguire, causa la mia scarsa dimestichezza con l’informatica e il mondo di Internet. Moltissimi sono i temi, i personaggi e i filoni narrativi. In particolare colpisce la riflessione sul ruolo dei social, su Internet e sulla sua influenza nella vita quotidiana degli esseri umani. Una lettura “moderna” e “tecnologica”, che non perde mai di vista l’importanza e la determinazione dell’essere umano in quanto tale.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    03 Febbraio, 2018
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Le ferite originali

Un tuffo perfetto in questo nostro scombinato mondo, una rappresentazione realistica di interazioni umane,con reazioni verosimili e del tutto plausibili.

La forza di questo romanzo non è nella storia in se stessa, ma nello stile fresco e mai banale.
I personaggi sono presentati in modo naturale, senza preamboli,senza inutili descrizioni che uccidono l'immaginazione, ma solo gli elementi davvero necessari sono svelati.

Nonostante i personaggi siano un po' sopra le righe, il tutto risulta amalgamato in modo coerente e immerso,appunto, in un'atmosfera che fa vivere le figure che la abitano.

Come dicevo prima più che la storia a colpire è l'ambientazione.i giorni nostri, con qualche riferimento agli anni novanta, epoca,per chi l'ha vissuta da ventenne, molto confusa, in cui tutto si scriveva "libertà", ma si leggeva "confusione",in cui il sesso, l'orientamento sessuale, i costumi avevano ambizioni avanguardiste, ma nella realtà era la paura dell'ignoto a farla da padrone.

Questa atmosfera non solo impregna tutto il romanzo,ma ne è il vero fulcro, vengono analizzate, sempre attraverso le azioni dei personaggi e i loro comportamenti, le cause che portarono a quell'epoca e le conseguenza che la stessa ha portato su di essi,in un modo così vicino al mio sentire, da rendermi questa lettura ancora più gradita.

Il tutto condito con un colonna sonora accattivante, si legge con in sottofondo Jeff Buckley, Florence and the Machine per continuare con Space Dementia dei Muse, passando da immagini tipiche di quegli anni come Twin Peaks.

Un modo per i quarantenni per ricordare da dove vengono e cercare di arginare i danni che forse inconsapevolmente stanno facendo.

Lo consiglio vivamente non solo per trascorrere qualche ora in buona compagnia,ma anche per cercare di comprendere un'epoca piena di contraddizioni non ancora del tutto svelate.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    02 Febbraio, 2018
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Un Faust "letterario".

Il diavolo nel cassetto è un romanzo intrigante, appassionante e molto bello che porta l’autorevole firma di Paolo Maurensig, divenuto famoso nel 1993 con La variante di Luneburg, amatissimo romanzo sul gioco degli scacchi e il nazismo. Quest’ultimo è un libro che colpisce anche per la sua stessa struttura: la storia è raccontata da un testimone, che a sua volta ha raccolto la storia altrove. L’autore a tal proposito afferma:
“E’il canone musicale: una voce che introduce un’altra voce, che introduce una terza voce, poi si torna indietro. Ma alla fine quello che conta è abbandonarsi al racconto.”
Il testo è un apologo letterario fascinoso che colpisce:
“sul narcisismo e la vanagloria, ma anche sulla nostra inestinguibile sete di storie.”.
Siamo in un piccolo paesino della Svizzera, tra le montagne, che in estate si anima, per poi ridimensionarsi in inverno. Ebbene in questo luogo di pace tutti gli abitanti sono affetti da una strana malattia: tutti scrivono manoscritti, li inviano per posta e ricevono rifiuti dagli editori. Ma è pericoloso, perché
“Tutte le volte che si prende una penna in mano ci si accinge ad officiare un rito per il quale andrebbero accese sempre due candele: una bianca e una nera. A differenza della pittura e della scultura, le quali restano ancorate a un soggetto materiale, e alla musica, che invece trascende del tutto la materia, la lettura può dominare entrambe i campi: il concreto e l’astratto, il terreno e l’ultraterreno. (…) Lo scrittore, quindi, può formare una catena di pensiero in grado persino di dar vita e intelligenza a una figura da tutti considerata immaginaria, come si ritiene sia il diavolo.”
Tutti sono colpiti da questa strana malattia: dal vecchio parroco che redige una sorta di memoriale da curato da campagna, alla ragazzina demente che scrive filastrocche accompagnate da bellissimi disegni, al borgomastro, ai ricchi possidenti, agli albergatori. Il pericolo è in agguato. Una notte nei boschi compaiono le volpi affette da rabbia silvestre, e si avvicinano pericolosamente ai centri abitati. E’ una premonizione: la sciagura sta per abbattersi. Ma nessuno pare accorgersi dell’infausta disgrazia , se non padre Cornelius, giovane parroco mandato a sostenere l’anziano predecessore. Ma ecco che il diavolo in persona si manifesta, e lo fa palesandosi sotto le mentite spoglie di un editore. E’ ciò che tutti attendevano. Si progetta, addirittura, di istituire, suo tramite, un premio letterario intitolato al grande romanziere Goethe, che pare abbia sostato nel piccolo paesino a causa del guasto della sua carrozza. Le persone giubilano, e non si accorgono del male che si insinua, subdolo e terribile. Perché lui sa mimetizzarsi bene, infatti:
“Ha sempre un aspetto curato, veste in doppiopetto, ha un eloquio forbito, un tono di voce suadente. (…) Tutto nella sua persona pecca di eccesso, il suo riso è sgangherato, il gesto è teatrale, i capelli ravviati all’indietro, piuttosto lunghi ed untuosi, sono tinti di nero; le labbra purpuree, affilate, con i lati rivolti all’insù a mimare un sorriso perenne; gli incisivi grossi, a forma di scalpello, sono affetti da un vistoso diastema, e la voce, la voce poi, dove sembra celarsi il segreto del suo fascino, è rotonda, impostata, senza asperità, senza picchi.”
Inoltre il diavolo trova terreno fertile nella società letteraria, poiché:
“la letteratura è il luogo dove ogni vanagloria, alimentata dall’invidia, cresce a dismisura, dove anche il più banale dei pensieri- purchè sia impresso a caratteri tipografici- viene accettato come verità assoluta.”
Così, sarà don Cornelius a intavolare una particolare lotta contro il male: proprio lui che ha, egli stesso, qualche ombra, qualche segreto con cui confrontarsi.
Un nuovo, infausto, patto con il diavolo. La letteratura quale mezzo non per comunicare, ma per affermare le proprie aspirazioni a discapito di tutto e di tutti. Un luogo a procedere per il diavolo o per il Faust, indimenticabile. Una struttura letteraria che non concede scampo, un gioco che ha un ritmo vivido e frizzante, composto da una prosa ammaliante e conturbante, quasi “demoniaca”. Un povero diavolo fra tanti imbrattacarte: ritratto lucido ed impietoso dell’editoria moderna.

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Consigliato a chi ha letto Il ritratto di Dorian Gray oppure Il Faust di Goethe.
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siti Opinione inserita da siti    02 Febbraio, 2018
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Compendio di una vita da insegnante

Eraldo Affinati in questo nuovo romanzo pare fare i conti con se stesso.
Si ferma un attimo- lui attivissimo nella pratica didattica come insegnante di letteratura e fondatore della scuola gratuita per immigrati “Penny Wirton” , oltre che studioso di storia e instancabile viaggiatore alla ricerca delle proprie radici e di quelle di tutti noi attraverso il percorso dei luoghi storici dei grandi eventi e dei luoghi biografici dei grandi letterati- e riflette.
Richiama alla mente ventisei nomi, non solo ex allievi ma attraverso loro un esercito di altri individui, e così facendo gli dà la parola per poter richiamare il loro vissuto personale, offrendogli una capacità espressiva che in realtà non hanno mai raggiunto ma che è necessaria per rendere a noi italiani chiari i loro vissuti.
Si tratta di storie di guerra, di povertà, di miseria, di prostituzione, di viaggi della speranza, di ricostruzione, di devianza e talvolta di morte. La lettura risulterebbe davvero pesante se non fosse stata inserita da Affinati la figura di Ottavio, suo ex allievo, il quale parlando solo in romanesco, smorza i toni, livella la realtà e dà qualche dritta al professore idealista che pare faticare ancora ad accettare le storture del reale. Egli dal canto suo è consapevole che il mondo non lo può cambiare ma sa anche che può sicuramente modificare la traiettoria di qualche vissuto individuale, agendo, dando una possibilità, comprendendo, aiutando, testimoniando anche in modo autoreferenziale la propria attività se poi da ciò deriva l’innesto per altre possibilità, per altri aiuti, per altre comprensioni, ampliando di volta in volta il numero di scuole e di volontari che aiutano i giovani immigrati.

La lettura è gradevole, l’esperienza raccontata forte ed esemplare. Consiglio la lettura a chi ancora fatica ad accettare i nuovi scenari sociali che vanno via via delineandosi in seguito all’intensificarsi dei flussi migratori per comprendere le ragioni umane che stanno dietro queste decisioni : sono tutto tranne che scelte.

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    01 Febbraio, 2018
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Lasciamo volare la Lealtà

La voce di una donna racconta una storia. Giulia, la protagonista, passa tra passato e presente tra Londra e Milano come un semplice sfogliare di pagine, vive e rivive una storia d’amore e ne crea un parallelismo con quanto di più distante dall’amore ci possa essere, l’economia. Il lavoro in un’importante banca d’affari londinese concede agi e ricchezza, ma spoglia lentamente di ogni sfumatura e di ogni significato una vita, i ritmi sono esagerati, non c’è spazio e tempo per conversare neanche con sé stessi.
Giulia però ha bisogno di questo dialogo e la scrittrice riesce bene a condurlo, a farcelo percepire distintamente, forse proprio perché quella Giulia, in fondo non è altro che lei stessa. C’è da ricostruire un pezzo di vita, da capire a modo come incastrare ogni piccolo pezzo di lego che alla fine compone l’esistenza. La voglia di amare a prescindere da ogni difficoltà il desiderio di essere onesti, puliti, quel sogno di Lealtà che ai giorni nostri è merce sempre più rara, difficile da conseguire, complesso da esercitare. Le nostre pulsioni però, il nostro essere più intimo non svanisce nonostante le pressioni del mondo esterno, quello che noi siamo possiamo nasconderlo, mascherarlo al limite rischiare di ucciderlo. La nostra sostanza non morirà mai, prima o poi tornerà in superficie e a quel punto esploderà con tutta la sua veemenza, sarà l’ultimo aereo da prendere, l’ultima possibilità per non rimanere in un essere che è altro da noi.
Lealtà verso gli altri, ma soprattutto verso sé stessi, un invito a vivere in maniera onesta e sincera, un bel libro che offre un affascinante punto di vista tutto femminile, e per questo prezioso, sulla vita, sul passato, sull'amore.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    31 Gennaio, 2018
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Maschere, avatar e il “gorgo” veneziano.

Tre personaggi, tre storie, tre approcci diversi alla realtà. Un gioco di maschere, in una città, Venezia, nota per le sue “bautte”. È, infatti, proprio il tema del rapporto realtà e apparenza che sembra essere più interessante in questo romanzo semplice e tuttavia complesso allo stesso tempo. Il mondo del famoso telecronista sportivo, Nereo Rossi, convinto di essere ormai alla fine dei suoi giorni, a causa di una malattia degenerativa, è diverso sia da quello del professore Cazzavillan che sogna di diventare scrittore di successo, sia da quello del giovane tuttofare, Carletto Zen, a caccia perenne di attempate ricche signore che possano offrirgli facili opportunità di vita migliore. Il tutto sullo sfondo del “gorgo” commerciale veneziano. Ciascuno di questi personaggi offre di se stesso un’immagine che differisce da quella che effettivamente costituisce la sua essenza. Ognuno, in fondo, gioca un ruolo, entra in una finzione scenica, quasi fosse protagonista di un dramma teatrale. Ognuno si dibatte tra l’illusione e la realtà e la personalità di ciascuno rimane temporaneamente sospesa in questo gioco di maschere che diviene il mezzo per conoscere e analizzare se stesso.
Nel caso di Cazzavillan, l’aspirante scrittore, la problematica dell’identità diviene assai più complessa, nel momento in cui si trova ad agire nei panni del suo avatar in un videogioco, per salvare il figlio adolescente che rischia di rimanere tagliato fuori dal mondo, come uno dei numerosi hikikomori della nostra epoca. Ed è proprio il videogioco che è “fatto di nulla, impastato di non-essere, che dà la dimensione dell’illusorietà del mondo degli avatar, che “ si muovono in paesaggi artificiosi [……] dove le immagini fingono di essere tridimensionali, solide e profonde. Ma la terza dimensione non c’è […..] non c’è il volume.”
Alla forza delle parole si rivolge anche il celebre cronista Nereo Rossi, quelle parole che sono state lo strumento del suo lavoro, che hanno saputo creare una realtà ricca di immagini per chi le ascoltava. Ad esse si rivolge per rimanere attaccato a un mondo sfuggente e mutevole. Qui, come ne “Il brevetto del geco” Tiziano Scarpa allude alla forza del mezzo espressivo e della letteratura, alla quale va restituita quella dignità che spesso le viene negata. Non è un caso che l’autore affidi al personaggio di Cazzavillan un giudizio sul genere “noir” in un più ampio discorso sul romanzo.
Su questo panorama narrativo, con questi personaggi che mostrano più di un limite caratteriale, più di una debolezza umana, si affaccia severo il cipiglio del gufo. Nessuna immagine avrebbe potuto esprimere con maggiore efficacia la presenza vigile della coscienza che segue ogni percorso di vita con gli stessi occhi spalancati e seri del gufo che emergono da “sporgenze fatte di penne che partono dalla sommità del becco e proseguono fino alle orecchie [….] rendendo lo sguardo del gufo ancora più torvo: come se lo spazio del viso non gli fosse sembrato sufficiente a contenere tutto il suo sdegno.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    31 Gennaio, 2018
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Un "Fossile" di Jurassic Park

Michael Crichton è stato uno degli autori che mi ha iniziato alla lettura, accanto a un mostro sacro come Conan Doyle, per dire. Ho letteralmente amato "Jurassic Park", "Il mondo perduto" e "Sfera". Quel che sta accadendo negli ultimi anni, ovvero la pubblicazione di numerosissime opere postume, tra cui quelle scritte con lo pseudonimo di John Lange, mi fa pensare che si stia provando a sfruttare il nome di questo autore per fare soldi, su soldi, su soldi. Questo mio sospetto era stato in parte confermato dalla qualità modesta di alcune di queste opere, almeno per quelli che sono gli standard di Crichton.
Perciò, quando ho cominciato la lettura de "I cercatori di ossa" ero un po' prevenuto proprio per questo motivo, e anche perché in questo caso specifico hanno provato a usare il nome ultra-attraente di Jurassic Park per attirare quanti più lettori fosse possibile. Per quanto ci viene dato a credere, infatti, questo romanzo sarebbe una sorta di precursore dell'opera più famosa dell'autore; personalmente però, ho un'idea un po' diversa riguardo al concetto di "precursore". L'unico punto in comune col capolavoro di Crichton sono i dinosauri, che in questo romanzo non compaiono in altra forma se non quella di fossili (ovviamente), e i cui studi sono ancora agli albori.
Nonostante questi tentativi un po' subdoli di accaparrarsi lettori, questa lettura mi è risultata comunque abbastanza piacevole, una storia western con un tocco paleontologico, forse forzata e ingenua in alcune evoluzioni narrative ma comunque apprezzabile.
In fin dei conti, ci doveva pur essere un motivo per cui queste storie non erano state ancora pubblicate, quando Crichton era vivo.

"I cercatori di ossa" ha come protagonista William Johnson, uno studente che, novello Phileas Fogg, parte verso l'ovest a causa di una scommessa. Un altro ragazzo lo sfida a partire per il "Selvaggio West" insieme al professor Marsh, paleontologo tanto famoso quanto paranoico. Johnson si imbarcherà in questo viaggio all'ultimo momento nelle vesti di fotografo, ma il professore non lo vedrà mai di buon occhio, scaricandolo alla prima occasione e accusandolo di essere una spia del suo acerrimo rivale, il professor Edward Cope. Descritto da Marsh come un uomo spietato e senza scrupoli, un ladro e un violento, Cope si rivelerà un uomo completamente diverso e accogliera Johnson tra le sue file, anch'egli alla ricerca disperata di fossili delle "terribili lucertole", nell'Ovest tormentato dalla guerra tra bianchi e Indiani, proprio nel periodo del massacro del settimo cavalleggeri del generale Custer a Little Bighorn.
Proprio a causa degli indiani la spedizione incontrerà tantissime difficoltà, delle quali saremo spettatori grazie agli "occhi" di William "Foggy" Johnson, che pur non avendo un attaccamento morboso per i fossili come Marsh e Cope (perennemente impegnati in una lotta ai limiti del comico), non vorrà mai abbandonarli e farà di tutto pur di portarli a destinazione, sotto gli occhi del mondo.
Questo viaggio lo cambierà totalmente, trasformandolo da giovane scapestrato a uomo fatto e finito.

"Gli indiani credono che questi fossili siano ossa di serpenti, il che vuol dire rettili. Anche noi pensiamo siano rettili. Pensano che queste creature fossero enormi. E anche noi. Sono convinti che questi rettili enormi siano vissuti in un passato molto remoto. E anche noi. Sostengono che il Grande Spirito li abbia uccisi. Noi diciamo che non sappiamo perché siano scomparsi, ma dato che dal canto nostro non proponiamo alcuna spiegazione, come possiamo essere certi che la loro sia superstizione?"

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    29 Gennaio, 2018
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Come prima non si torna...



Questo è un libro per chi ha voglia di stare un po' a contatto con la parte più scura di sé, per chi vuole abbracciare la propria solitudine, per chi sente il bisogno di ritrovarsi al riparo dagli sguardi altrui.
E leccarsi le ferite.
Per chi ha amato tanto e poi perduto tutto.
È un libro per chi ama togliersi le scarpe e i calzini e camminare a piedi nudi in cerca di bellezza.

Il tempo per Andrea si è fermato un giorno di Luglio.
Ora è incassato dentro una stanza d'ospedale, dove nessuno conosce il suo nome, la sua storia...e dove lui custodisce tutti i suoi fallimenti.
Nessuno lo cerca.
Chi lo ama è a casa e non sa. Ma spera.
Andrea ha una gran voglia di fuggire, eppure rimane dov'è.
I piedi scalpitano per tornare al suo "prima", ma la mente lo frena...perché ha paura del mondo là fuori, si vergogna di quel che è diventato, preferisce rimanere incatenato a quello che ha: il ricordo di quello che era, di quello che aveva.
Rivuole le sue labbra capaci di bere alla bottiglia, di ridere, di baciare...rivuole le sue gambe che corrono sulla sabbia.
Rivuole la nuca profumata di sua madre Magnifica, custode della storia di famiglia.
E più di ogni altra cosa rivuole sua figlia Preziosa...perché può anche sopravvivere all'amore finito di sua moglie, ma senza sua figlia no, non può.
Andrea sa e non dice.
Guarisce e finge.
Scrive i suoi ricordi su fogli che poi sbriciola nel brodo e mangia...per non perderli, perché siano sempre con lui, in lui.

"Ma come prima non si torna.
Mai.
Ora lo sa.
Così si ingozza dei suoi ieri"

Maria Rosaria Valentini è una poetessa che ha prestato la sua mano alla letteratura, dando vita a pagine di vera bellezza.
La scrittura è rotonda, pastosa, di quelle che vorresti leggere ad alta voce per assaporarne il suono, per sentirne il sapore.
Io ho sentito quello cedevole, morbido, delle ciliegie molto mature.
E ne vorrei ancora.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    28 Gennaio, 2018
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La banda delle recluse

Dopo l'ultimo romanzo "Tempi Glaciali", uscito nel 2015 e avente come protagonista sempre il commissario Adamsberg, Fred Vargas torna con un'altra indagine del suo personaggio più conosciuto. Le storie di Adamsberg mi danno l'idea di gialli più che di veri e propri thriller, ma questo non ne intacca la piacevolezza.
Riguardo allo stile, in questo genere la Vargas è indubbiamente a suo agio: anche se "Il morso della reclusa" non ha la tensione di un thriller, l'autrice è molto abile a gestire le varie fasi e l'evolversi dell'indagine, riuscendo sempre a tenere un buon ritmo e incitando il lettore a fare le sue supposizioni prima della soluzione finale. Oltre a lasciare spazio all'immaginazione del lettore, il romanzo non è povero di colpi di scena, che anche se non sono da mascella spalancata danno comunque qualcosa in più alla storia senza sembrare forzati. Quelle che scrive sono sempre storie piacevoli da leggere e credo che la Vargas possa essere considerata uno dei maggiori esponenti del genere, anche se finora non ho letto nulla di suo che sia veramente indimenticabile.

La storia ha inizio con il nostro commissario Adamsberg che è in vacanza in Islanda, godendosi (?) un periodo di relativa quiete. Non passano che poche pagine prima dell'arrivo di un telegramma da Parigi, che lo richiama urgentemente indietro per la risoluzione di un caso apparentemente complicato. Inutile dire che sarà una bazzeccola per il nostro commissario, che lo risolverà in quattro e quattrotto. Difatti, il caso per cui è stato richiamato alla base non sarà altro che l'inizio, completamente soppiantato dall'indagine successiva, portata all'attenzione di Adamsberg totalmente per caso e che sembrerà apparentemente insolubile.
Nelle ultime settimane, infatti, sembra che un ragno apparentemente innocuo e "timido", la Loxosceles Reclusa, stia mietendo vittime in maniera del tutto inusuale. Tre anziani, infatti, sembrano essere stati uccisi dal morso di questo animale, che in condizioni normali non uscirebbe mai dal suo nascondiglio soprattutto in presenza di un uomo, e il cui veleno non è mai letale se non in dosi abbondantissime, che le ghiandole di un solo esemplare non potrebbero mai contenere. Inizialmente, dunque, tutti pensano che le morti di queste persone siano dovute alla loro età avanzata.
Ma non per Adamsberg, ovviamente, che tormentato dai suoi pruriti e dall'impressione insopportabile che in questa storia si nasconda qualcosa di losco, avvia un'indagine ufficiosa soltanto coi membri della squadra che se la sentono di seguirlo, rendendosi conto dell'assurdità delle sue supposizioni. Questo creerà una spaccatura nella squadra, costringendo Adamsberg a gestire una delle situazioni più difficili mai affrontate.
Tuttavia, procedendo nelle indagini, troverà non pochi indizi che gridano all'omicidio. I tre anziani che sono morti si conoscevano tutti, e insieme formavano "La banda delle Recluse", perché da ragazzini si divertivano a nascondere questo tipo di ragni nei vestiti degli altri bambini, provocandogli lesioni molto gravi. Da grandi, si sono dati allo stupro. Ma i membri della banda non erano soltanto tre; inizia dunque una corsa contro il tempo per cercare di impedire la morte degli altri membri della banda che, per quanto infimi, sono pur sempre esseri umani.

"I nostri tempi, commissario? Ma quali tempi? Civilizzati? Razionali? Pacificati? I nostri tempi sono la nostra preistoria, sono il nostro Medioevo. L'uomo non è cambiato di una virgola. E soprattutto non nei suoi pensieri primari."

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Belmi Opinione inserita da Belmi    26 Gennaio, 2018
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Pearl

La Riley torna nelle librerie con il quarto libro della serie “Le Sette Sorelle”, questa volta è il turno di CeCe, che chi come me avesse già letto il precedente libro ha già un po’ conosciuto.

Cece, o meglio Celaeno, dopo il distacco dalla sorella Star, ha deciso di andare a cercare il suo passato, gli indizi indicano tutti un continente fra i più affascinanti o almeno per me lo è, l’Australia.

Come di consuetudine presente e passato si alternano e dalla fredda Scozia siamo catapultati nella bollente Australia sulle tracce di un personaggio davvero affascinante, Kitty Mercer.

La Riley affronta argomenti davvero importanti, siamo in Australia nei primi anni del Novecento, dove per molti questo era il paese delle opportunità e della rinascita o almeno lo era, per gli uomini con la pelle bianca. La popolazione locale, nata su questa terra, dove un tempo viveva in libertà, si ritrova a vivere in schiavitù anzi “civilizzata” dai bianchi; quelli sono gli anni in cui gli aborigeni e i mezzosangue non se la passavano proprio bene.

Il presente ci racconta la vita di una confusa Cece che dopo una sosta in Thailandia, si ritrova nell’Outback australiano, sulle tracce della sua famiglia. Personalmente non ho provato molta simpatia per questa protagonista, trovandola spesso arrogante, impulsiva e sempre alla ricerca di una spalla su cui fare affidamento. Nell’altro capitolo sembrava che fosse lei quella forte ma dopo aver letto questo libro i dubbi sono insorti.

Per quanto riguarda il passato, che per fortuna rappresenta gran parte del romanzo, posso dire di aver sognato ad occhi aperti. La storia è davvero toccante e intrigante. Kitty e Camira con le loro forti personalità fanno onore al genere femminile. So benissimo che questa è solo una storia, ma le emozioni provate sono davvero molto forti. La storia delle perle, la vita difficile degli aborigeni, la sofferenza ma anche la speranza, faranno sospirare e incantare le amanti del genere.

Dopo “La ragazza nell’ombra” che non mi aveva particolarmente colpito, con questo nuovo romanzo la Riley convince e riesce a mettere in secondo piano la protagonista Cece dando luce a un passato davvero da scoprire.

“L’amore è il sentimento più altruistico ed egoistico di tutti, Celaeno; altruismo ed egoismo sono facce della stessa medaglia e non si possono separare. Il bisogno di amore combatte sempre con il desiderio che la persona amata sia felice.”

Un libro adatto alle amanti del genere a cui lo consiglio vivamente.

Buona lettura!

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La serie delle Sette Sorelle
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    26 Gennaio, 2018
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Esordio interessante

Thérèse è una trentenne inquieta. Ha lasciato il fidanzato, si è trasferita a Lisbona dove non conosce nessuno e ha "un intruso" nella pancia. Tra i suoi tormenti interiori, le passeggiate solitarie e le puntate al bar si intromette una telefonata. Sua zia Louise la invita ad andare in Corsica a trovare la nonna. Sembra che l'anziana abbia deciso di anticiparle una parte della sua eredità e servono alcune firme. La ragazza parte e si trova in poche ore in un ambiente surreale.L 'isola e in particolare Cap Corse è una zona aspra, più respingente che accogliente, quasi inadatta ad accogliere la razza umana. Lo stesso sembra dirsi degli abitanti del paesino di origine di Thérèse: Talmente elusivi da essere difficili da vedere. La vita sembra svolgersi dietro le persiane chiuse e le tende appena scostate per spiare chi passa in piazza. Tutti ostentano di farsi i fatti proprio eppure individuano uno straniero alla prima occhiata, lo catalogano e lo sfuggono. Già la prima notte che la ragazza passa nella casa di sua nonna ha un assaggio di quello che l'aspetta. Un intruso infatti uccide l'anziana buttandola da una scogliera e ruba i documenti della nipote. Da qui partono le indagini private di Thérèse per capire da un lato chi sia l'assassino e dall'altro di conoscere la storia della sua famiglia. Una storia fatta di segreti che tutti conoscono ma che nessuno le vuole svelare, perché sembra siano così terribili da non poter essere raccontati.
Questo è uno di quei libri che fa fatica a partire, ma poi una volta presa velocità non c'è più modo per fermarne la corsa. La partenza è decisamente confusa: le prima pagine fanno venir voglia di lasciare perdere. Due dei protagonisti si alternano nel raccontarci la loro vita ma in modo così criptico da creare solo confusione. La parte ambientata in Corsica invece cambia completamente: Thérèse e l'amico Wiliam continuano ad alternarsi nel racconto, ma in modo più chiaro e continuo. La Piazza è brava nel fornirci i dettagli della storia poco alla volta, così da creare non solo nell'isola ma anche nella nostra mente un clima di sospetto che non risparmia nessuno. Ne esce una trama che, anche se non sempre del tutto credibile è comunque intrigante e piena di spunti di riflessione. Belle le descrizioni che l'autrice fa del paesaggio aspro del Cap Code. Interessante anche il tema che parallelamente a quello del delitto viene sviluppato. Il rapporto con i figli infatti tormenta molti dei protagonisti. Il piccolo "intruso" nella pancia della protagonista, la figlia defunta che visita William, tutti i componenti della famiglia di Thérèse che sono stati genitori e figli discutibili.
Nel complesso bell'esordio per questa ragazza di professione scout letterario che questa volta ha deciso di esporsi in prima persona.

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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    22 Gennaio, 2018
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.. and I dreamed I was a cowboy

Se avessi letto Nevada Connection senza conoscerne l'autore avrei scommesso tutto il mio patrimonio (alquanto esiguo in effetti) sulla paternità letteraria di Joe Lansdale, autore - tra l'altro - di una serie di romanzi in stile country ambientati in quella parte più remota e leggendaria dell'America che la maggior parte di noi ha forse visto solo al cinema: il vecchio selvaggio West.
Questo romanzo nasce invece dalla penna di Don Winslow che prima di diventare uno dei più noti scrittori nel genere poliziesco americano, prima ancora di introdurci nei complotti internazionali ad ampio raggio legati al narcotraffico e ai grandi cartelli della droga (a proposito, non perdetevi 'Il potere del cane'), ci scaraventa di forza nel Nevada, nelle Terre Alte Solitarie, praticamente alla fine del mondo:
'Siamo a circa milleottocento metri di quota, ed è tutto spazio aperto, come puoi vedere. Poca gente, poco bestiame, un sacco di conigli selvatici e coyote. Laggiù sulle montagne ci sono anche puma, pecore Bighorn e aquile. Steve fermò il pick-up su un belvedere. E' come essere sull'orlo del mondo, pensò Neal. Una grande vastità marrone sotto una volta di un blu intenso.'
Hap e Leonard, la famosa coppia di investigatori nati dalla penna di Lansdale, si sarebbero sentiti come a casa qui; un pò meno Neal Carey, il detective privato già protagonista di London Underground e China Girl, avvezzo a ben altre usanze:
'Voglio tornare a New York, papà. Voglio sedermi al Burger Joint e mordere un hamburger al sangue, mentre la salsa mi cola sul polso e macchia l'inchiostro della mia copia del New York Times. E voglio un caffè ghiacciato che appanna il bicchiere, proprio davanti a me, dove basta allungare una mano per afferrarlo. Voglio passeggiare sul lato ovest di Broadway, e poi tornare indietro da est.'
Ma Neal Carey non è un tipo abitudinario, ci mette poco ad adattarsi al nuovo ambiente, sia perchè si lascia gradualmente ammaliare dall'infinita vastità di quei territori, dal fascino selvaggio ed incontaminato della natura che alterna montagne innevate ad immense praterie e distese desertiche, dove i rumori più assordanti sono quelli del vento o l'ululato di qualche coyote, sia perchè fa parte del suo lavoro mimetizzarsi, confondersi con la gente del posto (per quanto trattasi di poche anime) ed osservare.
Già, osservare, perchè Neal Carey è l'uomo di punta di un'associazione segreta che interviene in situazioni 'difficili', compromettenti e ad alto rischio.

- Un lavoro sotto copertura, figliolo.
Sotto copertura. Le due parole più eccitanti e terrificanti di quel tipo di attività. La fiamma che ti attrae e poi ti brucia.
- Dove? - chiese Neal.
Ed masticò un pezzo di patatina e usò l'altro per tracciare piccoli cerchi nell'aria.
- La fuori, no?
La fuori, là fuori. Bè, ragazzi, perchè no? Là fuori ci ho passato tutta la vita.

L'incarico che gli viene assegnato è quello di trovare e recuperare un bambino di soli due anni rapito dal padre a seguito della separazione con sua moglie, attrice hollywoodiana molto facoltosa; un incarico apparentemente meno rischioso degli altri in cui Neal era stato precedentemente coinvolto ma che si dimostrerà ben presto tutt'altro che semplice poichè il padre, fuggitivo, viene accolto col bambino da una setta di fanatici neonazisti, la Chiesa della Vera Identità Cristiana, fondata dal reverendo Carter e che ha la sua base operativa proprio in Nevada, nelle Terre Alte Solitarie.
Ritroviamo quindi un tema caro anche a Lansdale, quello dell'intolleranza e delle persecuzioni razziste, che stavolta ha come vittime non i neri bensì gli ebrei, considerati usurpatori e manipolatori capaci di sottrarre il potere del governo federale di Washington al vero popolo eletto, quello dei bianchi americani.
Se la monotonia della routine quotidiana manda in riserva la vostra carica vitale, se il fumo, il caos, il traffico della città inquina la vostra mente ed i vostri polmoni, se siete alla ricerca di un'esplosione di pura adrenalina letteraria senza se e senza ma, questo libro fa per voi:
tra galoppate di mandriani nei ranch, scazzottate nei saloon, rapine a mano armata e l'immancabile sparatoia finale ispirata alla leggendaria sfida all'O.K. Corrall verrete catapultati in un mondo da cui forse, come Neal Carey, vi dispiacerà poi tornare indietro.
Attenzione, però, restate coperti.. perchè i proiettili volano bassi.

So I drank myself some whiskey,
And I dreamed I was a cowboy,
Then I rode across the border.

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.. i romanzi di Lansdale
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    22 Gennaio, 2018
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Lo spirito della fanta poesia

La scrittura di Bolano è sempre interessante. Questo scrittore ha la capacità di catturarti dalle prime righe e di rendere ogni cosa coinvolgente e misteriosa. Il libro Lo spirito della fantascienza è stato scritto da un Bolano trentenne. Sembrerebbe un testo caotico e improvvisato, invece la sua struttura è meditata come si vede da schemi e appunti riportati a fine romanzo. L’architettura è labirintica, nel senso che ogni capitolo sembra a parte e la connessione tra i vari capitoli si intravede solo andando parecchio avanti con la lettura. Nel testo ci sono lettere a scrittori di fantascienza nord americani, capitoli di un romanzo di fantascienza scritto da Jan, capitoli di un romanzo vincitore del premio letterario scritto da Remo o da Arco, indagini sull’ambiente letterario cileno, e parti sulla vita e gli incontri dei tre amici (Jan, Remo e Arco), che frequentano tutti e tre l’ambiente letterario e sono aspiranti poeti/scrittori. Tenere e singolari le lettere scritte da Jan, 17enne aspirante scrittore di fantascienza, che si scopre in una delle lettere finali essere Bolano stesso. Una delle ultime lettere è firmata infatti Jan Shrella alias Roberto Bolano. Ian vive in un attico con Remo, che parla in vari capitoli in prima persona. Remo scrive articoli per la Bambola e fa indagini sulla situazione delle riviste letterarie in Messico. Tali riviste sono centinaia e centinaia. Quasi tutte fatte di pochi fogli fotocopiati e imprecisi, distribuiti nei supermercati locali. In America Latina c’è una incredibile fioritura poetica. Nonostante le riviste fai da te distribuite nei supermercati e i seminari di poesia i cui docenti sembrano esperti in sartoria-poetica (taglia l’inizio ma il finale non è male), nonostante i premi letterari locali dall’aria strana dove tutti gli ex vincitori e finalisti si ubriacano e si accoppiano per festeggiare, la poesia prolifica forse per effetto di un aleggiante spirito di fantascienza, così come le albe, i tramonti, la notte, le scale si umanizzano e cambiano forma e dimensione e aspetto plasmando il mondo dandogli un altro sapore e colore come fanno i versi delle poesie con le parole.
Ora se la lettura del testo è piacevole, da un punto di vista intellettuale la comprensione dell’insieme e del suo significato è difficoltosa e questo potrebbe togliere al lettore parte del gusto della lettura.
Azzardo un’interpretazione del testo. A me sembra che i tre amici siano eteronimi, siano la stessa persona riprodotta in un gioco di specchi simile, con diverso stile, a quanto faceva Pessoa con i suoi eteronimi ognuno dei quali aveva vita e modi propri. Questa interpretazione potrebbe essere suggerita dal fatto che Jan, lo scrittore di fantascienza, è Bolano (si firma alias Bolano) ma a parlare in prima persona è Remo. Il vincitore del più grande premio letterario cileno poi dovrebbe essere Remo o Arco. Non si capisce chi di loro.
Anche il rapporto tra Laura di Remo è particolare. Laura è chiamata da Remo la Principessa Atzeca, come la moto (rubata) che poi lui compra così come ruba Laura al compagno del momento. Il romanzo termina con le avventure amorose di Remo e Laura nei bagni pubblici dove tante persone vanno e vengono liberamente, anche senza bussare, dal loro bagno. A me hanno fatto pensare a idee di persone più che persone reali, a fantasie, a eteronimi che si infilano nel rapporto tra i due complicandolo così come succedeva tra Ofelia e Pessoa.
In effetti il romanzo anche se si intitola lo spirito della fantascienza e anche se riporta parte di capitoli di un romanzo di fantascienza parla molto più di poesia che di fantascienza. Jan sembra quasi Robinson Crusoe che scrive lettere nella bottiglia ai veri scrittori di fantascienza dalla sua isola sperduta dell’America Latina dove è l’unico scrittore di fantascienza esistente. Inedito naturalmente. Il suo docente di letteratura gli chiede dopo la lettura del suo romanzo molto preoccupato se per caso ha fatto uso di allucinogeni. Anche il fatto che non esca mai di casa, che stia sempre in quella soffitta, lui e le sue allucinazioni, a guardare quelle albe parlanti, gli strani tramonti, le notti che si riavvolgono come nastri è molto bello. Spiega come lo spirito di poesia nutra lo spirito di fantascienza dell’opera di Bolano che non troverebbe radici e comprensione, né altro tipo di nutrimento adatto nell’isola deserta dell’dell’America latina.
“Chi dobbiamo baciare affinchè si svegli e rompa l’incantesimo? La follia o la bellezza? La follia e
la bellezza?”
“Certo è dura. Cerco di imparare, studiare, osservare, ma torno sempre al punto di partenza: è dura e sono in America Latina, è dura e sono latinoamericano, è dura e per colmo di disgrazia sono nato in Cile, anche se Hugo Correa (le dice qualcosa?) potrebbe contraddirmi. Per quanto riguarda le lettere sono tutte rivolte a scrittori di fantascienza degli Stati Uniti; scrittori che suppongo ragionevolmente siano ancora vivie che mi piacciono come J. Tiptree Jr., T. Surgen, R. Bradbury, R.A. Lafferty, F. Leiber, A. Bester. (Ah, se potessi mettermi in comunicazione con i morti scriverei a P. Dick). Non credo che molte delle mie missive arrivino ai destinatari ma devo sperarlo con tutte le mie forze e continuare a spedirle……
…Vuole sapere perché scrivo lettere? Forse solo per rompere le scatole o forse no… Forse sono ammattito a forza di leggere romanzi di fantascienza…Forse queste sono le mie astronavi NAFAL. In ogni caso al di là di tutto la ringrazio infinitamente, Un abbraccio,
Jan schrella” (a Ursula K Le Guin)

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Lo consiglio ma non come primo approccio a Bolano.
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    20 Gennaio, 2018
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Il dolce rimpianto che fu

Un libro tutto giocato sul filo del rimpianto e delle sue conseguenze, quest’ultimo testo di Alessandro Robecchi: Follia maggiore.
Un sentimento quello del rimpianto che in questo caso ha un che di dolce e di sentimentale. Ma c’è qualcosa di peggio ed:
“E’ quando il rimpianto si incastra con il rimorso, due cose inestricabili che messe insieme sono micidiali.”.
Sembra vivere in preda a tali emozioni Umberto Serrani, un uomo di settantadue anni, elegante, perfetto, ex faccendiere finanziario, operatore in quel mondo particolare sempre in bilico tra il legale e l’illegale, dai clienti facoltosi e danarosi, oggi in preda e in balia delle ossessioni più profonde. La ferita, sempre aperta da ben venticinque anni, si incancrenisce ancor di più, una mattina quando apprende che Giulia Zerbi è stata uccisa in modo brutale per la strada. Giulia, un amore del passato, conosciuta quando lui era già sposato con prole, mai dimenticata, un amore libero, vissuto in un eterno arcobaleno, disarcionato dalle necessità contingenti della vita.
“Diversissimi, lei intellettuale ironica, i corsi di sceneggiatura in Francia, l’insegnamento, le traduzioni. Lui chiaramente razionale, veloce nelle risposte, misterioso perché non poteva dirle che di mestiere nascondeva i soldi dei ricchi. (…) C’era invece un’intesa tra menti libere, va bene, ma soprattutto c’era una corrente costante tra loro, un cavo scoperto dell’alta tensione, un’attrazione fisica che poteva degenerare in dipendenza, ma non come si può pensare. Era una ricerca reciproca dei limiti reciproci e dell’osare, era il piacere di concedere tutto, di annullare ogni difesa e ogni pudore.”.
Lì decide di pagare i debiti, mai assolti, con il passato e fa la conoscenza con l’unica figlia di Giulia, Sonia. Ha un piano ben preciso in mente e non può metterlo in atto da solo. Accorre in suo aiuto Carlo Monterossi e Oscar Falcone. Carlo, autore televisivo che ha dato il via alla trasmissione trash “Craz Love”, poi abbandonata per gettare le basi di un programma innovativo, con l’hobby delle investigazioni, e anche un po’ di fiuto per cacciarsi in guai notevoli, è stato protagonista di altri libri a firma di Alessandro Robecchi come Torto marcio o Di rabbia e di vento. Con l’inseparabile, un po’ enigmatico, amico Oscar aiutano Umberto nei suoi propositi, soprattutto cercando di realizzare i sogni e le ambizioni di Sonia, una giovane ragazza, che sta cercando, affannosamente, di diventare una cantante lirica. Ed allora ecco che:
“ho assistito al melodramma dell’orfanella salvata e protetta. Ho visto un mondo che mai avrei pensato… Lo spettacolo del giovane soprano che bacia lo sposo cantando alla sposa che… “non si dà follia maggiore dell’amare un solo oggetto? “.
Intense, come ho già affermato all’inizio, le pagine dedicate al filo conduttore del romanzo: il rammarico, la nostalgia dolorosa. Ma:
“Ma non c’è solo il rimpianto, c’è anche la cura, c’è un amore post-abbandono che può essere denso e potente. Un rimettere a posto le cose, un risarcimento postumo, un dire, sì, l’ho perso, ma era il mio amore e lo sarà sempre. Come dire che il rimpianto è una cosa complicata, che sa travestirsi da attenzione, da dedizione, ma alla fine rimane rimpianto.”
A far da cornice alle vicende narrate c’è sicuramente Milano, una Milano trasformata, quella del ceto medio impoverito, un po’ triste, che non è più, costantemente piovosa, lugubre, lontana dagli sfarzi e dagli agi tristemente esibiti.
Follia maggiore è sicuramente un giallo, vivace ed intrigante, che avvince sempre di più, fino alla risoluzione finale. Ma ha un sottofondo, intimo ed intimistico, di malinconia soffusa, di dolcezza perduta, magari celata dietro un tono falsamente ironico o cinico. Alessandro Robecchi si conferma, ancora una volta, un ottimo e fine romanziere, capace di mescolare vari temi e generi con arguzia letteraria e sapienza narrativa.

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Consigliato a chi ha letto ed amato Alessandro Robecchi Torto marcio o Di rabbia e di vento.
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Flavia Buldrini Opinione inserita da Flavia Buldrini    18 Gennaio, 2018
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Sulle orme dell'amata

Questo libro è una quête struggente quanto lucidamente raziocinante dell’autore sulle orme dell’amata, madre dei suoi tre figli, prematuramente scomparsa in seguito ad una grave malattia. Il giornalista Yari Selvetella, come un ‘segugio’, speculare di quel “cane pastore” che difende la propria famiglia in cui volentieri più volte s’identifica, ‘fiuta’ ogni minima traccia di lei, nei luoghi più frequentati della memoria, in quelli abitati in cui ha lasciato il segno, avventurandosi in un labirinto interiore che trova fisicamente espressione nell’ospedale, nei suoi fitti meandri in cui l’ha persa e in cui si sta smarrendo anch’egli, rischiando di non ritrovare il filo di Arianna, il bandolo della matassa per evadere dalla prigione di una vita incatenata alla sua assenza. L’architettura di questo romanzo autobiografico è improntata all’allegoria, alla galleria di ‘stanze dell’addio’, appunto, di cui si varca la soglia man mano che questo percorso spirituale volto al superamento del trauma progredisce: dalla realistica presa di coscienza di quanto è accaduto, aggirando i tentativi di rimozione o l’edulcorata consolazione dell’illusione, alla graduale elaborazione del lutto, tra tenere reminiscenze che affiorano sulla scia di una sensazione o di un sapore - un po’ come la madeleine di Proust – e i blocchi di iceberg nelle distese gelate di un dolore sommerso, fino alla rivalsa della vita sulla morte con il successo professionale e una nuova creatura che nasce, rivendicando il proprio ‘sacrosanto’ “diritto ad amare.” Gli stessi protagonisti sono allegorici: di nessuno di essi - neanche della stessa donna o dei figli - viene evocato il nome, quasi a lasciarli fluttuare nella loro libera quintessenza che rimanda a qualcosa di troppo ineffabile e sfuggente per essere sclerotizzato in una definizione. Alcuni, poi, hanno precipuamente una funzione allegorica, come i personaggi chiave de “l’uomo coi baffi” e del “ragazzo del bar”, una sorta di guide dantesche quali Virgilio o Beatrice che iniziano al viaggio nel tortuoso dedalo esistenziale, in cerca di una via d’uscita: il primo, mostrando, con la sua caricatura di una parvenza vitale inchiodata alla perdita della moglie, l’assoluta improrogabilità di reagire per non restare invischiati nella bava dei rimpianti e dei rimorsi che paralizza la vita; il secondo, invece, indicando la necessità di abbandonare l’irresolutezza giovanile per abbracciare una matura determinazione. Anche i luoghi assumono connotati metaforici, come le stanze che custodiscono la memoria dell’amata nei diversi trascorsi e che allo stesso tempo inducono a trascenderla, quali anelli ad incastri e, ciò che è l’archetipo dominante cui viene affidata la conclusione del romanzo, l’onnipresente mito del mare che sembra cullare l’intera vicissitudine, i protagonisti, le idee, i sentimenti, i ricordi, trovando compimento all’ombra dell’icona del Moby Dick, a suggerire il mistero del proprio destino.
Yari Selvetella adotta uno stile moderno, di notevole arguzia e fluidità intellettuale, che spazia dal flusso di coscienza di Joyce al surrealismo di matrice kafkiana, tra continui flashback che sovrappongono un piano temporale all’altro, per cui, come all’autore, così pure al lettore sembra di essere sulla nave, in balìa delle onde, ciò che è il punto di osservazione privilegiato per affacciarsi sull’ignoto: “Il mare è una grande mente e penso che potrei esplorala davvero molto a lungo (…) È la nave stessa, ho pensato, che rende il mare liquido, lo apre, lo tritura nel motore e lascia alle nostre spalle un tumulto d’acque. (…) Siamo noi, è la nave, che modifica tutto, che droga gli organi, che inquina, ma a stretto contatto con un altro tempo. (…) Lo sfiato di un cetaceo celebra il suo dominio sull’elemento. Il capodoglio spruzza. (…) Spunterà di nuovo, un grande saluto con la pinna caudale che sbatte, sulla superficie dell’acqua? Si può solo cacciare o adorare un simile animale. Invece no, non l’ho più visto e come sempre accade in queste storie da quando ti ho conosciuto, non so più se quello che ho così intensamente vissuto è poi veramente successo.”



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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    18 Gennaio, 2018
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un inno alla pace e alla ricostruzione

Audur Ava Olafsdottir scrive un libro stupendo, eletto Libro dell’anno dai Librai islandesi, che giunge ora in Italia con il titolo Hotel Silence. L’autrice, nata a Reykjavik nel 1958, ha pubblicato Rosa candida, La donna è un’isola, L’eccezione, e Il rosso vivo del rabarbaro.
Quest’ultimo libro è un inno alla pace, una forte visione laica che riavvicina l’uomo in quanto tale a quanto di umano dentro di lui ha resistito agli orrori della guerra. Il racconto di una rigenerazione e di una trasformazione, fondato sull’assioma preciso secondo cui anche dalle macerie, dal lutto, dal sangue, si può erigersi, trasformarsi, e mutare tutto in un fiore, illuminato dalla dolce luce del sole.
Jonas Ebeneser è un uomo di quarantanove anni, deluso, stanco e solo. Ha una moglie da cui ha divorziato, e una figlia, di cui ha appena appreso di non essere il padre biologico. Ha perso la volontà di vivere, è in piena crisi depressiva e vuole suicidarsi. Si definisce:
“Io sono carne. (…) Per carne intendo tutto ciò che sta in posizione inferiore rispetto alla testa. Il che è coerente con il fatto che la carne è origine e termine di tutte le cose più importanti della mia vita.”.
Non vuole procurare un trauma alla figlia, e allora studia attentamente i vari tipi di suicidi:
“non immaginavo davvero che il gruppo di uomini e donne decisi a dare un taglio netto alla propria vita fosse tanto numeroso. (…) interessante notare che le donne agiscono diversamente: ce chi lo fa in cucina, dove basta girare la manopola del gas, chi sui sedili dell’auto, chiusa in garage con il motore acceso e qualche bicchierino di vodka. (…) Constato anche che le donne siano inclini ai messaggi di addio. “
Così decide che è meglio morire all’estero, in un paese straniero. Ne sceglie uno a caso, martoriato dalla guerra, che pare essere terminata, di cui, però, non se ne ha assoluta certezza. Lì regna ovunque distruzione e devastazione:
“la devastazione è ovunque. Alti palazzi condominiali sono semidistrutti e mancano quasi dappertutto i vetri alle finestre, laddove i muri si reggono ancora. Penso, tra me e me: qui le case crollano sotto le bombe, da noi si schiantano le rocce, le pietre quasi fuse affiorano e galleggiano sulla lava come sulla corrente di un fiume.”.
Lui armato di una sola cassetta degli attrezzi, in cui c’è anche il trapano per costruire il gancio a cui appoggiare la corda per impiccarsi, e di un cambio di vestiti, trova alloggio presso l’Hotel Silence,dove
“è come se su tutti i colori fosse calato un velo, come un corpo illividito che da tanto tempo non vede il sole. Nell’aria sonnecchia un sentore di muffa.”
Qui comprende come la sofferenza delle sue “cicatrici” sia ben poco rispetto a quella delle altre persone, che hanno vissuto la guerra, tra mine antiuomo, violenza dei soldati e degli invasori e totale annientamento. Con l’aiuto dei fratelli May e Fifì, e il piccolo Adam, inizia un percorso di rinascita, ottenuta a caro prezzo, con percorsi difficoltosi e sofferenti, intercalati da periodi di abulia e di totale disconnessione. La celebrazione della vita e della sua avvenenza, nonostante tutto, è una costante che percorre tutto il romanzo.
Il libro è davvero molto bello, tenero, scritto con grazia e soavità. E’ la storia intrigante e fascinosa di un uomo, di una comunità, e di un viaggio verso la riconquista della serenità, del quieto e normale vivere quotidiano dopo il baratro della sofferenza e del dolore estremo. Accurate ed elegiache sono le descrizioni degli orrori della guerra, delle tragedie che porta con sé, della mancanza di obiettivi e di scopi che caratterizza i sopravvissuti, che non riescono ad agire e a comunicare. L’autrice descrive con arguzia letteraria realtà orrende e squallide, mescolate ad un tono a volte cinico e sornione, quasi ad alleggerire l’atmosfera e la tensione creatasi. La vita e l’essere umano sono celebrati nella loro piena bellezza, senza sconto alcuno, con elegia e melodia. Simbolico è anche il titolo dell’hotel, antico albergo di lusso dove andare a fare delle cure termali, è l’analogia ambivalente del silenzio, del vuoto, in mezzo alle urla e al sangue dello sterminio e dell’orrore. Una lettura profonda e meditata, positiva e perspicace.

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Consigliato a chi ha letto ed amato della stessa autrice Il rosso vivo del rabarbaro e La donna è un'isola.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    18 Gennaio, 2018
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La truffa nella truffa

Mark, Todd, Gordy e Zola sono quattro studenti della Foggy Bottom, una università di legge di Washington non nota per qualità e merito. Iscrittovisi per realizzare il sogno di crearsi un proprio redditizio futuro, i ragazzi sono ormai prossimi alla laurea e sempre più consapevoli dell’ingente prestito studentesco che dovranno restituire a partire dai sei mesi successivi del conseguimento. Al tutto, si sommano la preoccupazione di dover sostenere il complesso e difficile esame per ottenere l’abilitazione nonché i rispettivi problemi familiari. Ormai sono consci del fatto che il loro istituto, pur di far cassa, raccoglie gli studenti e i professori più mediocri sulla piazza e i risultati degli abilitati stessi, ne sono una prova. Sono giorni stressanti per il gruppo, giorni in cui il pensiero dei debiti e del loro avvenire li schiaccia. Gordy, in particolare, che soffre di un disturbo bipolare, è tormentato dalle bugie che ha raccontato ai suoi genitori (che a loro volta pur di permettergli di studiare si sono indebitati fino al collo) e alla fidanzata storica che a seguito dell’imminente matrimonio in maggio, si aspetta una vita rosea e felice accanto ad un professionista di successo, tanto che decide, dopo aver illustrato agli amici le sue scoperte sui meccanismi di approvvigionamento della rete universitaria e del relativo rettore, il signor Rackley (socio oltretutto di una banca specializzata nella concessione e nel recupero dei prestiti studenteschi), di farla finita.
Sconvolti dalla morte dell’amico e disillusi e arrabbiati per il torto subito, i tre decidono di vendicarsi con un piano tanto folle quanto astuto: cambiando le loro identità fondano lo studio legale “Upshaw, Parker & Lane” con quartier generale al Rooster Bar. I controlli sugli avvocati sono minimi, nessuno chiede mai il tesserino o le generalità, nulla osta, quindi, al potersi spacciare quali legali specializzati nella guida in stato di ebbrezza e in altre piccole cause dal guadagno facile. Ha inizio così, la loro rocambolesca avventura tra legalità e non legalità, un’avventura caratterizzata da una truffa nella truffa che avrà risvolti tutti da scoprire.
Con “La grande truffa” John Grisham fa capolino in libreria con un romanzo che da un lato torna a solcare le aule di tribunale ma che al contempo se ne distanzia mostrando quella che è la realtà dello studente americano. Il meccanismo che viene descritto, mediante l’utilizzo di questo gruppo di ragazzi disperati, è il perno di un testo che altrimenti potrebbe apparire assolutamente folle e irrealizzabile. Chi come me ha studiato legge, sa bene infatti, quanto sia impensabile potersi spacciare per difensore senza titolo nonché quali sono i limiti e i vantaggi della professione e del praticantato. Di fatto, l’opera sa conquistare e avvincere il lettore nonostante questo puntiglio di partenza.
Stilisticamente lo scritto si mantiene sulla linea a cui lo statunitense ci ha abituato, distinguendosi, in particolare, per precisione e fluidità. Come ne “L’informatore” l’ho trovato un poco sottotono, ma credo dipenda dalla tendenza al rimarcare sul confine legalità-illegalità che, se si esclude – in parte – “Il caso Fitzgerald”, è oggetto principale dei suoi ultimi componimenti.
In conclusione, una piacevole lettura seppur non indimenticabile.

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Romanzi erotici
 
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    17 Gennaio, 2018
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UN NUOVO ANNO ANCORA LA STESSA STORIA

Anche quest’anno la vecchia volpona di E.L. James ha pubblicato un nuovo libro sulle cinquanta sfumature e dopo Grey, ho avuto il “piacere” di leggere anche Darker, la versione di 50 sfumature di nero con la voce narrante di Christian Grey.
All’inizio del libro troviamo un Christian diverso, non è di certo un maschio alfa ma sembra di più un adolescente innamorato, preoccupato perché non sa se la sua Anastasia lo rivuole e anche perché è cosciente del fatto che è stato lui che l’ha fatta soffrire.
Certo che in tre giorni le cose non possono cambiare più di tanto, anche se sembra che in questo libro le emozioni e i sentimenti mutano velocemente, da un momento all’altro tutto quello dolore passa e i due tornano insieme, senza nessuna piega.
Il romanzo non è molto diverso dalla versione precedente, ci sono delle parti che non conoscevamo della vita di Christian, ma in buona sostanza il libro rimane noioso e prevedibile. E soprattutto la storia è sempre la stessa.
I dialoghi sono banali e prevedibili e ho davvero trovato fastidioso che continuamente Mr. Grey volesse imporre la sua volontà, anche se come sappiamo lui sta cercando di migliorare per la sua Anastasia,ma forse non abbastanza.
Mi sono chiesta dopo cinque libri letti se davvero Christian ami questa ragazza, oppure se sia solo voglia di possesso e sia geloso che altri possano stare con lei, ma non sia vero amore.
Non posso immaginare che questo sia l’amore con la A maiuscola, qui non siamo di fronte ad una favola moderna ma solo ad una storia che si basa sul lato fisico, sulla gelosia, sembra una transizione d’affari.
Ma mi domando cosa ci sia ancora da dire su questa storia, non ho letto delle novità eclatanti che mi hanno lasciato a bocca aperta, sapevamo già dell’infanzia difficile di Christian, sapevamo delle sue manie di dominatore, sapevamo della sua relazione turbolenta con Mrs Robinson, che l’ha avviato a questo tipo di rapporti “particolari” e lui stesso è stato a sua volta un sottomesso.
Anastasia dal canto suo l’unica cosa che fa, è sorridere e dire wow, per lei tutto questo è una meravigliosa favola, per noi lettori al quinto libro di questa serie direi che ormai questa storia sta diventando una farsa. Una sagra della banalità, del lusso, del nulla più assoluto e quindi non potrei nemmeno fare una recensione sulla trama, in quanto è sempre quella trita e ripassata in padella aggiungendo qualche erbetta di qua e di qua, così per arricchire il piatto.
Quindi passiamo oltre e chiediamoci, l’autrice sarà in grado di creare nuovi personaggi o rimarrà imprigionata in queste cinquanta sfumature? Io direi che o si inventa qualcosa di nuovo, magari cambia genere si dà al giallo o che ne so io, al dispotico, oppure si ritira a vita privata. So già che quello che sto dicendo non verrà apprezzata dalla maggior parte delle lettrici affezionate di questa saga, ma cosa possiamo ancora chiedere a questa storia?
Possiamo sopportare ancora che questi libri siano al primo posto in classifica? Che non ci sia spazio per dare importanza anche ad altro?
Dopo i libri, i film, i gadget e la riscrittura degli stessi romanzi, cosa manca ancora? Se quando uscirono furono la “novità” ,o meglio un libro mediocre ben pubblicizzato, ora sono solo una barzelletta.
Forse tra due o tre anni ci troveremo a parlare di un nuovo libro che si chiamerà 50 sfumature vent’anni dopo, con protagonisti i figli di Christian e Anastasia.
Vorrei veramente sapere cosa ci trovano in questo libri, cosa hanno di così particolare da avere tanto successo, non lo capisco sul serio.
Il nostro secolo verrà ricordato anche per le 50 sfumature, ma cosa penseranno di noi? Che siamo degli stupidi, una branca di idioti che siamo riusciti ad acclamare una storiella banale come questa.
Non dite ragazze che siete romantiche, che Christian è il vostro uomo ideale perché non ci credo, non penso che a lungo andare basteranno un bel fisico e i soldi per essere felice. Ci vuole ben altro, forse sono vecchia ma alla favole non credo e questo romanzo come gli altri non fa sognare nessuno, è così scontato, finto e privo di veri sentimenti.
Non posso ingannare i lettori e dirvi che è il libro della vostra vita, che la storia vi emozionerà, che questa riscrittura renderà la storia più verosimile, non lo posso fare quindi per favore non seguite la massa e dedichiamo il nostro poco tempo a dei romanzi più importanti.

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Letteratura rosa
 
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Belmi Opinione inserita da Belmi    09 Gennaio, 2018
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Abbiamo fatto clic

La dedica al libro introduce in modo molto chiaro l’argomento di questo libro:

“Per mia sorella Marija che, essendo sempre più avanti degli altri, ha da poco impalmato un uomo più giovane”.

I protagonisti di questo nuovo libro della Premoli sono Julie, scrittrice trentaseienne di romanzi rosa Regency e il suo nuovo vicino di casa, Terrence, un musicista molto giovane e famoso. Per chi come me avesse già letto anche “È solo una storia d’amore”, la protagonista è una delle scrittrici amiche di Laurel.

Come per il precedente romanzo, la Premoli rimette in luce il fatto che essere scrittrici di rosa e di storici, non ti qualifica come una scrittrice di serie b, anche se in quest’ultimo lavoro rimarca molto meno l’argomento andando invece, come ormai succede in tutti i suoi ultimi libri, a parlare molto di politica. La Premoli critica in maniera per niente velata il presidente americano e tutto quello che riguarda la sua politica.

Politica a parte, posso tranquillamente dire di aver letto con piacere questo libro, ho ritrovato la Premoli dei primi tempi, cosa che negli ultimi libri non era successo, tanto da chiedermi, se li avesse scritti lei (visto le voci che girano su internet). La trama come prevede qualsiasi romanzo rosa è abbastanza prevedibile, quindi non voglio dire niente, ma la sua prevedibilità non toglie piacevolezza alla lettura.

La sua protagonista è una donna un po’ ambigua, con scarsissima autostima ma con la faccia tosta di uscire con un abbigliamento molto discutibile.. devo dire che nel carattere di lei e nella costanza di lui, ho trovato delle analogie con i protagonisti di “Ti prego lasciati odiare”..che l’autrice abbia deciso di ritornare sui primi passi?

Comunque alle fan della Premoli posso dire che questo romanzo mi è piaciuto, non sono riuscita a staccarmi dalle pagine e mi sono fatta anche delle grasse risate, la vicina è una dei pezzi forti della storia. Trovo poco convincenti il titolo e la copertina che per me non rispecchiano minimamente il libro anche perché la protagonista ha problemi con il tempo..ma solo per via dell’età e il gatto non ce l’ha!

Buona lettura amanti del rosa, la Premoli è finalmente tornata!

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I primi libri dell'autrice
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    07 Gennaio, 2018
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Teresa Battaglia

Bosco di Travenì. Il corpo di un uomo viene rinvenuto privo di vita. Giace sull’erba in posizione supina, è coperto di brina. Il candore della sua pelle contrasta con il nero dei capelli e del pube. Le braccia sono poste lungo i fianchi, le mani adagiate su un cuscino di muschio, tra le dita qualche fiore invernale dai petali pallidi e trasparenti. Un dipinto quello che si apre innanzi alla squadra di polizia, in cui gli unici colori sono determinati dal rosso cadmio scuro del sangue ormai freddo, delle vene svuotate, dalle membra rigide. Il gelo ne ha mantenuta integra la conservazione, nessun odore se non quello della selva, della terra umida e delle foglie marcescenti è percepibile nell’aria.
Investita del caso è Teresa Battaglia, commissario di polizia specializzato in profiling che ogni giorno scruta e analizza il peggio del peggio dell’intimo dell’essere umano e che imperturbabile nasconde un segreto, un segreto inconfessabile ma determinante per la sua vita e la sua carriera lavorativa. Tanti sono gli elementi che la rendono inquieta: il quadro presentato fa pensare ad un delitto compiuto da due persone diverse. Una prima, lucida, metodica che ha posizionato e custodito (con trappole varie) il corpo affinché arrivasse al suo pubblico nel modo più integro possibile, una seconda, al contrario, completamente disorganizzata, quasi animalesca, che non si è fatta scrupoli o preoccupazioni nell’uccidere in vicinanza di un sentiero e con alte possibilità di essere visto/a. Quasi, come se l’omicidio fosse frutto di un raptus. La protagonista, coadiuvata nell’inchiesta dal novizio ispettore Massimo Marini, con cui si instaura da subito un rapporto molto particolare a cui ancora non si è in grado di dare un nome, e dai veterani del corpo, sa benissimo che per capire chi è l’assassino di Roberto Valent deve prima di tutto stabilire il come dell’azione e, una volta ricostruite passo passo le modalità di questa, rispondere a quell’unica ma fondamentale domanda: perché? Interrogativo a cui nello scorrere dell’opera se ne aggiungono molti altri. Chi è il bambino n. 39? Cosa si cela nel passato? Cos’è accaduto nel trascorso da essere così determinante per quello che è oggi il presente?
Da questi brevi e semplici assunti ha inizio il romanzo di colei che è definita come la nuova promessa del thriller italiano, Ilaria Tuti. Che dire, i presupposti per riuscire ci sono tutti: lo stile narrativo è fresco, ben argomentato, sottile, elegante e sufficientemente maturo. La storia, dal suo canto è ben orchestrata e caratterizzata dai giusti colpi di scena, dai giusti mutamenti d’azione. Le ambientazioni, ancora, rendono palpabili le vicende descritte, i protagonisti sono ben delineati tanto da risultare tangibili e concreti per chi legge. Purtroppo però, quel che manca all’opera è quel velo di originalità che l’avrebbe resa inattaccabile sotto tutti i punti di vista. Nello scorrere delle pagine, infatti, i riferimenti e i rinvii ad altri elaborati (vedi “Child 44”/”Bambino 44” di Tom Rob Smith, giusto per citarne uno a titolo meramente esemplificativo) del filone sono inevitabili. Quella sensazione di deja vu è una costante in tutto il volume e fa sì che il lettore perda un poco di interesse nel conoscere dei fatti. L’impressione è quella di ritrovarsi di fronte a un riassunto del meglio che c’è in giro in materia di thriller.
Ad ogni modo “Fiori sopra l’inferno” resta un buon romanzo, adatto a chi cerca opere con quel giusto alone di mistero e si conferma un buon esordio il cui successo definitivo è interamente nelle mani dell’autrice. Non ci resta che aspettare e vedere come questa evolverà la storia nonché il personaggio del commissario Battaglia.
Buona lettura!

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Gialli, Thriller, Horror
 
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lapis Opinione inserita da lapis    07 Gennaio, 2018
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"La morte ci rende tutti pazzi per un po'"

La vita è un palcoscenico dove tutti indossiamo il nostro costume di scena e interpretiamo un ruolo. Nessuno lo sa meglio di Joan Grice, la guardarobiera del Beaumont Theatre, abituata a cucire abiti che calzano alla perfezione. Perché il vestito è tutto, il vestito si anima dello spirito di chi lo indossa. Anche quando quel qualcuno non c’è più.

È così che alla morte dell’amatissimo marito Gricey, celebre attore e inseparabile compagno di vita, una folle idea comincia ad insinuarsi nella mente di Joan. Che nel grande armadio, nascosto tra le pieghe del cappotto e nella trama del completo che porta ancora il suo odore, si nasconda la voce e l’anima dell’uomo da cui non riesce a staccarsi. E quando vede il giovane Daniel Francis calcare la scena nel ruolo di Gricey, vestendone gli stessi panni e copiandone gli stessi gesti, sarà come rivederlo vivo, in un altro corpo. E crederci diventa l’unico, irrinunciabile modo per sfuggire al proprio dolore.

"La morte ci rende tutti pazzi per un po'" perché non è semplice elaborare il lutto e trovare il coraggio di lasciare andare chi si ama. E Joan si aggrappa al gin e a quella folle ossessione per scacciare la morte. Ma saranno proprio i vestiti, sinceri traditori, a rivelarle un terribile e intollerabile segreto. Forse l’uomo che aveva sposato non era chi lei credeva. Forse la loro vita insieme era tutta una recita.

È un romanzo di teatro, sul teatro. Nella scenografia di una Londra post-bellica, grigia, fredda e spettrale come non mai, tutti recitano. Gli attori, ad interpretare storie in cui si riflettono i loro drammi privati. Gli uomini, con le loro verità nascoste dietro menzogneri sorrisi. E i fantasmi delle ossessioni, che si aggrappano alla vita. “Una splendida simmetria, vita e teatro [...]; ma noi sappiamo che cosa succede quando compaiono le simmetrie, vero signore? Brutte notizie come se piovesse.”

Patrick McGrath si dimostra ancora una volta abilissimo a imbastire un romanzo psicologico in cui passioni e ossessioni si muovono in quel flebile confine tra normalità e follia, per mettere in scena la recita della vita. La prosa è limpida, sicura, scorrevole. Le atmosfere inquietanti e rarefatte. Gli spunti di riflessione pregevoli.

Lo ritengo quindi un buon libro eppure mentirei se dicessi che mi ha convinto del tutto e devo ammettere di essere riuscita a procedere oltre le prime pagine solo al terzo tentativo di lettura. Immersa nella nebbia delle sfumature della mente, la trama appare come un labirinto di sentieri di cui non riusciamo a comprendere appieno il disegno. Il teatro, il senso di perdita, la lotta antifascista nel 1947, il tradimento, la follia, ogni spunto è un sentiero di per sé interessante, ma ho trovato davvero faticoso procedere senza comprendere appieno la direzione. Ben scritto ma emotivamente poco coinvolgente, freddo. Proprio come le gelide atmosfere così ottimamente descritte.

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Narrativa per ragazzi
 
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Christy Unbuonlibro Opinione inserita da Christy Unbuonlibro    27 Dicembre, 2017
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Ultimo successo di John Green

Tartarughe all’infinito è l’ultimo lavoro di John Green, autore ormai conosciuto e amato da milioni di lettori, e secondo che leggo personalmente. In questo libro ho ritrovato lo stile lineare, ma ricercato dell’autore, la maestria con cui è sempre riuscito a fare arrivare ai lettori le emozioni di ogni singolo personaggio. Ma ho trovato anche un Green forse più maturo, che ha ricercato maggiormente la perfezione, raggiungendola ancora una volta.
Green con il personaggio di Aza ci presenta la paura, l’ansia di un’adolescente di contrarre una qualsiasi infezione che la porti alla morte. Paura che si manifesta in attacchi di panico quotidiani e che le impediscono anche semplicemente di ascoltare una conversazione, senza che senti dentro di sé la sua flora batterica “invaderla”, impossessarsi del suo io. Aza infatti è intrappolata in una spirale, come la definisce l’autore, da cui non riesce ad uscire e che le fa credere che ogni suo pensiero non sia davvero suo, ma che tutto sia dettato dai batteri che la circondano.
Aza, grazie alla magica penna di Green, descrive i suoi pensieri e le sue paure come se parlasse direttamente a noi lettori, consentendoci di capire, di affrontare quasi in prima persona le sue stesse paure. Siamo gli unici spettatori di quello che accade nella sua mente, i pensieri che la tormentano e contro cui non può lottare. Aza non è libera di scegliere, senza che la paura la invada. Aza è un personaggio forte ma resa reale grazie proprio alle sue paure, che l’avvicinano a noi lettori.
Oltre alla protagonista, conosceremo altri personaggi che ruotano intorno alla sua figura, tutti personaggi di un certo spessore e fondamentali per comprendere appieno la sua vita. Davis Pickett, amico d’infanzia di Aza e figlio del miliardario scomparso, è una figura molto interessante che, nonostante l’età, ha già capito molto della vita e di come questa possa essere amara. Davis sembra l’unica in grado di comprendere davvero quello che passa Aza e al tempo stesso sembra essere l’unico in grado di dare un nome alle paure dell’amica, trovando similitudini che possano rendere il problema più tangibile e quindi anche più facile da affrontare. La storia d’amore che nasce tra i due personaggi è molto velata, quasi eterea.
Come sempre John Green sa scegliere le parole, sa sempre emozionare ma anche stupire, perché le sue storie sono simili ma mai uguali, mai banali. Tartarughe all’infinito è un piccolo tesoro da gustarsi e da cui farsi cullare.

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Fantascienza
 
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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    20 Dicembre, 2017
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Un nugolo di falene

“In fondo la regione degli Appalachi non era chissà che”. Eppure, per un po’ è stato il centro del mondo, proprio mentre stava per finire.

Un nuovo, strano, affascinante morbo fa addormentare le donne e le ricopre di una specie di bozzolo: si chiama Aurora, come la bella addormentata delle fiabe, e arriva dall’Australia, dove hanno l'abitudine di avvolgere i bambini in un tessuto sottile e bianco per proteggerli dai raggi del sole.

Una donna in un carcere femminile sta delirando dell’arrivo di una regina nera, e la regina arriva con le sue falene e parla anche con altri animali, è magica, è bellissima, non ha linee sulle mani, e per prima cosa uccide a mani nude due criminali produttori di speed e si fa arrestare dallo sceriffo donna del luogo.

Ma Aurora non è un morbo, è un sortilegio, e Evie, la regina nera, è una diavolessa femminista vuole salvare le donne e far finire il nostro mondo, quello in cui regna il sesso più pericoloso.
Non è un caso se Evie viene rinchiusa in un carcere femminile, dove finiscono le donne più sfortunate, le più perseguitate. Non è un caso se le donne che si addormentano si ricoprono di un bozzolo, come se dovessero subire una metamorfosi. Non è un caso se eliminare il bozzolo non sveglia le dormienti ma le trasforma in bestie rabbiose, capaci di uccidere a morsi chiunque le abbia private del sonno, familiari amici o mariti che siano, perfino l’amato cagnolino.

In questa fiaba nera maschi e femmine hanno l’opportunità di dividersi e ricominciare: verso un nuovo mondo al femminile da una parte, verso l’estinzione dall’altra.
I maschi che si ritrovano con le compagne addormentate reagiscono virilmente: si trasformano in ladri, sciacalli, assassini, stupratori. Sommosse e saccheggi, brigate di assassini che per rabbia e per vendetta bruciano i bozzoli: una mossa geniale di fronte al rischio che il mondo finisca per mancanza di femmine procreanti.
Le dormienti, invece, si ritrovano in un altro posto, un posto che appartiene soltanto a loro, forse un sogno collettivo dove mancano maschietti e abitudini tecnologiche, ma con un vantaggio sicuro, non trascurabile, per qualcuno irrinunciabile: la sicurezza. Niente perfezione, ma una ragazza può crescere senza essere insidiata per i suoi seni.

Una fiaba al completo, con animali parlanti ed evocativi, ma popolata da personaggi che vanno al di là dello stereotipo fiabesco e incarnano sofferenze e passioni e orrori della nostra amara società: la crudeltà ottusa degli aguzzini, l’ostinato amore delle madri, l’inutile espiazione delle vittime, l’assurda stupidità delle carceri, la rabbia che infetta le buone intenzioni, i pregiudizi che ammorbano masse e istituzioni. L’ingiustizia che schiaccia ogni speranza, perché è sempre il sesso più pericoloso quello che comanda.

La fiaba scoperchia la nostra realtà. E pone molte domande. La risposta che raccontano i King, padre e figlio, è suggestiva. Ma non sempre funziona. L’apocalisse non travolge. Il mistero non trascina. Restano i personaggi a portare avanti la storia, restano gli orrori della quotidianità che prosperano come creature infernali.

Un grande romanzo, impastato con tutti gli ingredienti giusti, che purtroppo non lievita. Evie ha un potere salvifico affascinante, ma non ha la statura di John Coffey del “Miglio verde”. Manca qualcosa: un vero cambiamento, una domanda mai posta prima. Questo romanzo non lascia una traccia duratura, a parte una scia di falene e un lieve sorriso di complicità.
“In Pennsylvania Avenue videro il corteo presidenziale, una sfilza di limousine e SUV neri scintillanti. La colonna di auto proseguì senza fermarsi.
«Guarda.» Michaela fece cenno con il dito.
«Chi se ne frega» rispose Janice. «È solo un cazzone come tanti.»

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    09 Dicembre, 2017
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Non il miglior Lansdale

Partiamo dal presupposto che adoro Joe R. Lansdale e che finora, non ho trovato davvero deludente nessuno dei suoi libri. “Bastardi in salsa rossa” non è da meno, anche se credo che tra quelli che ho letto non sia tra i meglio riusciti.
Quella di Hap e Leonard credo che sia una delle coppie meglio riuscite del panorama poliziesco, sicuramente unica nel suo genere e spassosa oltre ogni dire.
Dunque, se amate già questi due detective, non esitate a leggere la nuova storia di cui sono protagonisti, anche se non è brillante come le avventure passate. Se vi state accostando a Lansdale per la prima volta vi consiglierei di cominciare con altro, come “Paradise Sky” o una delle prime avventure di Hap e Leonard.

Ormai dipendenti della compagna di Hap e della sua agenzia investigativa, i due protagonisti si ritroveranno a indagare su un caso che in quanto a guadagno è ben poca cosa, ma in quanto a guai... beh, saranno tanti come al solito. Una donna di colore si presenterà in ufficio, raccontando loro di come sua figlia sia stata trattenuta ingiustamente e molestata da una banda di poliziotti corrotti di un quartiere malfamato: Camp Rapture. Il fratello di lei, deciso a vendicarsi, comincia a piantare grane a quei poliziotti, che non esiteranno un istante ad ammazzarlo di botte per il disturbo. La donna chiede ai due di indagare, e si renderanno presto conto di quanta lordura nasconde quella storia, di quanto il crimine sia penetrato a fondo anche nella polizia.
Si troveranno di fronte avversari senza scrupoli, pronti ad ammazzare chiunque possa rappresentare per loro un problema, ma anche personaggi divertenti e tipici dell’opera di Lansdale.
Anche se con qualche cedimento e qualche forzatura, “Bastardi in salsa rossa” è una storia piacevole, ma senza troppe pretese. Varie cose vengono lasciate in sospeso e il finale è probabilmente un po’ affrettato, di qui il mio voto basso per quanto riguarda il contenuto. Vale la pena leggerlo anche solo per godere della simpatia dei due protagonisti, ma per quanto riguarda la trama è chiaro che non ci troviamo di fronte al miglior Lansdale, Il suo stile e la piacevolezza dei suoi libri rimangono a un buon livello, ma non al massimo.
Ripeto, se dovete iniziare a leggere Lansdale, partite da altro; se già lo apprezzate e non sapete che libro scegliere, tenetelo in considerazione.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    09 Dicembre, 2017
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Un thriller magistrale

Samantha Andretti è una ragazzina di 13 anni: la sua vita scorre nei soliti binari, la scuola media, la migliore amica, un ragazzo molto carino che vuole parlarle. Ma un giorno di febbraio qualcosa si interpone su quei binari e la corsa della vita di Samantha per qualche oscura e abominevole ragione, si interrompe.
Sono trascorsi 15 anni e Sam si risveglia nel letto di un ospedale: è riuscita inspiegabilmente a sfuggire allo psicopatico che la teneva segregata in un labirinto nel sottosuolo. E' stata ritrovata in un bosco, con una gamba rotta e in stato di shock. In città non si parla d'altro. I media stanno diffondendo la notizia e molte persone si sono commosse ed hanno dimostrato solidarietà per la ragazzina, divenuta donna nella prigione sotterranea di un mostro. Chissà come ha fatto a sopravvivere per tutti quegli anni? Perché il sequestratore non l'ha uccisa? Come è riuscita a fuggire? E soprattutto: può Samantha aiutare gli investigatori a catturare “l'uomo del labirinto” ?
Mentre gli agenti di polizia e i profiler si mettono in moto, inizia la caccia al mostro anche un investigatore privato, Bruno Genko. L'uomo ha trascorso la vita nella solitudine, per scelta, perché il suo lavoro l'ha richiesto. Adesso si ritrova come in un limbo di attesa devastante: Genko ha una malattia terminale e morirà da un momento all'altro. La notizia del ritrovamento di Samantha Andretti però lo colpisce: quindici anni prima i genitori della ragazzina si erano rivolti a lui in cerca d'aiuto, l'investigatore aveva preso i loro soldi ma era convinto che Samantha fosse già morta e non si era attivato per salvarla. Ora ritiene di dover rimediare a questo errore. Così inizia la sua personale caccia, quella più difficile e pericolosa, la caccia all'essere umano, così cattivo e depravato da venire considerato un mostro. Tra colpi di scena e rivelazioni inaspettate, riuscirà Genko a trovare e catturare il perverso sadico prima di morire?
Questo ultimo thriller di Carrisi è veramente notevole, un capolavoro del genere, secondo me. Inizia in modo inquietante ma non scioccante per il lettore, che si ritrova sempre più coinvolto nella storia. Pian piano l'adrenalina sale e diventa difficile smettere di leggere. Conoscendo l'autore ci aspettiamo colpi di scena eclatanti e un finale che ribalti completamente l'apparenza delle situazioni: e così è infatti. Però stavolta l'autore non ci ripropina per l'ennesima volta il finale del “Suggeritore” in salsa diversa -per fortuna! Stavolta è veramente capace di spiazzarci con qualcos'altro.
Il thriller è costruito in modo perfetto, le sequenze si incastrano in un ritmo incalzante e coinvolgente, in una climax avvincente che porterà al finale incredibile. Rispetto ad altri romanzi di Carrisi che ho letto ho notato di meno gli aspetti inverosimili che in alcuni degli ultimi romanzi erano fin troppo amplificati. Certo però anche qui l'autore rimane fedele alla scelta di narrare gli eventi in un luogo e tempo indefiniti ed indeterminati, che potrebbero e non potrebbero essere reali. Ci sono riferimenti alla realtà, come il caldo anomalo ed opprimente dell'estate, conseguenza dei cambiamenti climatici dovuti all'inquinamento, che però vengono trasfigurati ed amplificati come in una fiaba macabra. Così, il caldo non è solo caldo, ma arriva a modificare i normali comportamenti umani: le persone vivono e lavorano di notte e dormono di giorno, come novelli vampiri. Il luogo della narrazione non è reale ma è generico ed indefinito, come per il “Suggeritore”. Ci sono riferimenti ai romanzi precedenti ma non si tratta di collegamenti così importanti da formare una serie. Si tratta di piccoli richiami che il lettore può cogliere o meno, a seconda che abbia letto o non letto le opere precedenti.
In conclusione, un thriller direi magistrale, coinvolgente, serrato, sorprendente ed inquietante; sicuramente non completamente realistico, ma come sospeso in una fiaba nera o in un fumetto, secondo lo stile e l'inventiva letteraria migliore di Carrisi.

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A chi apprezza l'autore Donato Carrisi
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    06 Dicembre, 2017
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Inestimabile souvenir. Ottobre...

«E ottobre scorre piano, tra promesse e disillusioni, tra passato e futuro. Niente come ottobre, per farti ritornare in tempo che non c’è più. Niente come ottobre, per riproporre un antico souvenir. Nessun souvenir vale un ottobre. Perché è ottobre stesso, un souvenir. Tic. Tac. »

Ottobre, Napoli. E’ una mattina come tante quando viene rinvenuto il corpo privo conoscenza di un uomo tra i cinquanta e i sessanta anni, di corporatura robusta, in un cantiere edile. E’ ancora vivo ma è stato brutalmente percosso tanto che le possibilità di un suo risveglio sono ardue; oltre che ad aver riportato ingenti lesioni su tutto il corpo, sono le ferite alla scatola cranica a rendere difficilmente auspicabile un lieto fine. Chi è? Perché dopo essere stato colpito ripetutamente è stato deciso di abbandonare il suo corpo proprio nel luogo dove è in costruzione la nuova metropolitana? La squadra dei Bastardi non esita un attimo nel mettersi al lavoro, e riscontrando molteplici incongruenze nella dinamica dei fatti riesce a scoprire che il ferito, Ethan Wood, americano, non è altro che il figlio della celebre Charlotte Wood attrice nota al grande pubblico che ha soggiornato in quel di Sorrento nel 1964 per girare “Souvenir”, pellicola che l’ha consacrata per bravura e bellezza. E seppur la donna sia affetta da una prominente demenza senile, la figlia e sorella dello statunitense, Holly Wood, riuscirà ad indirizzare le indagini sul passato. Perché se la famiglia si trova lì è solo e soltanto per far luce su quel che è stato, su circostanze indecifrabili che hanno influito inevitabilmente sul corso delle loro vite. Ad affiancare la vicenda principale non mancano i collegamenti con la mafia né, tanto meno, una inspiegabile inchiesta che viene affidata su richiesta della Questura stessa a Marco Aragona. Non pochi i dubbi e le perplessità che conseguono a questa, Palma, non riesce a spiegarsi il motivo di predetta soprattutto in virtù della scarsa considerazione da sempre nutrita dai superiori nei confronti dell’agente scelto. Non mancheranno, infine, sviluppi relativi alle vicende personali di ciascun protagonista a cui seguirà un epilogo che non difetterà di far stringere il cuore del lettore.
Il tutto è accompagnato dal sapore della malinconia, dal sapore di un tempo sfuggito e forse perduto per sempre, dal sapore di occasioni scivolate via sull’onda del ricordo di quel mare e di quella gioventù sfumata, di amori strappati, di amori a cui si è dovuto dire addio. Eppure è un trascorso fondamentale, essenziale, necessario perché è indispensabile per il futuro che ancora deve venire e per quello che è già venuto. Il tutto, è ancora avvalorato da ambientazioni e scenari mixati ad uno stile narrativo leggero e fluente talché chi legge è trasmutato tra lo ieri e l’oggi con quella delicatezza e unicità che è propria di uno degli autori più bravi del panorama italiano.
Molteplici anche le riflessioni che sono contenute nell’ultimo componimento del narratore, un elaborato che non è privo di sospiri, che non è privo di colpi di scena. Ben costruito è l’intreccio narrativo, ineccepibile l’epilogo. Ci riesce ancora De Giovanni, ci riesce a pieni voti e dona al conoscitore un vero e proprio “Souvenir”.

«A volte il gusto pare uno, ma è un altro. Magari, pensando al contrario, uno risolve le cose, non credi? [..] E ricordati: io capita che cerco le cose nei punti sbagliati, e invece quelle stanno dove devono stare. Perdo solo un po’ di tempo, ma poi le trovo.»

«Forse sì. Perché i debiti li abbiamo con noi stessi, prima che con gli altri. Se la mattina, nello specchio, vedi la stanchezza di due occhi che non hanno voglia di aprirsi al mondo falso che ti circonda, la colpa è tua e soltanto tua. Ma purtroppo il coraggio di scegliere tra i rimorsi e i rimpianti non è da tutti»

«Ottobre ti spiega che non è più il tempo i ricordare che bisogna prepararsi a ciò che viene. E se non capisci, peggio per te.»

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