Il giorno della civetta Il giorno della civetta

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Calderoni Opinione inserita da Calderoni    15 Febbraio, 2021
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Capitan Bellodi: l'anticipatore dei tempi

Capitan Bellodi. Basterebbe questo personaggio a rendere unico il capolavoro letterario di Leonardo Sciascia. Il giorno della civetta ha saputo anticipare clamorosamente i tempi. Dalla penna dello scrittore di Racalmuto prende forma già nel 1960 un commissario impegnato nella lotta contro la mafia nella Sicilia più verace. Capitan Bellodi è il padre della generazione di grandi magistrati che nei decenni successivi hanno lottato per una Sicilia e un’Italia migliore, da Carlo Alberto Dalla Chiesa e Gian Carlo Caselli a Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. L’immagine finale del romanzo breve di Sciascia è nostalgica e profonda, racchiude tutta la tenacia e la determinazione del capitano. Bellodi è nella sua Parma, è una Parma imbiancata dalla neve e gioviale, ma pensa e ripensa a quella Sicilia che ha lasciato da qualche settimana con un caso molto intrigato che si è trasformato, come era lecito attendersi, dopo la sua partenza, in un semplice fatto da ascrivere ai “delitti passionali”. Invece, sotto c’era molto di più e il capitano era riuscito a muovere i fili giusti, sospinto dal suo profondo senso di Giustizia. Usiamo la lettera maiuscola per Giustizia non a caso. Quello che maggiormente colpisce nel personaggio di Bellodi è proprio la profondissima convinzione nella Giustizia. Straordinario, dal punto di vista letterario, è il falso verbale pensato e realizzato dal capitano, perché per fronteggiare la mafia bisogna ragionare come la mafia e Bellodi lo fa perfettamente, cercando di incastrare i protagonisti di questo triplice omicidio. Il primo a morire è Salvatore Colasberna, edile che non chiede la protezione di chi “comanda” il settore in quella misteriosa Sicilia (i due paesi coinvolti sono indicati con semplici iniziali, perché come sostiene Sciascia fatti simili potrebbero verificarsi ovunque). Il secondo è Paolo Nicolosi, che suo malgrado nella mattinata dell’uccisione di Colasberna ha incrociato il proprio destino con il mandatario dell’assassinio. Infine, il terzo è il “confidente”, Parrinieddu, che non regge la tensione dopo alcune confessioni al capitano, attirando su di sé l’attenzione della mafia. L’intreccio studiato da Sciascia è vincente: non mancano né gli omicidi né l’indagine come in un romanzo giallo, ma la portata storica e l’impatto sociale sono ben diversi. Si passa dalla Sicilia a Roma e vengono ricreate solamente attraverso la forza dei dialoghi le reazioni di eminenti politici, prefetti e capi mafiosi. La commistione mafia-politica è un’altra colonna portante del romanzo. D’altronde Sciascia ha scritto Il giorno della civetta nell’estate 1960, quando il Governo negava ancora il fenomeno delle mafie. Sciascia ripropone, infatti, in versione letteraria, la risposta sconcertante data dallo stesso esecutivo in una seduta della Camera dei Deputati circa un’interrogazione sull’ordine pubblico in Sicilia, il che appare incredibile considerando che appena tre anni dopo entrò in funzione una commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. I tre interrogati da capitan Bellodi sono Diego Marchica (detto Zicchinetta), Rosario Pizzuco e don Mariano Arena. Interessante seguire durante gli interrogatori le emozioni provate da ciascuno degli accusati e soprattutto spicca la descrizione della suddivisione dell’umanità secondo don Mariano. Per lui ci sono gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i cornuti e i quaquaraquà. Quello descritto, comunque, è un mondo ricoperto da una spessa patina di omertà e l’omertà avvolge tutti, dai civili spaventati ai diversi personaggi loschi implicati nella vicenda. Concludo ribadendo l’estrema contemporaneità de Il giorno della civetta. Non sembrano passati sessant’anni, ma sembra scritto per descrivere il mondo d’oggi. In tal senso chiudo con la citazione di un pensiero del capitano, un pensiero che è profondamente legato all’Italia del 2021: «Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e piccole aziende, revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inqueti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così ad uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi… In ogni altro paese del mondo, una evasione fiscale come quella che sto constatando sarebbe duramente punita: qui don Mariano se ne ride, sa che non gli ci vorrà molto ad imbrogliare le carte».

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    27 Dicembre, 2020
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"Mi ci romperò la testa"

“Da questo libro sono nate tutte le antimafie”. Così inizia la prefazione del romanzo, a cura del giornalista e autore Francesco Merlo. Perché “Il giorno della civetta”, scritto nell’estate del 1960 e pubblicato nel 1961, è stato concepito in un periodo storico nel quale il governo non solo si disinteressava al fenomeno della mafia, ma addirittura lo negava esplicitamente. Una cecità destinata a durare poco, considerata la commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia del 1963. A tal proposito Merlo, rimarcando la connotazione innovatrice dell’opera, immagina un emozionante trait d’union tra il capitano Bellodi, protagonista della vicenda, e personaggi come Carlo Alberto dalla Chiesa e Giovanni Falcone, che nei decenni successivi moriranno per mano di Cosa Nostra. “Bellodi dunque non è, come spesso si dice in letteratura, un personaggio realmente esistito, ma è una folla di personaggi che realmente esisteranno, non è ispirato ma ispiratore, è tutti gli eroi antimafia che l’Italia ha conosciuto, come Renzo è tutti i promessi sposi, Ulisse è tutti i vagabondi, Pinocchio è tutti i bambini del mondo”.

Piazza Garibaldi. Sei e mezzo del mattino. Salvatore Colasberna, proprietario insieme a due suoi fratelli di una piccola cooperativa edilizia, viene ucciso mentre sta per salire sul primo autobus per Palermo. L’assassino ha sparato dall’angolo tra la piazza e via Cavour. Scappa nella medesima via, nella quale abita un uomo che puntualmente risulta scomparso. Forse un testimone? Intanto, nel paese, regna un silenzio omertoso. Al venditore di panelle è parso di notare un “sacco di carbone” da cui sono partiti due lampi. Il bigliettaio non ha visto niente. I passeggeri neanche, a causa dei vetri appannati. “Facce di ciechi, senza sguardo”. “Facce dissepolte da un silenzio di secoli”. Il capitano Bellodi indaga. È emiliano, originario di Parma. Si trova in Sicilia da qualche mese e non ha impiegato troppo tempo a farsi conoscere, affermando cose da far rizzare i capelli. “Ha detto che la mafia esiste, che è una potente organizzazione, che controlla tutto”. E infatti pensa che Colasberna sia stato ucciso per aver rifiutato un certo tipo di protezione. Da parte di chi? “Gente che non dorme mai”.

Bellodi, nonostante la brevità del romanzo, conquista un posto rilevante nella letteratura italiana del novecento. È un modello di gentilezza, umanità e perseveranza. L’autore ha modellato il personaggio sulla figura di un suo amico, ovvero il comandante dei carabinieri, ed in seguito generale, Renato Candida. Si erano conosciuti nel 1956. Sciascia lo considerava un fiero rappresentante di un mestiere amaro e difficile. “Il mestiere di servire la legge della Repubblica e di farla rispettare”.

In qualità di antagonista, con funzione di bilanciamento rispetto al capitano Bellodi, l’autore crea il personaggio di Don Mariano Arena, il boss locale. Uomo freddo e spietato, caratteristiche che gli hanno garantito il rispetto a la paura di cui è circondato. È una figura figlia del suo tempo, per certi versi appartenente ad una visione arcaica della mafia. A metà strada tra il criminale disprezzabile e l’”uomo d’onore” che sa riconoscere e rispettare gli sbirri autentici ed i veri uomini. Curiosamente, il personaggio di Arena ha suscitato forti critiche da parte di un amico di Sciascia, Camilleri, che ne rimproverava l’eccessiva centralità nel romanzo ed il rischio che il mafioso fosse nobilitato in virtù di alcune considerazioni che effettivamente simboleggiano alcuni tra i punti più iconici del testo. Come le affermazioni sugli sbirri, sui preti e sui cornuti.

“Non mettetevi in testa che gli sbirri siano tutti stupidi: ce ne sono che, ad uno come te, possono togliere le scarpe dai piedi, e tu cammini scalzo senza accorgertene”. “Non credere che uno è cornuto perché le corna gliele mettono in testa le donne, o si fa prete perché ad un certo punto gli viene la vocazione: ci si nasce. Ed uno non si fa sbirro perché ad un certo punto ha bisogno di buscare qualcosa, o perché legge un bando d’arruolamento: si fa sbirro perché sbirro era nato. Dico per quelli che sono sbirri sul serio: ce n’è, poveretti, che sono paste d’angelo; e questi io non li chiamo sbirri”.

O le sentenze, lucide e spietate, sul popolo, sulla criminalità organizzata e su una certa tipologia di politici. “Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall’antichità, una generazione appresso all’altra”. “Noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo”. “È vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare infilzati: ma anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno e chi lo porta in testa è un cornuto”.
Per non parlare della celebre distinzione tra uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà.

Ad ogni modo, Sciascia ha certamente inaugurato un nuovo tipo di scrittura impegnata, di letteratura civile, dopo gli anni incentrati sul tema del fascismo e della guerra. Ma è un cambio di registro gentile, rispettoso del passato recente. Una sorta di passaggio di consegne, tanto che Bellodi è un antifascista, un ex partigiano, segnando una continuità emotiva ed ideologica con i vari testi di Calvino, Cassola, Fenoglio, Pavese, Pratolini, Viganò, Vittorini.

Il nativo di Racalmuto, in provincia di Agrigento, è stato un precursore nel cogliere gli interessi criminali della mafia, legata a doppio filo con il potere e la corruzione. In appena 116 pagine, c’è tutto quanto l’autore aveva appreso del “sentire” mafioso: il silenzio omertoso, la distanza tra i cittadini e lo Stato, la complicità tra mafiosi e politici, il controllo malavitoso degli appalti, il metaforico espandersi al nord del paese della “nordafricana palma”, l’utilizzo degli strumenti fiscali per contrastare la criminalità organizzata.

Il tutto condensato da un linguaggio raffinato, ricercato, vibrante, da cui trasuda l’amore per la propria splendida terra e la profonda conoscenza di tutte le sue contraddizioni.
“Il giorno della civetta” è un romanzo audace, intelligente. E tristemente profetico. Uno dei tanti titoli imperdibili del novecento italiano.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    05 Ottobre, 2020
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Sicilia: un amore che fa male

“Il giorno della civetta” è probabilmente il libro più conosciuto di Leonardo Sciascia, e devo ammettere che è effettivamente degno della sua fama. Per cominciare, conferma quanto di buono avevo apprezzato nello stile dell’autore: è capace, infatti, di condensare un'enorme quantità di cose in pochissime pagine, lasciando la sensazione d’aver letto un libro molto più lungo in un tempo decisamente più ristretto. Quando, nella nota conclusiva scritta dall’autore stesso, ho letto che “non ha avuto tempo” di rendere questo racconto più corto di quel che è, m'è venuto prima da ridere, poi da pensare: cosa sarebbe stato capace di fare, Sciascia, se quel tempo lo avesse avuto? Un esempio spaventoso della sua bravura in questo senso è proprio nella presentazione del suo protagonista, il capitano Bellodi: un breve paragrafo e il personaggio prende vita, e lo comprendiamo come conoscendolo da anni. Davvero notevole.
Ma passiamo a quelli che sono gli argomenti trattati dal romanzo. Il più ovvio è la mafia, rappresentata in quel periodo storico in cui era un mostro leggendario la cui esistenza era negata persino dal governo, proprio perché alcuni dei suoi più grandi esponenti erano coinvolti nei suoi affari. “La mafia non esiste" era il mantra di quei giorni, ripetuto fino allo sfinimento, eppure i segni dell'esistenza di quell'orrenda realtà non erano neanche troppo celati. Vuoi per paura, vuoi per convenienza, l'evidenza era sempre e comunque negata, anche di fronte alle prove. E proprio di questo parla "Il giorno della civetta", che inizia la sua narrazione con l'omicidio di un imprenditore edile, tale Colasberna, freddato mentre sale sull'autobus per Palermo, di fronte a decine e decine di testimoni che, tuttavia, sembrano non aver visto un bel niente, come se il proiettile fosse sbucato dal nulla. Immediatamente, dunque, veniamo catapultati nel contesto di terrore che è terreno fertile per l'omertà. Il nostro capitano Bellodi, "polentone” tutto d'un pezzo, seguirà la vicenda con l'abnegazione propria di un uomo che mette il dovere e la legge sopra ogni altra cosa, fregandosene dei rischi e di “come vanno certe cose". Non conosce ancora quello che era il contesto siciliano d'allora: tutto e tutti sembrano remargli contro, ma nonostante questo e grazie alla sua bravura e determinazione, sembrerà sbrogliare la matassa del delitto; sembrerà in procinto d'aprire quel vaso di Pandora che nessun altro vorrebbe aprire; sembrerà che la storia si avvii verso una felice conclusione, verso il trionfo della giustizia. Ma Leonardo Sciascia, oltre a dover mantenere fedeltà al suo proposito di denuncia, non è uomo da barattare una realtà scomoda ma vera con una felice ma illusoria.
Un racconto breve ma densissimo, costellato da brani di rara bellezza che inducono alla riflessione. Nonostante gli evidenti problemi che l'autore denuncia e l'amarezza che questi comportano, traspare comunque l'amore di un uomo per la sua terra, come quello d'un padre verso un figlio ribelle che non impara dai suoi errori, e forse non lo farà mai.

“«Io» proseguì poi don Mariano «ho una certa praticità del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…»”

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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    01 Febbraio, 2020
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Non proprio un giallo

Questo racconto sembra un giallo, ma è molto di più; trae spunto da un fatto di cronaca e ci offre uno spaccato di una terra che è veramente meravigliosa, la Sicilia. Una regione misteriosa, implacabile, vendicativa, bellissima. Per capire pienamente il coraggio dell’autore nel presentare i fatti esposti, è importante tenere conto dell’epoca in cui il racconto è stato scritto. E’ un’opera che, forse per la prima volta, a livello letterario, costituisce una denuncia diretta del fenomeno mafioso e di tante delle sue dinamiche intrinseche. Un testo quindi ad alto valore storico. E’ altrettanto importante però tenere conto che la Sicilia non è solo questione di cosche, che ho scoperto essere anche le fitte corone di foglie del carciofo, e di ingiurie, che è sinonimo di soprannomi, che esprimono in una sola parola il carattere delle persone. E’ terra di sole, di vita, di gioia, di difficoltà, di povertà, di rapporti, di legami e sì, anche di “famiglie”.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    28 Settembre, 2019
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«Nel fondo di un pozzo»

Quando Leonardo Sciascia scrive "Il giorno della civetta", nel 1960, nella letteratura italiana manca ancora un’opera che racconti la mafia non in toni folkloristico-sentimentali o come un innocuo stile di vita sui generis (il così detto “sentire mafioso”), ma per quello che è, un’associazione a scopo delinquenziale, un sistema parassitario che poggia su interessi economici e rapporti politici e invece di svilupparsi nel vuoto e in assenza dello stato, come si potrebbe pensare, cresce al suo interno, fino a farlo marcire. A tale mancanza sopperisce il breve romanzo – o lungo racconto – che Sciascia intitola "Il giorno della civetta" in onore di una citazione shakespeariana tratta dall’Enrico V («come la civetta quando/Di giorno compare»), perché è esattamente ciò che accade al giovane capitano dei Carabinieri Bellodi, emiliano trapiantato in un paese della Sicilia, che si ritrova davanti all’alba, sotto forma di una sparatoria, ciò che dovrebbe vivere soltanto nell’ombra della notte, come la civetta, e che invece, grazie ai legami sempre più forti con il mondo della politica e del potere, sta venendo spavaldamente alla luce: la mafia.
In apparenza romanzo giallo, "Il giorno della civetta" è invece un’opera di denuncia diretta, cristallina e senza fronzoli, ispirata a un episodio realmente accaduto, di un fenomeno del quale all’epoca si negava addirittura l’esistenza, nonostante le numerose interrogazioni parlamentari sui «fatti di sangue» della Sicilia, tutte scivolate inesorabilmente nell’oblio, e i saggi e le inchieste scrupolosamente citate da Sciascia nell’Appendice del romanzo. È un muro di omertà, paura e connivenza che Bellodi si trova davanti nelle sue indagini sull’omicidio di uno dei soci di una cooperativa edilizia, Salvatore Colasberna, freddato da due colpi di lupara mentre sale su un autobus nella piazza del paese, davanti a decine di testimoni che rifiutano di testimoniare alcunché («Perché, hanno sparato?» domanda il “panellaro” che tutte le mattine vende la sua merce ai passeggeri dell’autobus). Le parole che raccoglie compongono «un discorso che dice e non dice, allusivo, indecifrabile come il rovescio di un ricamo: un groviglio di fili e di nodi, e dall’altra parte si vedono le figure». Nella limpidezza assoluta, cristallina dello stile di Sciascia, simile alla voce della ragione che tenta di mettere ordine nel caos di sangue, menzogne e violenza della realtà, si disegnano immagini dalla forza eccezionale: le “confidenze” di un delatore, «un filo da tirare che, a saper fare, avrebbe potuto smagliare tutto un tessuto di amicizie e di interessi», oppure una confessione pericolosa, il cui autore è stato afferrato dai Carabinieri «così saldamente che è come uno di quegli anelli murati nelle case di campagna per attaccarci i muli», e ancora gli «sbirri» che «tessono vento» con le loro indagini destinate a dissolversi nel nulla davanti alla potenza del sistema mafioso.
Nonostante l’impeccabile ricostruzione dei fatti da parte di Bellodi, che lotta senza retorica nel nome della giustizia e della libertà, il caso Colasberna arriva a un passo dal processo per poi dissolversi nel vento, proprio come era stato profetizzato, nel caos di una seduta parlamentare che, a chiusura del romanzo, ribadisce sdegnosamente che «la cosiddetta mafia» non esiste nemmeno, «se non nella fantasia dei socialcomunisti».
«La verità è nel fondo di un pozzo», dice don Mariano Arena, il capo mafia locale che Bellodi non riuscirà a incastrare per un soffio, salvato da una rete di legami con il potere così stretta da stritolare la verità. «Lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità». Bellodi è sceso nel fondo del pozzo e ha trovato la verità e anche se si è dissolta nel vento, sa già che da quel pozzo non potrà più uscire e che continuerà a provare fino a quando, un giorno, la verità sarà abbastanza grande e forte per liberarsi dalla rete.
«… sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato.
“Mi ci romperò la testa” disse a voce alta».

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leogaro Opinione inserita da leogaro    22 Marzo, 2019
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Quasi un'inchiesta sulla mafia

Il libro è ambientato in un imprecisato paesino siciliano, negli anni ’70 e prende spunto dall’omicidio di un sindacalista comunista, avvenuto nel 1947 a Sciacca.
Memorabile l’inizio: l’assassinio di Salvatore Colasberna, presidente dell’impresa edile “Santa Fara”, avviene in piazza in un’atmosfera surreale dove, all'arrivo dei Carabinieri, tutti si allontanano alla chetichella. Addirittura, il venditore di panelle, appostato alla partenza del bus, afferma di non aver udito alcuno sparo!

Le indagini vengono affidate al capitano Bellodi, ex partigiano mosso da alti ideali. Egli, seguendo alcune lettere anonime, convoca i fratelli dell’ucciso e sottopone loro delle ipotesi di movente. Scartati il delitto passionale e l’errore di persona, il capitano crede al movente economico e indaga sugli appalti: capisce dunque la matrice mafiosa del movente, suffragata dal fatto che la ditta Colasberna, una delle poche oneste della zona, abbia rifiutato più volte la protezione mafiosa subendone pesanti minacce.
Mentre a Roma qualcuno trama per trasferire Bellodi prima che scoperchi il vaso di Pandora, si indaga in varie direzioni. Alla scomparsa del potatore Nicolosi, basandosi su pochi e riottosi testimoni, Bellodi collega il sicario Marchica, pluriprocessato ma sempre scagionato per insufficienza di prove: nel suo dossier, Bellodi trova una fotografia che lo ritrae con l'onorevole Livigni. I delitti, intanto, diventano tre e sempre più persone attaccano il castello probatorio di Bellodi: troppi interessi vogliono smantellarlo, gli intrecci tra mafia e politica sono talmente forti che la questione giungerà perfino in Parlamento!

Libro gradevole, scritto con acutezza perché, seppur scherzando, dice una scomoda verità che davvero fu oggetto, all’epoca, di un’interrogazione parlamentare sulla mafia.
Memorabili alcune scene e molte frasi. Tra esse: “Il popolo cornuto era e cornuto resta … e chi se la spassa a passeggiare sulle corna? I preti e i politici, e tanto più dicono di essere col popolo e tanto più gli calcano i piedi sulle corna” e anche: “L’asino bisognava attaccarlo dove voleva il padrone…e pareva di stare attaccando l’asino in mezzo alle terraglie, e l’effetto della scalciata sarebbe stato da ricordarsene per sempre”. Infine, don Mariano dirà a Bellodi una frase storica: “Quella che diciamo l’umanità, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi…più giù, gli ominicchi che sono come i bambini che si credono grandi …E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… infine i quaquaraquà…ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre. Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.”
In 3 parole: ironico, coraggioso, piacevole.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    17 Novembre, 2018
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Che cos'è la mafia

Di questo breve romanzo di Leonardo Sciascia, pubblicato per la prima volta nel 1961, avevo sentito dire che spiegava che cos'è la mafia. Dopo una lettura che ha richiesto un certo grado di attenzione e lucidità non posso che confermare in pieno questa definizione: il testo di Sciascia ci fa un esempio di cosa possa essere la mafia, quella mafia che “non sorge e si sviluppa nel «vuoto» dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma «dentro» lo Stato.” Quella mafia che “altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende, ma soltanto sfrutta.” Sono parole dell'autore stesso, scritte nel 1972 in occasione dell'uscita del romanzo nella collana «Letture per la scuola media» Einaudi.
Una definizione che ci fa comprendere quanto la mafia sia purtroppo una realtà ancora ben presente in Italia, ormai fenomeno non più soltanto siciliano ma che si è andato diffondendo in ogni parte della penisola.
Salvatore Colasberna è un piccolo imprenditore edile di un paesino siciliano che non viene nominato, se non nell'iniziale. Un mattino presto, mentre sta per salire sull'autobus che lo avrebbe portato a Palermo, viene ucciso. Il suo assassino gli spara indisturbato da un angolo della piazza e nessuno vede niente: né i passeggeri sull'autobus, né il bigliettaio, né l'autista, né il venditore di panelle. Mentre gli abitanti del paese, la maggior parte dei carabinieri della Stazione di S., loschi personaggi di origine siciliana che si trovano a Roma e persino i fratelli del Colasberna assassinato vorrebbero ricondurre tutto ad un errore, o, ancor meglio, ad un delitto passionale, il capitano Bellodi, originario di Parma e con un passato da partigiano durante la Resistenza, capisce subito di cosa si tratta: mafia. Nello stesso giorno del delitto scompare anche un certo Nicolosi, di mestiere potatore, ben presto si capirà che anche lui è stato ucciso e che c'è un collegamento fra gli omicidi. Bellodi risolve brillantemente il caso ma si tratta di una verità che in pochissimi sono disposti ad accettare. In quegli anni si tendeva infatti anche a negare l'esistenza della criminalità organizzata e leggendo queste parole possiamo confortarci pensando che comunque un po' di strada da allora è stata fatta. Non possiamo dimenticare le persone che hanno dato la loro vita per combattere la mafia e che sicuramente ci hanno fatto progredire parecchio dal 1961, anno in cui Sciascia pubblicò “Il giorno della civetta”.
Questo romanzo rimane però di una sconcertante attualità, ci fa capire il complesso fenomeno delle organizzazioni criminali attraverso una storia emblematica, scritta con uno stile essenziale ed allo stesso tempo altissimo. Si tratta di una lettura che richiede impegno e concentrazione, non semplice malgrado l'esiguo numero di pagine, ma che ritengo utilissima e molto coinvolgente: un vero e proprio capolavoro della letteratura italiana.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    14 Giugno, 2017
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Silenzio in aula..

«La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità» p. 96

Terminato nel 1960 e pubblicato per la prima volta nel 1961 da Einaudi, “Il giorno della civetta”, nasce traendo spunto dall’omicidio, avvenuto in Sciacca nel gennaio del 1947 ad opera di Cosa Nostra, del sindacalista comunista Accursio Miraglia. Per la figura del Capitano Bellodi, protagonista dell’opera de qua, ispiratore fu, al contrario, il comandante dei carabinieri di Agrigento, Renato Candida, di cui, appunto, nel 1957, anno in cui Leonardo si avvicinò concretamente alla tematica della mafia, si occupò di recensirne il libro.
Primo scrittore a rivolgere la sua penna verso detta problematica, Sciascia si prefigge l’obiettivo di svelare al grande pubblico verità celate, custodite nei meandri più oscuri e profondi dell’essere, e vi riesce pienamente attraverso un elaborato vivo, civico, analitico.
Sicilia. Un modesto impresario edile viene brutalmente – e pubblicamente – assassinato. Tutti vedono, alcuno parla. Di quel che è accaduto, non conoscono alcunché. Omertà, protezione, silenzi, interessi discordanti e primari, regnano sovrani in questa terra di sole ma anche di violenza e crudeltà, in questa terra dove la legge del più forte prevale su tutto il resto.

«[..]E pure era la legge, quanto la morte paurosa; non, per il confidente, la legge che nasce dalla ragione ed è ragione, ma la legge di un uomo, che nasce dai pensieri e dagli umori di quest’uomo, dal graffio che si può fare sbarbandosi o dal buon caffè che ha bevuto, l’assoluta irrazionalità della legge, ad ogni momento creata da colui che comanda, dalla guardia municipale o dal maresciallo, dal questore o dal giudice; da chi ha la forza, insomma. Che la legge fosse immutabilmente scritta ed uguale per tutti, il confidente non aveva mai creduto, né poteva: tra i ricchi e i poveri, tra i sapienti e gli ignoranti, c’erano gli uomini della legge; e potevano, questi uomini, allungare da una parte sola il braccio dell’arbitrio, l’altra parte dovevano proteggere e difendere. Un filo spinato, un muro.» p. 27

Perché la criminalità è la perfetta antitesi dello Stato, il garante autentico della pace sociale, della sopravvivenza. Il fatto che sia governata da un codice cavalleresco rovesciato, il fatto che il sopruso sia lecito, il fatto che l’onore venga prima di tutto, il fatto che il denaro e gli interessi privati giustifichino morti, percosse e chi più ne ha più ne metta, sono quisquiglie, la regola, l’ordine del giorno. In questo scenario si inserisce la figura del capitano Bellodi che nella sua semplicità e nel suo animo romantico di ricerca del giusto e del vero, sarà vittima prima dei giochi di potere del lato oscuro. Basterà un brevissimo tempo, per rendere vana un’intera indagine, per smontarla completamente.
Un romanzo breve, quello proposto dal narratore, che non lascia spazio alle ambientazioni, agli scorci, alle tradizioni del luogo, poiché interamente concentrata su quella che è la realtà sociale.
Nell’epilogo la voglia di tornare in quella Sicilia solo apparentemente perduta, in quel luogo ove i molti hanno perso la vita per conquistare la libertà, per affermare la giustizia. Perché la voglia di non arrendersi c’è, di non darsi per vinti è forte ed inesorabile.
Vi lascio con le parole dello stesso Scia Scia:

«Ma la mafia era, ed è, altra cosa: un “sistema” che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel “vuoto” dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma “dentro” lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta. Il giorno della civetta, in effetti, non è che un “per esempio” di questa definizione. Cioè: l’ho scritto, allora, con questa intenzione. Ma forse è anche un buon racconto.» p. 117

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CortaZur Opinione inserita da CortaZur    07 Novembre, 2016
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La definizione di MAFIA

Il giorno della civetta - L. Sciascia


Con grandi aspettative ho deciso di leggere questo racconto, un modo di colmare una delle mie tante lacune in materia di classici da “impossibile non aver letto”. Tali aspettative si sono rivelate ben riposte e totalmente soddisfatte.
Leonardo Sciascia l’ho sentito nominare molto spesso in relazione a questo romanzo e ora capisco il motivo, l’aver denunciato e descritto con chiarezza, in anticipo rispetto ai suoi contemporanei l’esistenza di un’associazione a delinquere che qualche anno dopo sarebbe stata riconosciuta con il suo nome proprio: Mafia.


Del libro in questione sono stati scritti saggi e fior fior di articoli, ne hanno parlato tutti ma sono sicuro che lo hanno letto in meno. Un libro che come spesso si dice, ma che in questo caso è doveroso, sarebbe da insegnare a scuola e forse in alcune già lo si insegna, almeno lo spero.
La storia è quella di un poliziesco lineare ben architettato ma senza grandi colpi di scena o chissà quali effetti sorpresa; quello che davvero è superlativo in questo racconto è lo stile e la lucidità del testo, la bellezza della lingua italiana, la perfezione di pensieri che letti al giorno d’oggi sono delle parole scolpite su pietra, su tutte un esempio:

Oppure ancora una ode alla sua Sicilia:
E ancora le considerazioni sulla famiglia intesa dai siciliani, sullo Stato inteso dai siciliani e su come politica, chiesa e criminalità fossero un unico grande pezzo di cultura criminale Italiana che in seguito grazie al lavoro di tanti eroi dello Stato, abbiamo avuto la possibilità di conoscere.


Lo stesso Sciascia in una nota a chiudere definisce la mafia come una borghesia parassitaria che non produce ma che solo sfrutta e Il giorno della civetta ne è un esempio di questa definizione, e continuando dice: ma forse è anche un buon racconto. Non mi resta che dire questo è un meraviglioso racconto.

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lapis Opinione inserita da lapis    29 Marzo, 2016
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Mi ci romperò la testa

La cronaca quotidiana ci ha ormai abituato a storie di pentiti, corruzione e connivenza tra potere politico, economico e mafioso, ma leggendo queste pagine non si può fare a meno di pensare, con ammirazione, che prima di Sciascia nessuno aveva mai messo in prosa la mafia, svelando al pubblico una pesante verità di cui gli organi di governo e di informazione non solo si disinteressavano ma che esplicitamente negavano. Questa scelta dona al racconto il sapore dell'impegno civile e morale, rivelandone il profondo spessore analitico.

L’indagine sull’omicidio di un modesto impresario edile è solo l’occasione per mettere in scena una Sicilia oscura e implacabile, una Sicilia di violenze coperte da coltri di omertà, di protezioni politiche che ordiscono le proprie trame di depistaggi e insabbiamenti, di appalti truccati e interessi economici. Perché, a osservare bene, questa mafia che si propone, in antitesi allo stato, come garante della pace sociale, col suo codice cavalleresco capovolto in cui onore fa rima con sopruso, non è altro che una “borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta”. E’ la legge del denaro che, oggi come ieri, è destinata a sconfiggere il romantico senso di giustizia rappresentato dal capitano Bellodi, simbolo di un'integrità morale dal fascino quasi poetico.

Rispetto all’altro grande capolavoro sciasciano “A ciascuno il suo”, in questo romanzo breve c’è meno spazio per le atmosfere polverose e gli scorci di vita mediterranea, probabilmente per via dell’estrema operazione di limatura effettuata dall’autore, un lavoro di alleggerimento che ci restituisce pagine dal ritmo incalzante, composte dall’alternarsi di brevi sequenze narrative e da una scrittura essenziale, efficace e ricercata.

Ma è il finale la pagina a mio avviso più preziosa. Nonostante l’amara sconfitta, Bellodi capisce che in fondo non può far altro che amare la Sicilia, farvi ritorno e “romperci la testa”. Ci sono ancora veri uomini che dedicano la vita alla difesa degli ideali di libertà e giustizia, anche quando le prospettive di successo sono minime e le mosse sono pericolose. Il pensiero va ai veri uomini che nella lotta alla mafia la vita l’hanno perduta davvero e le parole di Sciascia appaiono quasi profetiche.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    22 Dicembre, 2015
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Un giallo, ma non proprio

Definire "Il giorno della civetta" un giallo è riduttivo.
Quindi, si, ha la parvenza di un giallo, ma in realtà la verità viene presto a galla. Non c'è mistero, non c'è suspence, l'assassino e i mandanti tutti sanno chi sono, ci sono prove, testimoni e testimonianze.
E' la storia di un delitto, anzi due, a dire il vero, tre.
Tutto è in mano al capitano Bellodi, che non è siciliano, e che forse non conosce bene ancora l'isola.
Bellodi è solerte, semplice, lineare, logico. "è un uomo" dice Don Mariano.
"...ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi i(con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà..."
E gli uomini, quelli che hanno rispetto, sono pochi. Ma Bellodi è uno di loro.
Ha rispetto per tutti, ma cerca la verità. E scavando la trova, facilmente, e non solo perchè è astuto e intelligente, ma anche perchè la verità è evidente, è sotto gli occhi di tutti.
Solo che non tutti la vogliono vedere.
E quindi Il giorno della civetta, non è un giallo, ma uno spaccato, onesto e leale, per un siciliano come Sciascia, di una Sicilia corrotta dalla mafia fino ai più alti poteri. Poteri invalicabili,che "un uomo" come Bellodi non può contrastare.
E quindi la verità è presto svelata, ma il delitto non ha giustizia.
E' una verità irrisolta, e mentro lo scrivo mi accorgo che è un ossimoro...come la Sicilia di Sciascia d'altronde!
Splendido libro, che ci mette di fronte a una realtà, contro la quale siamo impotenti e come impotenti restiamo a guardare.

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Cristina72 Opinione inserita da Cristina72    04 Settembre, 2015
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Sbirro sì, ma "uomo"

L'attualità di questo breve romanzo, evidenziata da tutti quelli che lo hanno letto, è innegabile, e notevole è la struttura narrativa, caratterizzata da uno stile asciutto e ironico.
Sembra quasi un poliziesco, con il morto ammazzato e il carabiniere che dà la caccia al colpevole, mentre la scia di sangue si allunga ad indicare una precisa direzione...o forse due.
Storia di mafia o di corna? La verità è lampante dalla prima all'ultima pagina, ma pochi sembrano disposti a non fare gli gnorri e a guardarla in faccia.
Attuale è l'argomento della trattativa Stato-Mafia e addirittura profetico il passaggio inerente alla “linea della palma” che avanza di anno in anno da Sud a Nord, rendendo propizio il clima per il proliferare dell'organizzazione criminale di origine sicula:
“E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma …”.
E' ormai un cult della letteratura il faccia a faccia tra il capitano Bellodi, che dirige le indagini (sbirro sì, ma “uomo”), e il capomafia locale, don Mariano Arena, che fa sfoggio della sue argute opinioni sull'umanità intera:
“... se lei mi domanda, a passatempo, per discorrere di cose della vita, se è giusto togliere la vita a un uomo, io dico: prima bisogna vedere se è un uomo...”.
Intrigante il linguaggio ambiguo che lascia intendere tutto senza dire niente: i favori agli amici, le protezioni, le proposte che non si possono rifiutare senza incorrere nel rischio di deludere gli amici e morire...nel loro cuore, ovviamente.
Lo scrittore traccia un ritratto a tinte più accattivanti che fosche dell'“uomo d'onore”: spietato ma saggio, e giusto, a modo suo. Dell'esistenza della mafia, anche se già attiva e potente, una cinquantina di anni fa era del resto ufficialmente lecito dubitare: dovevano ancora arrivare gli anni del “teorema della cupola” e del maxiprocesso e tutto era più che mai sfumato, affidato ai “si dice” e al fiuto degli investigatori più volenterosi.
Eppure a fine lettura ci si chiede quanti passi in avanti siano stati effettivamente compiuti in mezzo secolo di lotta alla mafia, con l'amara sensazione che perdere a testa alta, alla maniera del capitano Bellodi, sia tuttora il massimo risultato ottenibile.

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    06 Agosto, 2015
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Bellodi e lo stato

Una mentalità, una filosofia di vita, un modo di essere e perché no una sorta di cultura. La mafia è talmente radicata e difficile da estirpare da essere una sorta di epidemia che si modifica negli anni.
Il romanzo-racconto di Sciascia, scritto nel ’61, è audace e soprattutto delizioso, la scrittura di questo eccezionale scrittore è come sempre ricercata, studiata, pregevole, lontano dal comune, originale. Un racconto di poco più di cento pagine che racconta le vicende di un paesino siciliano appena dopo l’era fascista, due omicidi e un’indagine ben condotta, ma…
Lo stato, allora come oggi, all'oscuro di tutto, disinteressato, sapientemente ignorante di certe situazioni che in realtà conosce benissimo e nella quale è completamente immerso, se non addirittura il regista occulto.
Una bella storia, bella per come è scritta, bella per quello che vuole denunciare, bella perché mi ha fatto capire ancora una volta, che tutto cambia perché tutto resti uguale a se stesso. Ma come sempre dal fango emergono di tanto in tanto bellissimi fiori di loto, figure come il Bellodi, che per amor di giustizia si spingono oltre e si comportano da veri uomini.
Forte atto di denuncia dell’intesa tra stato e mafia, questo racconto è di un’attualità sconcertante. Fantastico il finale del romanzo e soprattutto la nota finale dell’autore, nella quale Sciascia ci rende noto il lungo lavoro di sfoltimento effettuato su questo romanzo e durato quasi un anno. Con sapiente intelligenza ci fa passare questi tagli come funzionali alla ritmica del racconto, ma è evidente inoltre una sorta di censura più o meno imposta.
Ma tant'è, tagli o non tagli si tratta di un libro da leggere assolutamente.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    24 Febbraio, 2015
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Un muro invalicabile

Nell'Italia del secondo dopoguerra si sentono ancora forti gli strascichi del regime fascista e della resistenza. Non fa eccezione la Sicilia dove, da un lato, il ricordo del prefetto Mori è ancora vivo e divide gli animi, mentre dall'altro chiunque si dissoci dai vecchi costumi e si opponga a leggi non scritte che sanciscono la superiorità di alcuni eminenti isolani a danno delle persone comuni viene definito, con accezione negativa, comunista. Non fa eccezione il capitano Bellodi, parmigiano ed ex partigiano comandante la stazione dei carabinieri di S., non meglio identificato comune siciliano. Per i suoi trascorsi, per la sua esplicita simpatia politica, anche per il solo fatto di essere "continentale" non viene visto di buon occhio dalla gente e la sua vita e il suo onesto operato non hanno perciò vita facile. La situazione per lui si complicherà ulteriormente con il caso Colasberna, imprenditore edile freddato da due colpi di lupara mentre stava per salire su un autobus. Bellodi non ha il minimo dubbio sul movente mafioso di questo omicidio e degli altri due assassinii che lo seguono. Depistaggi ed omertà complicano notevolmente le indagini dei carabinieri ed anche se con abilità ed intelligenza il capitano scoprirà la verità, dovrà fermarsi davanti ad un muro invalicabile: quello delle connivenze tra Stato e mafia. Sagace e lungimirante, Sciascia pennella in poche pagine un ritratto chiaro e veritiero della mafia, dei suoi interessi, delle sue ramificazioni, della struttura e del modus operandi. La caratterizzazione dei personaggi, lo stile fluido, l'uso di termini dialettali e i dialoghi brillanti rendono il racconto realistico, scorrevole, incalzante, affiancando una notevole qualità letteraria all’importanza lampante dei contenuti. Il grande merito dell'autore sta nel fatto di aver deciso di parlare di questo fenomeno e di averlo fatto in modo spavaldo e veritiero in un periodo storico in cui l'argomento era una sorta di tabù, con i più che ne negavano l'esistenza, con interrogazioni parlamentari eluse, con un'omertà consolidata impossibile da scalfire. Sciascia invece la mette a nudo, ne sviscera i segreti, arriva perfino a smascherare i legami con i piani alti dell'imprenditoria e della politica. Si permette inoltre di suggerire alcuni modi per combatterla. A distanza di decenni e dopo svariati colpi di lupara, bombe, arresti e segreti mai rivelati, le parole dello scrittore siciliano hanno sempre più il sapore dell'attualità e rappresentano un monito continuo ma troppo spesso ignorato, mentre la mafia continua ad insinuare i propri tentacoli e a rivelarsi come "un sistema che contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel vuoto dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma dentro lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta."

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siti Opinione inserita da siti    18 Gennaio, 2015
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Italia - Sicilia: una terra da amare

Il romanzo breve, ultimato nell'estate del 1960, è la narrazione di un fatto di cronaca cui segue un'indagine.
La particolarità risiede nel fatto che quella cronaca, al momento della pubblicazione, assurgeva, sola o quasi, a verità storica; nella realtà veniva declassata a fatto "passionale". Il fatto narrato è invece il paradigma su cui su declina il SISTEMA MAFIA per rendere inconfutabile una sola verità: IL COLPEVOLE. Sciascia condanna "la borghesia parassitaria", quel ceto sociale intoccabile, dentro lo Stato, che tutto sfrutta.
Condensa in un numero modesto di pagine indimenticabili, la storia della mafia, la storia dell'Italia dall'Unità ai governi giolittiani fino al secondo dopoguerra evidenziandone i protagonisti siciliani.
Sfrutta abilmente il linguaggio cinematografico per creare un codice linguistico espressivo e originale riescendo così a imprimere nella memoria del lettore fatti, atteggiamenti, mentalità, sensazioni. Esemplari in questo senso le pagine dell'incipit in cui si narra staticamente il fuggi-fuggi dell'omertà e le altrettanto belle pagine che descrivono la paura dell'informatore.
Apparentemente una lettura semplice, necessita invece di un alto grado di attenzione anche per certe discontinuità nella prosa, create ad arte, nell'alternarsi di sequenze narrative chiare e circostanziabili con altre più fumose, anonime, indeterminate che nella loro caratteristica hanno il forte potere di alludere all'essenza stessa di ciò di cui si è finora parlato.

Al problema, Sciascia, trovato il colpevole, dà pure una soluzione, semplice e purtroppo ancora inattuata. Lo fa tramite i pensieri del capitano Bellodi che si perde, mentre interroga un intoccabile, a ipotizzare una seria lotta all'evasione fiscale. In un crescendo tutto riservato al finale, lascia ancora stupiti, per l'attualità, l'inefficacia delle interrogazioni parlamentari mentre la scena lentamente sfuma in un epilogo rasserenante e di speranza regalandoci un dolce omaggio alla Sicilia e con essa all'Italia intera.

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Giovannino Opinione inserita da Giovannino    04 Novembre, 2014
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Il capitano Bellodi e la mafia.

Solitamente dopo aver letto un libro corposo e impegnativo, ne prendo sempre uno un pò più leggero, un pò per staccare dai "mattoni" di 800 pagine, e un pò per poterlo leggere magari più agevolmente anche per strada senza il rischio di perdere il filo. Stavolta mentre cercavo un libricino piccolo da mettere in tasca trovo tra le offerte della libreria "Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia, da cui è stato anche tratto l'omonimo film di Damiani. Era un libro che avevo già letto al liceo, ma onestamente, come spesso mi è capitato con i libri letti a scuola, ne ricordavo vagamente il contenuto e ancora meno lo stile. Decido così di comprarlo e vedere se a distanza di anni sarei riuscito a trovare nuove chiavi di lettura di quella che senza dubbio è l'opera più famosa di Sciascia. E così infatti è stato, quello che al liceo mi ricordavo come un semplice poliziesco, diventa un delicato, semplice ed efficace ritratto sulla mafia. Siamo nel 1960 e alle sei di mattina in un paesino siciliano (che nel corso del romanzo non verremo mai a sapere qual è) viene commesso un omicidio. All'arrivo della polizia, la piazza, che fino a 10 minuti prima era piena di gente in fila per prendere la corriera, improvvisamente si svuota, e i pochi che restano non ricordano nulla dell'accaduto. Il capitano Bellodi però, determinato e intelligente poliziotto, decide di indagare sulla questione. Tramite le indagini, che porteranno ad un secondo omicidio, il capitano riesce ad incastrare tre personaggi, di tre ceti sociali differenti, e anche di rango mafioso diverso, dal faccendiere/killer, al capo cosca, al boss mafioso del paese. Il capitano determinato si scontra spesso con l'omertà dei compaesani, vicini ai mafiosi ma ostili alla polizia, e alla fine riesce ad arrivare ad un passo dall'arresto dei tre sospetti, ma qualcosa di più grande lo blocca: lo Stato. Un romanzo scritto in maniera semplice e lineare, anche i dialoghi sono composti quasi sempre da brevi battute e il dialetto siciliano spiegato accuratamente, nella semplicità della scrittura troviamo però un profondo significato: la mafia non va a colpire il vuoto dello Stato (cioè dove lo Stato è più debole), la mafia convive con lo Stato e ne succhia l'anima. Emblematica è la storia che alla fine racconta il capitano Bellodi, quando un medico che cercava di impartire ordini ai detenuti mafiosi di un carcere siciliani viene prima picchiato e poi allontanato dal carcere. Fa ricorso, ma viene respinto, chiede giustizia ma gli viene negata, chiede di indagare a politici ai quali era vicino e questi gli dicono che meglio lasciare stare, e, alla fine, chiede ad un boss mafioso di far picchiare uno di questi detenuti che lo aveva fatto carcerare, è così avviene. In sostanza nessuno può niente contro la mafia, nemmeno lo Stato (che invece spesso ci è colluso), solo la mafia può qualcosa contro la mafia. Un romanzo di 50 anni fa ma ancora attualissimo.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    23 Febbraio, 2014
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Dalla Sicilia all'Italia

Leggere Sciascia è restare impressionati dalla sua capacità “profetica”.
Il “giorno della civetta” – volendo riassumerlo all'osso – è la storia di un confronto (all'epoca) impari: da un lato lo Stato, impersonato dal capitano Bellodi, dall'altra l'antistato, nelle sembianze del navigato capomafia Mariano Arena. Ciò fin dalla scena iniziale, quando il costruttore Colasberna viene “fulminato” da un colpo di pistola nella piazza del paesino (in una scena che ha il sapore del ralenty cinematografico): il capitano dei Carabinieri è convinto da subito che il delitto abbia connotazione mafiosa; i criminali, al contrario, si concentrano sulla necessità di farlo apparire tutto fuorché un delitto di mafia.
Le conclusioni del libro sono queste: la mafia esiste, nonostante il tentativo di una parte del paese di asserire l'esatto contrario; rappresentanti di una tale idea sono inseriti persino nelle massime istituzioni italiane, e da lì tentano di disinnescare la lotta alla criminalità organizzata, con la quale mantengono uno stretto rapporto, quando non vi si identificano.
Oggi queste conclusioni ci appaiono scontate, se non superate.
Ma il libro è del 1960, quando la mafia era ritenuta pura invenzione di menti poco lucide, chissà per quale fine secondario! Ci sono voluti più di venticinque anni da allora, la fermezza e le capacità professionali di Falcone e Borsellino, le rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta, per mettere un punto fermo a quello che allora risultava praticamente indimostrato.

Leggere Sciascia è lasciarsi portare dalla sua stupefacente costruzione dei personaggi.
Lo scrittore siciliano edifica la sua opera più nota opponendo, alla impermeabile e “composta” omertà mafiosa, la figura del biondo capitano parmense Bellodi, con la sua tranquilla e sistematica capacità di smontare le doti dissimulatorie dei “picciotti” che gli si presentano davanti. E svela come un servitore dello Stato e un boss mafioso possano sottilmente battagliare con la sola arma del linguaggio (di altissimo livello il dialogo in caserma... tenendo presente che, come dice Sciascia, “Le parole non sono come i cani, che puoi fischiare e richiamarli”).
Mentre le trame occulte si giocano nelle figure dei due anonimi personaggi che compaiono “a intermittenza” nel corso del romanzo, quando si incontrano per le strade di Roma: da lì manifestano il fastidio per l'operato del capitano dei Carabinieri e adottano le “contromisure di Stato” per derubricare un delitto mafioso a questione di corna.

Leggere Sciascia è prendere coscienza di un modello di stile letterario.
Difficile pensare ad un altro scrittore le cui pagine siano tanto pregnanti a fronte di una scrittura così essenziale. Si leggono dalle cento alle centoventi pagine (a tanto assomma la mole dei singoli romanzi dello scrittore siciliano) con la sensazione, alla fine, di aver bisogno di riconsiderare tutto ciò che si è appena terminato. Ed è un effetto voluto il “costringere” a ripensare alle sfaccettature della vicenda, anche a quelle che potevano sembrare già “digerite” parecchie pagine prima.

Leggere Sciascia è leggere un autore che ha una certa familiarità con la parola “capolavoro”.

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Sydbar Opinione inserita da Sydbar    26 Gennaio, 2014
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Il giorno della civetta

Signore e signori esordirò con la quarta di copertina: "il primo e il più grande fra i romanzi che raccontano la mafia".
Un'opera che andrebbe letta sui banchi di scuola. Un ritratto nitido della Nostra Storia.
Sciascia è narratore ed poeta nella stesura di un pilastro della letteratura italiana.
Lettura scorrevole, avvincente e testo semplice che mai si aggroviglia.
Un contenuto che rappresenta la Sicilia e quindi l'Italia.
Un'opera mai banale, così essenziale ed al tempo stesso imprevedibile che spiazza.
Ecco alcune citazioni che non posso trascurare: "La famiglia è lo Stato del siciliano. Lo Stato, quello che per noi è lo Stato, è fuori: entità di fatto realizzata dalla forza...".
"La Sicilia...Donna anche lei: misteriosa, implacabile, vendicativa; e bellissima...".
Un libro che vi auguro di poter leggere ed apprezzare.
Encomiabile Leonardo Sciascia.
Buona lettura a tutti.
Syd

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aPaci Opinione inserita da aPaci    19 Gennaio, 2014
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Un’ottima lettura per chiunque voglia essere...

Il romanzo parla di un omicidio effettuato a Palermo, e delle vicende che porteranno il capitano Bellodi alla risoluzione del caso. Per la scrittura di questo libro Sciascia trae spunto dall’omicidio di Accursio Miraglia, un sindacalista comunista, assassinato dalla Mafia. La trama non è molto complessa ma è piacevole, oltretutto trovo che questo romanzo sia da valutare più per il contenuto che per la storia o lo stile.

I personaggi sono ben caratterizzati: il capitano, i marescialli, i mafiosi, i cittadini, tutti sono rappresentati molto bene. Soprattutto trovo che la figura del capitano Bellodi, protagonista del romanzo, sia la più profonda, e nelle sue riflessioni ci si può facilmente ritrovare. Mi ha colpito particolarmente la passione con cui il capitano Bellodi si impegna nella risoluzione del caso. Quando infine con pazienza e una gran furbizia riesce a ottenere la verità, per poi vedere vanificati i suoi sforzi, ci sono rimasto proprio male… povero capitano Bellodi, alla sua causa mi ero affezionato, tanto era contro corrente rispetto al maresciallo e agli altri carabinieri che in certe faccende preferivano non avventurarsi. Penso che sia stato proprio questo l’obbiettivo di Sciascia: suscitare lo sdegno nel lettore e spostare l’attenzione sul problema Mafia. Infatti è lo stesso autore a cercare di dare una soluzione: secondo lui, bisognerebbe colpire la criminalità organizzata dal punto di vista finanziario. Suggerisce pertanto di non concentrarsi sui delitti dei mafiosi, che verrebbero sempre coperti, quanto piuttosto sul denaro: un’organizzazione criminale senza fondi non ha nessun potere.

Lo stile è ben comprensibile. Il dialetto è facilmente comprensibile ma dona comunque un buon realismo all’opera. I dialoghi poi sono qualcosa di sublime. Il ritmo è piuttosto veloce, dato che tutta la storia si è svolta nell’arco di 137 pagine.

In definitiva un libro leggero, che potrete probabilmente leggere in una manciata di sessioni, che parla di Mafia, ambientato nella Sicilia degli anni 60. Un’ottima lettura, che consiglio a tutti, sia perché è un pezzo di storia, sia perché può contribuire a rendere più consapevoli dell’Italia in cui viviamo.

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casilda Opinione inserita da casilda    04 Agosto, 2013
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L'impegno civile dello scrittore

“Il giorno della civetta” è un breve romanzo giallo, di cui l’autore spiega l’origine e la ragione che lo ha condotto a trattare l’argomento.
Negli anni in cui compone il romanzo, la pubblicazione pone problemi come il pericolo di polemiche e della censura, cosicché l’autore, che si era ispirato a un episodio realmente accaduto, modifica l’opera fino alla fine per renderla ‘neutra’ ed evitare riferimenti diretti ed espliciti, conservando, però, il tema principale, molto attuale.

Protagonista è il capitano Bellodi che, durante l’indagine su un omicidio, si imbatte in altri crimini ed è costretto a constatare i legami tra criminalità e politica. Determinato a non arrendersi, lascia viva la speranza di un futuro in cui regni maggiore giustizia e vi siano più uomini decisi a lottare per essa.

La scrittura di Sciascia è molto scorrevole e piacevole, anche se impone al lettore molta attenzione.

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Lettura consigliata a chi ha letto Sciascia e a chi ha interesse ad approfondire temi storico-politici e antropologici.
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Nadiezda Opinione inserita da Nadiezda    25 Dicembre, 2012
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Un libro d’attualità

Anche se questo libro è stato scritto nel 1960 possiamo definirlo una lettura attuale, infatti il terrorismo continua a mietere vittime sia in Italia, sia nel resto del mondo

Passiamo alla trama del libro.

Il presidente di una piccola impresa edile viene assassinato mentre sale su un autobus che portava a Palermo. Mentre arrivano i carabinieri tutti i passeggeri si dileguano e rimangono solamente l’autista ed il controllore sulla scena del delitto.
Il caso viene affidato al capitano Bellodi, il quale conosce un doppiogiochista molto noto alla mafia che gli darà un aiuto su questo caso.
La vicenda farà scoprire una realtà intricata piena di favori elettorali, pizzi pagati per vincere gare d’appalto e diatribe politiche.

L’autore ci fa incantare di fronte alla sua bravura nello scrivere, una certezza che ci da dopo poche righe diventerà un nuovo grande dubbio.
Questo è il primo libro in cui noto questo legame stretto tra il personaggio e l’autore per la lotta contro la mafia.

Consiglio questo libro a tutti perché le tematiche che affronta (mafia e omertà) tuttora sono molto diffuse in Italia ed anche nel resto del mondo.
Inoltre questo testo ci fa capire che fin quando esisterà la corruzione esisterà anche la mafia.

Buona lettura!

“Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà…[…]”

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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    17 Settembre, 2012
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Per non dimenticare

Correva l'anno 1961 quando venne pubblicata per la prima volta quest'opera. Corre l'anno 2012 e quest'opera, ahinoi, risulta ancora estremamente attuale. Cosa è cambiato negli ultimi 51 anni ? Forse ancora troppo poco perchè nonostante la maggiore consapevolezza raggiunta, l'impegno sociale e la lotta contro tutte le mafie, molto rimane ancora da fare.

Rileggendo questo libro mi sono accorto di una sconcertante attualità di certi temi, come ad es. per quanto riguarda il rapporto Stato-mafia. Sono proprio i legami con la politica che hanno garantito nel corso degli anni la sopravvivenza della mafia e la possibilità della stessa di radicarsi nel territorio e prosperare. Cosa può fare dunque il Capitano Bellodi, solido uomo del nord, integerrimo e determinato a fare fino in fondo il proprio dovere, di fronte ad un sistema così diabolicamente colluso? Se il mandante dell'omicidio dell'imprenditore Salvatore Colasberna gode di una serie di protezioni e testimonianze che depongono a suo favore, se grazie alla rete di conoscenze dell'onorevole di turno che siede in Parlamento è garantita la sua innocenza, come è possibile allora fare trionfare la giustizia? La risposta è che purtroppo non è possibile ed il muro di fronte al quale si trova il capitano Bellodi diventa invalicabile ! L'unica magra consolazione è quella di venire considerato, suo malgrado, un vero uomo, un degno avversario e non un "quaquaraqua".

Il romanzo induce il lettore a riflettere ed è indubbiamente permeato da un forte alone di pessimismo e di sconfitta. Dietro ai vari personaggi ed alla storia raccontata è molto facile intravedere le realtà di ieri e di oggi. Nonostante tutto però rappresenta un contributo di denuncia che dovrebbe fornire gli stimoli necessari per reagire.

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Sciascia e tutti coloro che scrivono di criminalità organizzata
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Dilo Opinione inserita da Dilo    16 Luglio, 2011
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il giorno della civetta

Il libro parla di Sicilia e di mafia, c'è un omicidio e il commissario deve trovare il colpevole e fin qui potrebbe essere un libro come tanti altri, ma la differenza tra un libro e un altro è sicuramente il modo in cui è scritto e nello scrivere Sciascia è ovviamente un maestro. L'intreccio è ottimo e le parti descrittive sono il fiore all'occhiello di questo libro, si riesce a vedere la Sicilia di qualche anno fa. L'autore riesce a far sentire il lettore parte integrante del libro, uno spettatore che segue tutte le vicende che via via si vanno snodando, si riesce persino a sentire il sole che scotta la pelle. L'unico neo è che le città vengono identificate con una sola lettera, invece che con nomi veri e propri e questo spesso crea confusione

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darkala92 Opinione inserita da darkala92    27 Dicembre, 2010
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Memorie offuscate..

Ormai sono passati 4 anni da quando ho letto questo libro e devo essere sincera: non ricordo bene la trama, e forse farei meglio a rileggerlo, anche perchè un conto è leggere un libro con gli occhi di una 14enne e un conto è leggerlo da 18enne.

Ricordo però che era un libro molto strano, riguardo la mafia, e dove uccisioni e morti erano all'ordine del giorno. Il protagonista era un commissario di Palermo e aveva il compito di indagare su un omicidio organizzato presumibilmente dalla mafia. Le indagini accerteranno le ipotesi. Ricordo che però anche la trama non era così semplice come l'ho scritta, ma era molto intrecciata e confusa;
Credo proprio di doverlo rileggere!

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Ginseng666 Opinione inserita da Ginseng666    16 Marzo, 2010
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Risate a denti stretti...

Con stile stringato ed essenziale l'autore descrive tramite questo romanzo, uno spaccato dell'epoca, ma che risulta ancora attuale, perchè la Mafia è una piovra, un'organizzazione malavitosa che tuttora opera nel tessuto di una regione ferita come la Sicilia, ma non solo lì.
Ho apprezzato questa lettura anche per l'ironia intelligente dell'autore che in alcuni momenti è riuscito a farmi ridere per le descrizioni accurate che sono presenti nel libro.
Ma sono risate a denti stretti per la condizione dei personaggi, che sono vivi e perfettamente credibili, in quella situazione di terrore in cui sono calati.
Ad esempio l'uscita dei passeggeri del Pulman con "le facce dissepolte dal silenzio dei secoli" e ci rende una visione estremamente efficace dell'omertà di coloro che dovrebbero essere testimoni dell'omicidio avvenuto sotto i loro occhi.
Quando giungono i carabinieri i passeggeri sono già scesi tutti e anche il bigliettaio (presente) non si ricorda perchè lui è pagato per staccare i biglietti, l'autista non si ricorda (lui è pagato per guardare la strada)...
Allora il Maresciallo manda a chiamare il Panellaro che ogni mattina vende il pane davanti al Pulman, ma lui addirittura non
si è accorto dell'omicidio.
Insomma un capolavoro e una rovente denuncia alla Mafia.
Complimenti all'autore.
Saluti.
Ginseng666

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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    03 Aprile, 2009
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Viaggio all'interno di un inferno

Basterebbe già lo sfolgorante incipit con quella corriera che sta per partire nella piazza di un paese siciliano, che anzi si avvia fra sussulti vari e poi si ferma perché il bigliettaio si accorge che un ritardatario richiama l’attenzione correndo; ecco, si apre la porta del mezzo, l’uomo vestito di scuro si appresta a salire, ma due colpi squarciati lo fermano un istante a mezz’aria e infine lentamente, quasi al rallentatore, il corpo finisce per afflosciarsi.

Dico basterebbe, perché la scena è talmente viva che sembra di essere presenti, lì in un’alba livida con le sfilacce di nebbia, e questo non è che l’inizio di un romanzo che avvince, costringe il lettore a convivere con i personaggi, a respirare l’aria di paura, ad annusare il pericolo a ogni svolta, immerso nell’atmosfera quasi rarefatta della realtà di un’isola soffocata e dominata dalla mafia.

La scrittura di Sciascia volutamente tralascia il superfluo, è essenziale, precisa, ritaglia i protagonisti con la precisione di un bisturi nelle mani di un chirurgo estetico. Nulla è lasciato al caso e tanto meno al compiacimento, affinché l’atmosfera sia resa nel modo più esatto possibile.

Le pagine scorrono, le dita le girano impazienti e anche intimidite; il viaggio all’interno di un inferno di apparente normalità è quanto di più grande al riguardo sia mai stato scritto.

Fantasia, invenzione? Certamente, ma è un castello costruito su elementi oggettivi, su situazioni presenti, dove cambiano solo i nomi, magari anche gli eventi, ma la sostanza resta e con essa quel patema d’animo che prende chi si appresta a diventare vittima, chi riesce a mettere le mani sui colpevoli, con la certezza che, nonostante le prove, questi non espieranno mai le proprie colpe.

Tutto questo in un mondo che pare in preda al torpore, dove un capo mafioso si ritiene membro di un ordine cavalleresco, quasi un paladino al punto di tributare al suo avversario investigatore l’onore delle armi, considerandolo degno di essere chiamato uomo per la sua onestà, la sua correttezza, per essere in pratica un nemico che sta vincendo una battaglia, pur consapevole di perdere tutta una guerra.

Ci sono i legami con la politica, per non definirli addirittura, più che convivenze, identificazioni, c’è tanta amarezza nelle figure di chi è chiamato al dovere di servitore dello stato e che lo pratica fino in fondo, fra mille difficoltà, continui ostacoli da parte di esponenti di quello stesso stato per il quale lui si sacrifica.

Il romanzo di per sé è un capolavoro, ma ha anche un pregio di carattere storico, perché è uscito in un’epoca in cui il governo negava esplicitamente che esistesse la mafia, definiva certi omicidi come frutto sì della malavita, ma non di una struttura sorta come un’istituzione dentro allo stato e in antitesi allo stesso, e ciò nonostante l’evidenza dei fatti, a chiara dimostrazione che la cupola dell’organizzazione non stava a Palermo, ma a Roma.

Dal 1960, quando fu scritto questo romanzo, sono passati quasi dieci lustri, ma purtroppo è rimasto di drammatica attualità.

Da leggere, perché è stupendo e perché si sappia veramente che cos’è la mafia.

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A ciascuno il suo, di Leonardo Sciascia
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