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Futilità

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Quando era un giovane scrittore fuggito dalla Russia della rivoluzione, e del tutto ignoto, William Gerhardie scrisse una lettera gonfia di ammirazione a Edith Wharton, ricevendone in cambio un invito nella di lei villa a Hyères. Grazie a un certo uso di mondo (era pur sempre figlio di ricchi industriali inglesi trapiantati a San Pietroburgo) il timidissimo Gerhardie riuscì a mimetizzarsi fra gli altri invitati, e a non parlare con nessuno per quasi due giorni, fino a quando cioè non chiese alla sua corpulenta vicina di tavola di indicargli la padrona di casa, sentendosi rispondere un gelido: «Sono io». Solo un personaggio come questo poteva scrivere un romanzo come questo, forse l’unica comica del muto ambientata nella Russia mezza bianca e mezza rossa degli anni Venti. Tutto cade in pezzi, ma il protagonista, Nikolaj Vasil’evič, continua imperterrito a occuparsi delle sue miniere d’oro in Siberia e a coltivare l’«incantevole bouquet» delle sue tre figlie, diversamente irresistibili. Il che non gli impedisce di accogliere in casa una folla smisurata di amanti, parenti in vario grado delle medesime, impostori, parassiti e mere comparse, che danno luogo a una sgangherata e sofisticatissima commedia di equivoci, sostituzioni, tradimenti. Il risultato è il libro di un magnifico stilista cui è davvero difficile attribuire precursori o epigoni, e che sembra secernere a ogni pagina, come scrisse Giorgio Manganelli, «una delizia volatile e aspretta».



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Futilità 2018-01-05 11:57:36 viducoli
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viducoli Opinione inserita da viducoli    05 Gennaio, 2018
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Scoprire il più russo degli scrittori inglesi

William Gerhardie è stato un autore molto noto in Gran Bretagna nel periodo tra le due guerre. Il suo primo romanzo, 'Futilità', è del 1922, e venne salutato come una delle opere letterarie più importanti di quell’epoca (è da notare, al proposito, che nello stesso anno furono pubblicati l’Ulisse di Joyce e Terra desolata di T.S. Eliot): dopo una produzione letteraria piuttosto intensa, nel 1939 si isolò dal mondo, affetto da depressione, per la scrittura di un nuovo romanzo, che però non vide mai la luce. Morì ottantaduenne, dimenticato da tutti, nel 1977. Scarsa è ovviamente la sua fortuna editoriale in Italia: l’unica opera pubblicata mi risulta sia proprio 'Futilità', edita prima da Einaudi sul finire degli anni ’60 e quindi – nella stessa traduzione di Gianni Celati – da Adelphi nel 2003. La casa editrice di Milano peraltro annunciava in quella occasione la prossima pubblicazione di due sue altre opere, tra cui 'The polyglots', del 1925, considerato dai più il suo capolavoro, ma ciò non è purtroppo avvenuto.
Prima di addentrarci nell’analisi della sua opera d’esordio, è opportuno dire qualcosa in più della biografia dell’autore, perché questa può aiutare a comprendere meglio la genesi e i contenuti di 'Futilità'.
Gerhardie infatti nacque nel 1895 a San Pietroburgo, rampollo di una famiglia di industriali di origine belga, e lì visse sino al 1913. Tornò nella sua città natale durante la prima guerra mondiale, come addetto all’ambasciata britannica, e assistette alle rivoluzioni del 1917. Negli anni successivi fu inviato in Siberia al seguito della spedizione militare con la quale le potenze occidentali tentarono di rovesciare il nascente stato sovietico.
Gerhardie aveva quindi una profonda e diretta conoscenza della Russia, della sua cultura e della sua società, anche se di quest’ultima probabilmente limitata alle classi sociali che frequentava.
Non sorprende quindi che sostanzialmente russo sia il suo romanzo d’esordio, scritto a Oxford poco dopo il suo rientro definitivo in Gran Bretagna. Futilità non è solamente un romanzo ambientato in Russia, ma è – come vedremo – impregnato di cultura e di letteratura russa, tanto che il suo autore viene spesso definito anglo-russo.
'Futilità' narra le tragicomiche vicende della famiglia di un patriarca della piccola aristocrazia russa, Nikolaj Vasil’evi? Bursanov, negli anni che vanno dall’anteguerra al periodo della guerra civile. L’io narrante è un giovane di cui non sappiamo molto, se non che si chiama Andrej Andreevi?, che è in qualche modo inglese ma si trova a San Pietroburgo qualche anno prima della rivoluzione, che vi ritorna – dopo essere andato a Oxford – nel 1917 come militare addetto all’ambasciata britannica, e che ancora dopo viene inviato a Vladivostok nelle retrovie della guerra civile. Nonostante gli evidenti riferimenti autobiografici, Gerhardie ci informa subito, in una nota che precede il testo, che "l’io di questo libro non è l’autore".
Andrej Andreevi? frequenta i Bursanov perché è innamorato, inizialmente forse corrisposto, di Nina, la seconda delle tre giovani figlie (all’inizio del romanzo hanno 16, 15 e 14 anni) di Nikolaj Vasil’evi?. La situazione della famiglia è estremamente articolata. Nikolaj Vasil’evi? convive con una donna di origine tedesca, Fanny Ivanovna, dopo essersi separato dalla prima moglie, madre delle tre ragazze, che a sua volta vive con un dentista ebreo (il quale probabilmente è il padre di Vera, l’ultima ragazza). Ora però si è innamorato di Zina, una diciassettene con una famiglia allargata fatta, oltre che dei genitori, di fratelli, zii e anziani nonni, e vorrebbe sposarla: per questo ovviamente i rapporti tra Nikolaj Vasil’evi? e Fanny Ivanovna sono tesi, anche se egli non ha intenzione di abbandonare la compagna, ma semplicemente di aggiungere Zina al ménage. La casa dei Bursanov, oltre che da Andrej Andreevi?, è frequentata dal barone Wunderhausen, fidanzato di Sonja, la prima figlia, e dal Kniaz, un presunto principe in disgrazia che conduce una silenziosa esistenza da parassita.
Nikolaj Vasil’evi? mantiene tutti: ha un cospicuo patrimonio ed è proprietario di alcune miniere d’oro in Siberia, che sino ad allora non hanno reso nulla ma dalle quali si aspetta a breve importanti profitti. Così, oltre che della sua famiglia e dei suoi ospiti, si fa carico della famiglia tedesca di Fanny Ivanovna, di quella di Zina e della ex moglie, che intende divorziare avendo accalappiato un ricco austriaco.
Nella seconda, breve parte del romanzo, Andrej Andreevi? torna a San Pietroburgo poco prima che scoppi la rivoluzione: riallaccia i rapporti con i Bursanov, la cui situazione si è ancora complicata. Fanny Ivanovna, essendo tedesca, rischiava di essere rimandata in patria: per questo ha sposato un signore malato, che naturalmente si è installato in casa; l’ex moglie del patriarca non ha sposato il suo austriaco, cui l’autorità ha confiscato tutti i beni, mentre Sonja ha sposato il barone Wunderhausen, che non avendo un soldo vive nella casa. Per il resto nulla è cambiato, se non che la guerra e la rivoluzione allontanano ulteriormente la prospettiva di un utile dalle miniere. Gerhardie descrive la rivoluzione di febbraio prima e quella di ottobre poi come un grottesco periodo di confusione totale, nel quale neppure i protagonisti, soldati, operai, borghesi, sanno bene cosa stia succedendo e come comportarsi. Traspare da parte dell’autore un atteggiamento fortemente scettico nei confronti dei grandi sommovimenti sociali di quel periodo.
Nella successiva parte, che occupa quasi la metà del romanzo, la scena si sposta a Vladivostok, dove Andrej Andreevi? giunge al seguito delle autorità militari inglesi. Qui ritrova inaspettatamente i Bursanov, che hanno lasciato Pietrogrado per tentare di prendere possesso delle mitiche miniere d’oro. Naturalmente insieme alla famiglia si è spostata tutta la corte dei mantenuti da Nikolaj Vasil’evi?: ancora una volta nulla è cambiato, se non per il protagonista, che comprende che il suo amore per Nina non è stato in realtà mai corrisposto. La scena si fa ancora più corale, in quanto vi compaiono generali bianchi, ammiragli inglesi, autorità dei vari governi che si susseguono in città, marinai statunitensi che corteggiano le tre sorelle. In una città fangosa e squallida, in un clima che si fa più surreale via via che diventa sempre più evidente che l’armata rossa sta vincendo, l’unico punto fermo è la certezza di Nikolaj Vasil’evi? di poter riprendere possesso delle sue miniere, certezza ovviamente frustrata dagli eventi.
Il giorno della partenza degli inglesi, quando tutta la famiglia Bursanov (meno Nina) si reca al molo per salutare Andrej Andreevi?, alla domanda: ”che cosa farà?” Nikolaj Vasil’evi? risponde :”beh… aspetterò […] Non credo che ci vorrà molto, ora”.
Nel breve epilogo, Andrej Andreevi? torna qualche tempo dopo a Vladivostok, occupata dai giapponesi, per amore di Nina, ma trova le tre sorelle in procinto di andare a Shangai, dove le avrebbero raggiunte i marinai americani loro corteggiatori (Wunderhausen, rivelatosi un falso barone, se ne era andato). Nina rivela ad Andrej Andreevi? di non averlo mai amato e a quest’ultimo non resta che vederla partire dal molo, mentre Nikolaj Vasil’evi?, con tutto il resto della ciurma, rimane in città sognando ancora di recuperare le sue miniere.
La prima parte del romanzo, nella quale cominciamo a comporre il complicato puzzle composto dai Bursanov e sodali, è intrisa, come si può facilmente arguire, di rimandi alla letteratura russa che Gerhardie amava di più. Se la situazione generale della famiglia e il tono del racconto possono essere definiti in qualche modo un mix di Gogol’ e Gon?arov, è sicuramente ?echov a farla esplicitamente da padrone, sin dal titolo di queste pagine: Le tre sorelle. A parte i richiami più o meno letterali (ad un certo punto i protagonisti vanno a teatro a vedere proprio il dramma ?hecoviano) ?echov è il riferimento precipuo del romanzo in quanto due aspetti precisi della sua poetica stanno alla base dell’opera di Gerhardie: il fatto che ?echov sia il cantore dell’attesa della vita che in realtà non arriva mai perché la vita consiste proprio in quell’attesa, e che per dare forza a questa sua idea si avvalga di un luogo narrativo che è al confine tra commedia e tragedia.
Ma, come dice Nina durante un litigio con Andrej Andreevi?, che aveva accusato la famiglia proprio di sembrare uscita da una pagina di ?echov, egli ora è morto. Siamo infatti in pieno ‘900 e, pur prendendo le mosse da ?echov, Gehardie è pienamente consapevole che non è più possibile scrivere come lui. Subito dopo, infatti, dice, per bocca di Andrej Andreevi?: ”E infatti quest’è il problema della letteratura moderna: un romanzo non è un buon romanzo se non è verosimile, e d’altronde non c’è vita degna d’essere raccontata, se non è una vita fuori dall’ordinario; ma essa apparirà poi improbabile come un romanzo”. L’autore sceglie quindi l’unica via che gli rimane per fare letteratura: raccontarci futilità, il nulla, e raccontarci come questo nulla alligni nel periodo più convulso che la storia ricordi, nel paese dove queste convulsioni raggiungono il massimo grado di frenesia. Così, i drammatici contorcimenti causati dalla rivoluzione e dalla guerra sono anch’essi futilità, e fanno da contraltare solo apparente alla immutabile situazione di attesa dei Bursanov, perché, come rileva Fanny Ivanovna verso la fine del romanzo riferendosi agli anni di Pietroburgo: ”Sentivamo che la crisi non poteva durare ed attendemmo l’esplosione. Ma non vi fu mai esplosione. La crisi si trascinò trasformandosi in crisi cronica; […] E nulla accade, Non accadrà nulla. Nulla accade…”. Non siamo di fronte alla necessità che tutto cambi perché tutto rimanga come prima, ma alla negazione di un prima e di un dopo, alla cronicità della crisi come dato strutturale, che impedisce qualsiasi visione in prospettiva. Una metafora di questo stato di cose, che appare molte volte nel romanzo, è quella del ballo, cui i protagonisti si dedicano anche nelle situazioni più disperate. Una radicalizzazione della posizione di ?echov, quindi, una sua piena trasposizione al ‘900, la coscienza che le sue analisi esistenziali possono essere applicate non solo alla provincia russa ma allo stato del mondo. In questo, essenzialmente, sta la modernità di Gerhardie, e forse la necessità di una sua piena riscoperta. Di converso, se un appunto si deve muovere a questo romanzo, è proprio dato dall’aver ridotto anche un avvenimento che avrebbe sconvolto il mondo, l’ondata rivoluzionaria del 1917, a episodio quasi folcloristico, fatto di autocarri di proletari in gita di piacere, di soldati ubriachi e di rivoluzionari che per sbaglio cantano un inno allo Zar. Gerhardie da buon inglese ricco parteggia apertamente per la rivoluzione borghese di febbraio, mentre – come emerge anche nelle pagine ambientate a Vladivostok – non ha alcuna idea di cosa sia il comunismo e di cosa vogliano i bolscevichi, che vede solo come dei pazzi assetati di sangue.
Uno degli elementi di grande fascino del libro, che lo ammanta di una ambiguità altrettanto moderna che il senso della crisi, è dato dal fatto che Gerhardie ci consegna un messaggio così disperante in un involucro leggero e ironico, che è costituito da una riuscita miscela di humor inglese (parlando di un ammiraglio britannico dice ad un certo punto: ”mi dispiacque separarmi da quel vecchio. V’era in lui qualche cosa che lo rendeva quasi umano”) e vis umoristica russa. L’autore ha assorbito in profondità la lezione dei grandi maestri russi dell’800 (soprattutto come detto Gogol’ e Gon?arov) e ne fa uso a piene mani sia per descriverci i personaggi e l’atmosfera che circonda il clan Bursanov sia in alcune situazioni riguardanti la mentalità russa – che Gerhardie guarda indubbiamente con un filo di aristocratico razzismo tipicamente inglese – e l’incompetenza dei funzionari governativi. Un altro personaggio gogoliano è Zio Kostja, un parente di Zina, considerato dalla famiglia l’intellettuale del gruppo perché, alzandosi tardi la mattina, non fa altro che scrivere, pur non avendo mai pubblicato nulla. Al di là del risvolto satirico il personaggio permette a Gerhardie di sottolineare incisivamente l’inutilità della letteratura.
La futilità del titolo è perciò per l’autore totalizzante, nel senso che tutto è futile: futile è la vita, dalla quale non dobbiamo attenderci nulla che non sia ciò che è; futili sono gli sforzi per cambiare la società, che altro non portano se non crisi, confusione e dolore; ma futili e finanche comici sono anche i tentativi di andare contro questi cambiamenti, assommando crisi alla crisi; futile è infine scrivere cercando di dare un senso a questa attività. Si può non essere d’accordo, ma è indubbio che Gerhardie ci pone, facendoci sorridere, questioni su cui riflettere attentamente, anche alla luce dei quasi cento anni passati da allora. Chissà se avremo modo di leggere altro di lui: me lo auguro.

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