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Le cose che abbiamo perso nel fuoco
 
Le cose che abbiamo perso nel fuoco 2023-04-18 04:56:21 enricocaramuscio
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    18 Aprile, 2023
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Il male adesso

“Non devo inventarmi Chtulhu, mi basta un fiume avvelenato e dei poliziotti. Quello è il male adesso. L’orrore nella nostra realtà è vero, è intorno a noi”. Così Mariana Enriquez, stimata giornalista e astro nascente della letteratura sudamericana, parla a proposito della sua raccolta di dodici racconti dalle cupe pennellate horror e dei paragoni che si sprecano con grandi maestri del genere quali Poe, King e, appunto, il Lovecraft di cui la scrittrice argentina cita il mostruoso personaggio. In effetti, se le atmosfere, le vicissitudini, i personaggi, l'incedere, creano nel lettore un richiamo quasi automatico verso maestri del genere, è pur vero che la peculiarità delle storie racchiuse in "Le cose che abbiamo perso nel fuoco" sta nel fatto che il vero orrore scaturisce più da fatti, situazioni, circostanze tristemente legate alla cronaca, all'attualità, alla quotidianità di situazioni reali troppo spesso crude, violente, che dalla macabra, irreale fantasia che caratterizza spesso le opere della categoria in questione. Infatti un fiume avvelenato dagli scarichi delle fabbriche, le conseguenze che le sue acque putride hanno su chi non può fare a meno di utilizzarle, la polizia che getta in acqua i corpi di due detenuti, fanno decisamente più paura degli spiriti degli stessi che tornano a circolare dopo la morte. Così com'è più spaventosa la situazione di un bambino in catene costretto a subire soprusi del fatto che il suo spettro si nutra di animali vivi. Perché la violenza fisica e psicologica che troppo spesso i mariti esercitano sulle proprie consorti terrorizza più di qualsiasi testa di scheletro, i genitori tossici che vendono i figli per potersi comprare la droga fanno decisamente più orrore di qualsiasi stregoneria, perché nessun fantasma potrà mai infestare un edificio quanto l'incancellabile ricordo delle violenze che lì dentro furono perpetrate dalla dittatura militare. La forza dell'opera di Mariana Enriquez sta proprio nel partire da realtà che troppo spesso siamo costretti a conoscere dalla stampa, dalle televisioni, a volte dalle nostre stesse strade, dalle nostre case o da quelle dei nostri vicini, la sua maestria sta nel saperle egregiamente mixare con elementi religiosi, culturali, con tradizioni e superstizioni, con il giusto equilibrio tra realtà, fantasia e folclore, e in una penna che sa essere cinica, pungente, accusatrice, ma a suo modo anche calda e coinvolgente. Dodici storie, ambientate per lo più a Buenos Aires, ma in generale in un'Argentina nera, soffocante, spesso povera, disagiata, violenta, dove le protagoniste sono sempre ed esclusivamente donne e gli uomini appaiono come fastidiose comparse, atroci antagonisti, patetici antieroi. Donne forti e donne sopraffatte, donne indomite e donne stanche, donne razionali e donne passionali, alle prese con mostri molto più pericolosi di quelli creati dalla fantasia e troppo spesso costrette a gesti estremi di coraggio, stoicismo, incoscienza, anche ai limiti dell'autolesionismo, come nel caso del racconto che dà il titolo alla raccolta. "Molte donne cercavano di non stare da sole in pubblico per non essere infastidite dalla polizia. Tutto era diverso da quando erano iniziati i roghi. Erano trascorse poche
settimane da quando le prime donne sopravvissute avevano iniziato a mostrarsi in pubblico. A prendere l'autobus. A fare la spesa al supermercato. A prendere il taxi e la metropolitana, aprire conti correnti bancari e godersi un caffè ai tavoli all'aperto dei bar, con le orribili facce illuminate dal sole del pomeriggio, reggendo la tazze con dita a cui talvolta mancavano delle falangi. Avrebbero trovato lavoro? Quando si sarebbe arrivati a quel mondo ideale di uomini e donne mostruose?...Silvina sentiva di avere le lacrime agli occhi per la rabbia. María Helena aprì la bocca e disse qualcos'altro, ma Silvina non la stette a sentire e sua madre proseguì. Le due donne continuarono a conversare alla luce malata della sala dei colloqui del carcere, e Silvina le sentì solo dire che erano troppo vecchie, che non sarebbero sopravvissute a un rogo, un'infezione le avrebbe ammazzate in un secondo, ma Silvinita, ah, chissà quando si deciderà Silvinita, sarebbe un'ustionata magnifica, un autentico fiore di fuoco."

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